I comunisti e la lotta contro la guerra

di Roberto Gabriele

C’è una pessima abitudine in Italia che è quella di dichiararsi comunisti a prescindere.

La cosa è tanto più grave in un momento come questo in cui le provocazioni americane e il servilismo del governo italiano ci stanno portando sull’orlo di una guerra mondiale.

Sulle ragioni di ciò che sta avvenendo c’è molta confusione in giro dovuta alla massiccia propaganda imperialista a reti unificate che, da quando è iniziata la guerra in Ucraina, sta bombardando gli italiani con un cumulo di menzogne sulle ragioni del conflitto. C’è bisogno quindi di chiarezza e certamente questa non può venire da settori politici che pur essendo contro la guerra si fermano a un rifiuto generico, che non sa spiegare le vere ragioni del conflitto, le responsabilità e la dinamica dell’imperialismo che sta alla base di ciò che sta accadendo. In questo contesto c’è bisogno che i comunisti, i quali sull’analisi dell’imperialismo fatta da Lenin hanno fondato il loro atto di nascita, siano in grado di orientare milioni di persone per portarle a combattere sulla barricata giusta.

Ebbene, proprio su questo primo aspetto della questione si registra un’assenza che rende debole lo stesso movimento contro la guerra. L’assenza riguarda innanzitutto un’ambiguità di posizioni sulla natura del conflitto in Ucraina. Trattandosi della Russia guidata da Putin che decide di intervenire dopo che per otto anni l’imperialismo occidentale a guida americana ha armato i nazionalisti, portato avanti una guerra civile contro il Donbass, progettato un allargamento della NATO per completare l’accerchiamento contro un paese non omologabile, il primo compito dei comunisti dovrebbe essere quello di sviluppare un ampio lavoro di informazione per spiegare i fatti, ma soprattutto dovrebbe conquistare una capacità di egemonia nell’orientamento politico di massa. C’è traccia di tutto questo in Italia? Oppure l’opposizione alla guerra, oltre ad essere portata avanti nel solito modo movimentista, ha ridato la direzione a quei gruppi che sulle questioni di fondo, per la loro impostazione ideologica, sono portati a negare le ragioni oggettive che hanno provocato la guerra? La domanda, alla luce dei fatti, è ovviamente puramente retorica.

Fortunatamente ci sono settori di compagni, di compagne e di gente di sinistra che pur non organizzati in partito hanno avuto una capacità critica di lettura delle cose che li ha portati a contrastare la vulgata della propaganda di regime sulla guerra e anche a respingere la logica dei né…né che è riemersa in quella sinistra abituata a giudicare le guerre non col metro di un’analisi corretta di come si muove l’imperialismo, ma sulla base di giudizi che prescindono da una valutazione razionale delle forze in campo e dalla natura delle contraddizioni.

Attenendoci alla situazione italiana c’è dunque da constatare che ancora una volta si conferma la marginalità di quei gruppi comunisti organizzati in ‘partiti’ che non riescono ad uscire dal guscio dell’identitarismo e svolgere la funzione di orientamento che sarebbe necessaria.

Ma la questione non è solo questa. Si tratta anche di prendere in considerazione un altro elemento che caratterizza coloro che pur avendo la pretesa di rappresentare i comunisti non svolgono la funzione che dovrebbe essere loro propria. Esso consiste nel fatto che, a parte qualche apparizione folcloristica di bandiere con la falce e il martello, nella sostanza l’impegno non è assolutamente commisurato alla gravità della situazione. Il ruolo dei comunisti non è solo quello di dire le cose giuste, ma quello di dimostrare di essere all’altezza dei compiti che la situazione pone.

La storia del PCI, fino alla sua trasformazione genetica, è tata una grande storia proprio perchè ha saputo legare le parole a un’azione che ha convinto settori importanti della società. Dove sono oggi questi comunisti in Italia?

E’ dalla liquidazione del partito comunista che quelli che si riorganizzano, o dicono di volersi riorganizzare nel nome del comunismo dimostrano una sostanziale incapacità di legare le intenzioni ai fatti. Velleitarismo e massimalismo ne sono le caratteristiche, mentre manca il ragionamento politico sul che fare.

Questa situazione non si verifica però solo ora con la guerra all’Ucraina, ma perdura da decenni e si è manifestata in tutte le circostanze in cui sono emerse importanti contraddizioni politiche e sociali, a partire dal rapporto con le esigenze dei lavoratori, in cui il ruolo dei comunisti era necessario non solo per impedire le sconfitte, ma anche per produrre nel vivo della realtà una crescita di forze politicamente organizzate.

Quanto detto finora non serve, sia chiaro, a riattivare polemiche, ma ad aprire una discussione di fronte a una situazione di guerra mondiale incombente. Proprio ora infatti si sente la necessità che quelli che si richiamano al comunismo e alla storia del movimento comunista escano dalle finzioni organizzative in cui si sono rinchiusi per riaffrontare in campo aperto i nodi che si sono accumulati. Tutto ciò naturalmente al di fuori dei proclami e impegnandosi seriamente non solo nelle analisi corrette delle contraddizioni, ma con un’organizzazione comunista che sappia rapportarsi alla realtà. Sempre con quel pessimismo dell’intelligenza (nel misurarci con l’analisi) e quell’ottimismo della volontà (che non è soggettivismo ma determinazione a raggiungere un obiettivo concreto). Questo abbiamo capito da ciò che sosteneva Antonio Gramsci.

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