Il mito del PCI. Intervento di Francesco Galofaro

di Francesco Galofaro, Università di Torino

L’anniversario della fondazione del PCd’I ha ormai un significato religioso nel senso deteriore del termine. La religione può infatti avere anche un significato positivo, se cambia davvero la vita del fedele. Altre volte, le manifestazioni esteriori di religiosità dimostrano solo omologazione e giustificazione dell’esistente. Che siano ortodossi, cattolici o protestanti, tutti i cristiani commemorano la morte di Gesù, ma ciascuno lo fa nella propria chiesetta. Tutti pregano per l’unità della Chiesa, ma in orari differenti. Allo stesso modo, tutti i comunisti commemorano l’incredibile evento che ebbe luogo nel 1921 e che ha sincronizzato i calendari di tutti i Paesi del mondo. Ma ciascuno lo fa in solitudine o in piccoli gruppi, col cuore colmo di contrizione e di tristezza come al cimitero delle idee, senza che questo abbia alcuna conseguenza sulla prassi politica che quelle idee richiederebbero, se fossero vive. Come è possibile che dei comunisti, eredi di una forza che ha cambiato il mondo nel XX secolo, si siano ridotti nell’indigenza politica più nera?

L’hanno scorso, in occasione del centenario della fondazione del PCI, pubblicai su MarxVentuno (rivista) una rassegna di articoli sul motivo per cui il Partito comunista italiano si è sciolto nel 1991. Si trattava in massima parte di risposte alle prese di posizione di esponenti della politica e della cultura socialdemocratica, la quale giudica la scissione del ’21 un grave errore. Come scrivevo allora, curiosamente nessuno degli autori di parte comunista prendeva in considerazione una prospettiva suggerita da Gramsci: talvolta, nella storia della democrazia, è il sistema politico a entrare in crisi. Ciascuno dei partiti che ne fanno parte non riesce più a rappresentare i propri elettori. Nel tentativo di difendere i propri interessi, la borghesia affida la soluzione a un leader carismatico, il quale aggira i partiti e instaura un rapporto diretto con la massa. Gramsci rifletteva evidentemente sul fascismo; la sua analisi, tuttavia, si presta anche a leggere l’ascesa di leader come Silvio Berlusconi, Mario Monti, Mario Draghi, come una risposta a momenti di delegittimazione complessiva del sistema dei partiti politici e della democrazia borghese. La scomparsa del PCI, la riduzione del PRC ai minimi termini vent’anni dopo e infine la diaspora dei comunisti sono da inquadrare in questa cornice: nei primi anni ’90, il PCI si scinde e una parte sposa la socialdemocrazia; la DC scompare; il PSI diviene del tutto ininfluente; il voto si dirige verso forze percepite come esterne al sistema morente: Lega e MSI. Infine, Silvio Berlusconi fonda Forza Italia: un movimento politico composto da esperti di marketing e da ceto politico riciclato, non in grado di interferire nel rapporto che il leader intratteneva con il proprio popolo attraverso il teleschermo. 

Quasi vent’anni dopo, nel 2008, l’annichilimento della sinistra arcobaleno è solo un preludio: tra il 2009 e il 2011 si consuma la parabola del Popolo della Libertà, che segna l’apice e la fine del centrodestra berlusconiano; subentra il governo Monti, designato dalla UE per commissariare l’Italia; contro il sistema morente abbiamo le brevi stagioni dei sindaci, la vittoria di approfittatori come Renzi alle primarie del PD e l’ascesa del Movimento 5 stelle, che impedisce la nascita del governo Bersani. 

Per venire all’attualità, nel 2021 fa bancarotta politica il Movimento 5 stelle, che aveva saputo suscitare grandi aspettative di cambiamento nell’elettorato, segnando così il decennio parlamentare che ormai volge al termine; è Mario Draghi a occupare oggi il ruolo di leader carismatico, appoggiato dalla stragrande maggioranza dei partiti. Tuttavia, la fiducia degli Italiani va al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio; il governo riscuote poco più del 50% dei consensi, mentre i segretari delle altre forze politiche non vanno oltre il 30%. 

La scomparsa o la riduzione all’irrilevanza delle forze politiche che hanno incarnato i valori del comunismo negli anni ’46-’90 e ’91-’11 è quindi legata all’esplosione del sistema politico del quale facevano parte. Il motivo per cui le organizzazioni comuniste non sono più riuscite a rappresentare il proprio elettorato non può essere cercato esclusivamente dentro quelle forze politiche. Tuttavia, i comunisti non sembrano in grado di accettare questa elementare verità, e lo sono per motivi che hanno a che fare con il mito del Partito comunista. 

Come scrivevo nell’articolo, le interpretazioni sulla fine del PCI si dividono in quattro tipi, e ciascuna corrisponde a una specifica filosofia della storia:

1) Progresso ininterrotto: il PCI si è evoluto nel tempo e le sue idee non sono mai morte. Coloro che la pensano così identificano in questo o quel partito o partitino attuale il vero erede di quei valori.

2) Decadenza ininterrotta: il PCI si è allontanato da uno stato di purezza ideologica originaria. Il momento della mutazione genetica è diverso a seconda delle idee di coloro che fanno proprio questo punto di vista: se sono trotzkisti lo collocano negli anni ’30, altrimenti la catastrofe è la svolta di Salerno, o la morte di Togliatti, o il Compromesso storico, ecc. Per far rinascere i comunisti, occorre tornare alle origini.

3) Incidente: la fine del PCI è dovuta a un momento di insensatezza in una storia luminosa e impeccabile. Un esempio è la tesi del tradimento dei dirigenti alla Bolognina.

4) Aggiustamento: per fortuna, alcuni comunisti conservano ancora una visione dialettica della storia, per cui il PCI nelle scelte politiche ha cercato una sintesi tra i propri valori e le condizioni politiche del proprio presente, talvolta con successo, talvolta venendo sconfitto.

Come tutti i miti, anche quello del PCI serve a sanare una contraddizione nell’esperienza. In quanto mito, la parabola dell’ascesi e della caduta delle organizzazioni comuniste non serve a spiegarne la storia per trarne lezioni sul futuro, ma a giustificare un conflitto in cui vivono i comunisti del presente. Si direbbe infatti che i valori comunisti siano ancora attuali, data la serie di fallimenti a catena che caratterizzano la fase (crisi economica, crisi ambientale, crisi sanitaria); se il capitalismo non riesce a far fronte ai problemi della stragrande maggioranza delle persone, perché queste non votano per organizzazioni comuniste e non si attivano politicamente per farle vivere? Come mai le forze comuniste all’estero sono attive e determinanti in moltissimi Paesi del mondo, dal Perù alla Cina, dalla Russia al Belgio, meno che in Italia? Perché ogni cartello elettorale, ogni federazione, ogni scissione, ogni progetto per riportare in vita le forze comuniste è fallito miseramente?

Le risposte sono molte: inadeguatezza dei dirigenti, frammentazione delle sigle e parole d’ordine inflazionate, analisi politiche rozze e sbagliate. I comunisti hanno bruciato le occasioni che si sono presentate, come l’avventura de L’altra Europa con Tsipras, non ottenendo risultati percettibili dai propri elettori. È difficile negare che la sinistra europea nel suo complesso non sia vista come una forza di cambiamento e di progresso, quanto piuttosto come la stampella che legittima un’Unione europea per nulla democratica, saldamente liberale e genuflessa di fronte agli interessi di potenti e lobby. Inutile specificare che il contesto è difficile e segnato da disimpegno politico delle masse, disinformazione, egemonia liberale. 

C’è però ancora una spiegazione di ordine sistemico da considerare: i comunisti sono usciti dal sistema delle forze politiche nel 2008. Sono esterni al sistema delle forze votate dagli elettori perché considerate credibili, sia che si presentino come forze della conservazione o del cambiamento. I comunisti non funzionano nemmeno come voto di protesta: oggi il voto di autodifesa del cittadino frustrato e isolato, ignorato e minacciato, depoliticizzato e disperato va a Giorgia Meloni, come negli anni ’90 andava a Umberto Bossi e nel 2013 a Beppe Grillo. Tuttavia, il decennio apertosi nel ‘13 sta finendo, il vecchio sta morendo ma non giunge ancora il nuovo che lo sostituirà. Se Mario Draghi rappresenta l’ultima ancora di un sistema politico la cui credibilità è naufragata, è ancora possibile per una forza comunista che sappia reinventare se stessa e reinterpretare il presente presentarsi come del tutto estranea al sistema morente, e legittimarsi come contendente politico per il futuro che verrà.