Forum internazionale sulla democrazia a Pechino. L’intervento di Francesco Maringiò

Nei giorni 4-5, 9-10 e 14-15 dicembre, si è tenuto a Pechino (ed online per gli ospiti stranieri) un Forum internazionale sulla democrazia, promosso dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, dal China Media Group e dall’Ente cinese per la pubblicazione in lingue estere di Pechino. Questo simposio, dal titolo: “Forum internazionale sulla Democrazia: i valori umani condivisi” ha visto la partecipazione di importanti intellettuali e funzionari governativi cinesi, assieme a giornalisti, esperti e studiosi internazionali.

L’evento assume una significativa importanza, dato che tratta un tema nevralgico del dibattito politico internazionale.

Per l’Italia hanno preso parte Romeo Orlandi, presidente di Osservatorio Asia (qui il video del suo intervento: https://bit.ly/3EVDmRI) e Francesco Maringiò, il cui intervento integrale è qui riprodotto.

Democrazia liberale e democrazia socialista

Nei paesi a capitalismo maturo la configurazione dell’organizzazione del governo assume una formula che viene definita col termine di democrazia liberale, per quanto tale affermazione può essere considerata a tutti gli effetti un vero e proprio ossimoro, dal momento che allude alla fusione fra due tradizioni politiche che erano state a lungo distinte o addirittura opposte: quella di un liberalismo che per lo più non era democratico e quella di una democrazia che tendenzialmente non era liberale. Nella concezione occidentale, infatti, la democrazia si caratterizza per una combinazione di diritti universali (l’anima liberale) e sovranità popolare attraverso il suffragio universale (l’anima democratica). Tale formula, viene considerata la carta di identità della natura democratica di un sistema e viene vissuta come la democrazia tout-court, o comunque come l’unica forma di governo auspicabile, in ogni luogo ed in ogni tempo. E poco importa se la fruizione dei diritti avviene soltanto sul piano simbolico e per questa via si sostanziano le forme della democrazia ma non si intacca minimamente la sua sostanza, ossia i rapporti di proprietà che intercorrono tra gli individui e che stabiliscono chi esercita potere e chi è subalterno. Del resto, basta osservare quanto accade negli Stati Uniti, patria della democrazia liberale, per rendersi conto di come il suo sistema democratico si basi sull’esclusione sistematica dai diritti politici, dalla sanità pubblica o dal diritto all’istruzione di una parte rilevante della propria popolazione e, in particolar modo, di quei gruppi sociali ed etnici svantaggiati, formalmente detentori di diritti universali e di diritto di voto, ma realmente relegati in un piano di subalternità rispetto alle classi dominanti.

Eppure, l’Occidente considera il proprio modello di democrazia come assoluto ed eterno, cosa che gli impedisce di cogliere il carattere temporale e transitorio del proprio ordinamento e gli proibisce di confrontarsi con le altre forme di organizzazione sociale e politica di natura completamente diversa. Non solo: i pretoriani di questo sistema non si rendono conto che proprio l’ordinamento democratico che si afferma in Occidente è figlio di quel conflitto con le istanze rivoluzionarie che questo sistema ha combattuto. La democrazia occidentale si sviluppa anche grazie al contributo propulsivo della lotta delle classi subalterne sul piano domestico e di quello dei popoli e dei paesi del Terzo Modo o dei paesi non capitalistici sul piano internazionale. Ed il compromesso sociale che è nato, attraverso una redistribuzione di parte di potere e di ricchezze, è stato alla base della sua capacità di egemonia nei paesi capitalistici dell’Occidente avanzato. Prendiamo il caso del suffragio universale, che la democrazia occidentale usa come base della sua legittimazione. Questo è il frutto del superamento delle tre grandi discriminazioni (quella di sesso/genere, quella di censo e quella di razza) che si rende storicamente possibile grazie al contributo del movimento comunista sul piano internazionale e del movimento operaio sul piano dei singoli stati. La stessa costruzione dello Stato Sociale in Occidente non sarebbe stata possibile senza il ciclo di lotte sociali e rivoluzionarie.

Col venir meno della sfida rappresentata dall’Urss è emerso un processo di involuzione del capitalismo occidentale, nell’illusione di una “vittoria finale” delle democrazie liberali. Questo ha decretato una condizione di barbaro sfruttamento ed oppressione nel cuore dell’Occidente e la ripresa di una aggressività imperialistica sul piano mondiale. Tale vessazione produce un’enorme sofferenza sociale e pertanto aiuta una sostanziale demistificazione della retorica democratica che viene così percepita nella sua vera essenza da una parte sempre crescente della popolazione mondiale, mettendo le basi per la ripresa della conflittualità e della lotta antagonistica e di sistema. È sempre più vasta la consapevolezza che i princìpi spacciati come universali servono invece gli interessi particolari delle grandi potenze e rappresentano la negazione della democrazia tra le nazioni e tra i popoli.

Abbiamo accennato prima al ruolo del movimento comunista nella lotta contro le tre grandi discriminazioni. Tra queste, il superamento della terza, ossia quella razziale, merita un’attenta riflessione.

Prima della Rivoluzione d’Ottobre il mondo che descrive Lenin è quello caratterizzato dalla pretesa di poche nazioni elette di attribuirsi il privilegio esclusivo della formazione dello Stato, negandolo alla maggioranza della popolazione mondiale. Il riflesso, sul piano domestico, è la negazione dei diritti alla parte della popolazione di origine coloniale. Fu pertanto la rivoluzione bolscevica ad indicare la strada per spezzare questo meccanismo di gerarchizzazione di nazioni e popoli. E basta guardare alla pretesa di alcune nazioni di esercitare una sovranità ben al di là del proprio territorio nazionale e di dichiarare superata la sovranità di altri paesi, per renderci conto di come si riproduca identicamente la dinamica dell’espansione coloniale ed imperialistica, in base alla quale gli aggressori si rifiutano di riconoscere come stati sovrani i paesi aggrediti. Non solo: la pretesa che altri paesi e popoli adottino il sistema di democrazia liberale, perché gli venga riconosciuta una sorta di legittimità democratica, rappresenta una forma palese di ingerenza e sopraffazione, che calpesta le diversità storiche, culturali e sociali esistenti tra nazioni e popoli.

Prendiamo l’esempio delle elezioni in regime di competizione multipartitica e della convinzione che esse rappresentino la forma unica di organizzazione della sfera pubblica di una nazione. E pensiamo di imporre questo sistema a quei paesi che sono oggi oggetto di pressioni ed ingerenze da parte delle potenze imperialiste. Chiediamoci sinceramente: che scelta avrebbe quel popolo di scegliere liberamente un partito, se la sua sovranità è continuamente tenuta sotto costante ricatto militare, economico e commerciale? Quello che si produrrebbe nel concreto sarebbe, per dirla con le parole di Gramsci, la scelta tra l’ordine borghese o la fame. Al giorno d’oggi è matura in ampi settori della popolazione la consapevolezza che in Occidente si assiste, soprattutto dopo il ciclo di restaurazione iniziato nell’89, non già ad una competizione multipartitica, ma ad una gara nel quadro di un “monopartitismo competitivo”, dove i singoli partiti rappresentano le correnti di un unico grande partito liberale di cui ne condividono l’impianto strategico ed un set di valori. Questi partiti, poi, sono accomunati dalla lotta a quelle frazioni che mettono in discussione l’assetto fondamentale del sistema, molto spesso impedendo loro, di fatto, di poter accedere alla competizione elettorale (ed infatti, in molti paesi, la maggioranza dei cittadini non va a votare). Che valore democratico può mai avere questo sistema per il resto del mondo?

La Cina, che per storia e cultura proprie ha seguito uno sviluppo completamente diverso a quello occidentale e che ha subito la violenza di quelle pretese democrazie che intendevano assoggettarla con la forza delle proprie cannoniere, rappresenta per l’Occidente una straordinaria occasione di relativizzare la concezione che il capitalismo occidentale ha di sé, nel confronto con il “totalmente altro”. Lo sviluppo cinese, inoltre, ha fatto tesoro di quello che il filosofo Domenico Losurdo, a cui devo tanto della conoscenza della Cina contemporanea, ha definito come lungo “processo di apprendimento”, attraverso il quale il movimento comunista si trova a misurarsi con la gestione concreta del potere politico, in un paese che deve essere portato fuori dalla sua condizione di arretratezza ed accerchiamento delle potenze ostili. I comunisti che prendono il potere prima in Russia e poi in Cina si trovano a dover costruire, immaginando pionieristicamente anche le forme, non soltanto un nuovo regime politico, ma anche nuovi rapporti sociali. Questi, a differenza di quelli borghesi, non preesistevano all’interno della vecchia società, ma dovevano essere costruiti ex-novo. Ciò sostanzia la rivoluzione socialista da quella borghese, chiarendo quindi il bisogno di una democrazia di tipo nuovo.

Se su questo terreno si è manifestata una difficoltà dell’Urss a fare fronte a questo bisogno, la Cina dimostra invece di aver compreso appieno la lezione, maturando il riconoscimento teorico dell’importanza del governo della legge e si sforza di costruire uno stato di diritto socialista. Questa consapevolezza, dopo il 18° Congresso del Pcc, ha subito una decisa sterzata: sul piano interno si è intensificato il dibattito sulla “rule of law” e si è adottato per la prima volta un Codice Civile, mentre sul piano internazionale si è avanzata la proposta a tutto il mondo della costruzione di una comunità dal destino condiviso per l’umanità, che rappresenta un nuovo tipo di globalizzazione, completamente opposta da quella avviata dopo il 1989 e guidata dagli Usa, che rappresenta un fronte unito dei popoli del mondo per rovesciare l’oppressione, la miseria, lo sfruttamento e guidarlo ad una trasformazione capace di mettere al centro l’uomo ed i suoi bisogni come bussola della politica mondiale.

La borghesia francese trova nella repubblica parlamentare la forma stabile dell’esercizio del suo potere e della sua egemonia solo dopo il tormentato periodo storico che va dal 1789 al 1871. Gramsci sottolineava che affinché si possa considerare conclusa una rivoluzione, non basta solo conquistare il potere, ma va individuata la forma politica stabile della sua gestione.

Pertanto, quello aperto con la Rivoluzione cinese è un processo di lunga durata in pieno svolgimento e, diversamente dalle letture occidentali, il dibattito in corso nel PCC ha lo scopo di definirne i contenuti economico e sociali e la forma politica. Quale sarà l’esito di questo lungo cammino è ancora troppo presto per poterlo dire, ma quello a cui assistiamo è il contributo ad una democratizzazione delle relazioni internazionali e la costruzione di una governance globale di cui si avvantaggiano i popoli di tutto il mondo.