Europa: dove crescono i comunisti

di Roberto Gabriele

Da più parti è stato evidenziato il fatto, apparentemente singolare, che nelle recenti elezioni amministrative austriache il partito comunista (KPÖ) ha ottenuto a Graz, seconda città dell’Austria, il 29% dei voti, risultando il primo partito della città.

Del fatto si è occupato anche Marx 21 riportando un resoconto di agenzia in cui venivano evidenziati i motivi che avevano portato il KPÖ alla vittoria.

Dall’analisi risulta che da molti anni i comunisti di Graz svolgono una assidua e intelligente azione presso i lavoratori e i cittadini su questioni sociali che interessano la gente e in questo modo ne hanno conquistato la fiducia. Questo dimostra che nonostante il vento dell’anticomunismo che spira in Europa anche i comunisti possono uscire dai ghetti dove la borghesia cerca di relegarli e svolgere una seria funzione politica e di classe. A condizione però che escano da una logica puramente identitaria e si colleghino alle contraddizioni sociali che la situazione presenta.

C’è un altro esempio in Europa di un partito comunista di origine emmellista che è riuscito a rompere l’isolamento e diventare un partito che rappresenta settori di lavoratori e di tendenza progressista. Si tratta del Belgio dove il Partito dei Lavoratori (PTB) è riuscito a sfondare il muro dell’indifferenza e ad entrare nei parlamenti regionali, in quello nazionale e nel parlamento europeo.

Questi esempi indicano che nonostante la crisi degli anni ’90 del secolo scorso quei settori di comunisti che sono riusciti a fare una corretta analisi della nuova situazione e ad adeguare la strategia politica hanno imboccando la strada giusta per riprendere l’iniziativa.

Se guardiamo invece all’Italia ci rendiamo conto che le cose non sono affatto cambiate. I cocci dell’esperienza disastrosa del duo Bertinotti-Cossutta, senza nessuna analisi corretta delle vicende che hanno portato prima allo scioglimento del PCI e poi all’avventura della Rifondazione, hanno solo tentato di appropriarsi di quella che è stata la tradizione del PCI, ma sono rimasti al palo, inchiodati dalla pratica politicista e dalle responsabilità sulla guerra (approvazione delle missioni in Afghanistan e partecipazione al governo D’Alema che bombardava la Jugoslavia).

E’ chiaro dunque che su questo versante il discorso è praticamente chiuso. Non è chiusa invece la necessità di un vero dibattito tra comunisti per individuare la via della ripresa. L’Italia non è un paese pacificato dal punto di vista politico e di classe, al contrario. Lotte operaie, lotte sociali, lotte giovanili e di carattere istituzionale democratico si ripropongono continuamente. Quello che manca è la presenza dei comunisti che sappiano essere la punta avanzata dello schieramento di opposizione e sappiano combattere dentro i processi di lotta anche le deviazioni anarco-movimentiste egemoni che spesso ne hanno segnato l’esito negativo.

In modo particolare la questione si pone a livello delle organizzazioni di massa dei lavoratori e specialmente sulla questione sindacale. Negli anni ottanta, nel momento cruciale dello scontro tra lavoratori e confederazioni sindacali, che avevano scelto la via della collaborazione di classe, rinunciando alla propria autonomia, si pose il problema della direzione delle lotte e della organizzazione dei punti di resistenza. Da lì è nata l’esperienza del sindacalismo di base che avrebbe dovuto rappresentare il punto di forza dell’unità e della partecipazione dei lavoratori alle decisioni che li riguardavano e che il sindacato collaborazionista negava. Su quella linea i comunisti che militavano nelle RdB (rappresentanze sindacali di base) elaborarono assieme al senatore Nino Pasti un progetto di legge che fu presentato al Senato della Repubblica l’8 aprile 1983.

La catastrofe che si è abbattuta sui comunisti con il crollo dell’URSS e dei paesi socialisti europei impedì però che si andasse avanti in quella direzione e il radicalismo gruppettaro deviò il corso delle esperienze al punto che oggi ogni bottega politica può esprimere un ‘suo’ sindacato, contraddicendo così, in questa pratica spartitoria, la definizione stessa di sindacalismo di base. Anche in questo caso però, imboccando la strada sbagliata, si è caduti nella irrilevanza così come è avvenuto coi ‘partiti’ identitari.

Ultimamente la storia della GKN ha riaperto il discorso della lotta e dell’unità dei lavoratori. Ci potrà anche essere una nuova sconfitta, dati i rapporti di forza generali, ma è un’esperienza che va studiata. Soprattutto da quei comunisti che, per star dietro alle loro liturgie, di treni ne hanno persi molti.