Cumpanis intervista Adriana Bernardeschi, dell’Associazione Nazionale “Cumpanis” e del Collettivo “La Città Futura”

da https://www.cumpanis.net

La guerra imperialista, l’attacco del capitale e la crisi del movimento comunista italiano

D. La crisi ucraina sovraintende interamente la fase internazionale e nazionale che viviamo. Qual è la tua interpretazione dei fatti?

R. Le radici della crisi ucraina e della guerra, iniziata non certo un anno fa bensì con il colpo di Stato del 2014 manovrato dagli USA, sono molto profonde e non possono essere capite se non si analizza nella sua complessità la storia di quel territorio, caratterizzato nei secoli da una costante dicotomia culturale e religiosa fra influenza occidentale e orientale, quadro ben delineato nel recente libro dello storico Marco Pondrelli, di cui consiglio a tutti la lettura. Un paese come l’Ucraina, dove convivono in equilibrio precario culture, lingue e religioni diverse (a maggior ragione dopo che Crimea e Donbass sono stati annessi al Paese), e collocato in una posizione strategica fra Occidente e Oriente, un Paese dunque particolarmente vulnerabile per la sua complessità e le sue contraddizioni interne, è stato facile preda delle mire atlantiste, che si sono manifestate fin dall’inizio di questo secolo, attraverso la violazione perpetua di tutti gli accordi di non espansione a Est della NATO, la prefigurazione di un’entrata nella NATO del Paese (vertice di Budapest del 2008), la progressiva “invasione” di quel territorio con installazioni militari americane in spregio al diritto internazionale.

La finta rivoluzione colorata del 2014, l’Euromaidan presentato all’opinione pubblica occidentale come una rivolta per la democrazia, ha incrinato il delicato equilibrio dell’Ucraina destituendo con la forza il governo Janukovyč legittimamente eletto e dando inizio a una guerra fratricida che ha provocato, prima dell’intervento militare russo dello scorso anno, 14.000 morti e 200.000 profughi (dati provenienti da documenti ufficiali dell’OSCE e dell’ONU). Il nuovo governo ha portato avanti politiche razziste volte alla cancellazione ideologica di tutto il portato culturale e linguistico russofono presente in diverse aree del Paese. Il regime, palesemente legato ad ambienti di estrema destra di stampo nazista di cui ha utilizzato gli squadroni paramilitari, ha messo fuori legge i partiti di opposizione e perseguitato e ucciso i loro dirigenti e militanti. La strage di Odessa del 2 maggio 2014, in cui gruppi paramilitari nazisti assaltarono la Casa dei Sindacati e poi le dettero fuoco, assassinando 42 persone inermi fra lavoratori e militanti di organizzazioni comuniste e antifasciste, ne è un tragico esempio, benché sia passata pressoché sotto silenzio nei media mainstream occidentali. In seguito a questi fatti, le regioni russofone del Donbass e di Lugansk si sono proclamate Repubbliche indipendenti attraverso un referendum a cui il governo ucraino ha risposto con azioni violente dell’esercito in quelle zone, ininterrotte dal 2014.

A fronte di questo scenario, non stupisce il fallimento degli accordi di Minsk, che come recentemente dichiarato sia da Angela Merkel che da Petro Porošenko erano solo un pretesto per far guadagnare tempo agli USA agevolando la loro espansione a Est. Dalla fine del 2021 c’è stata infatti una escalation nella penetrazione militare NATO in Ucraina, fino al punto di volervi installare testate nucleari in grado di colpire Mosca in un tempo così esiguo da non consentire l’attivazione di alcun sistema difensivo.

Senza queste premesse, non può essere compreso l’intervento militare russo di un anno fa; successivo a molti tentativi diplomatici mai ascoltati e rispettati. Nonostante la presenza di regolari esercitazioni militari Nato a ridosso del suo territorio e la progressiva espansione della stessa Nato oltre i limiti concordati dagli anni Novanta in poi, la Russia si è mantenuta sul piano diplomatico per lunghi anni, e ha riconosciuto le Repubbliche di Donbass e Lugansk solo nel febbraio 2022 – dopo avere più volte richiesto una soluzione diplomatica della questione e avere chiaramente indicato la “linea rossa” che l’Occidente non avrebbe dovuto oltrepassare – anche per la spinta del Partito Comunista presente nella Duma.

I comunisti devono schierarsi per la pace e contro la guerra imperialista, ma essere pacifisti non significa mettere sullo stesso piano chi da anni prepara la guerra con pesanti atti di provocazione e chi è costretto a difendere la propria sicurezza nazionale. Né significa essere ciechi di fronte al conflitto di classe che muove la storia. Si deve lottare strenuamente contro l’invio di armi da parte del nostro Paese – peraltro in ottemperanza alla Costituzione nata dalla Resistenza, oltre che alla legge (la 185/1990) che vieta di inviare armi a paesi belligeranti – e contro le sanzioni alla Russia che hanno una ricaduta drammatica sulle condizioni di vita della classe lavoratrice europea, incluse le fasce di povertà che un lavoro non ce l’hanno.

D. Quali sono, a tuo avviso, le basi materiali, più profonde, di questa folle scelta imperialista alla guerra, persino alla Terza Guerra Mondiale?

R. Da sempre il sistema capitalista ha utilizzato la guerra come strumento di compensazione e “sollievo” temporaneo alle sue crisi strutturali di sovrapproduzione, e questa è la prima ragione dello scenario di guerra permanente che affligge i popoli del mondo.

In questo caso specifico, di portata potenzialmente fatale per l’intero genere umano, le cause vanno fatte risalire alla costruzione dell’egemonia statunitense, e il tentativo di quella grande potenza, dopo il crollo dell’URSS, di instaurare un ordine mondiale monopolare. A questo scopo, lo strumento economico e dunque l’imposizione (anche violenta) del signoraggio del dollaro è stato affiancato dallo strumento militare attraverso la Nato, con le continue guerre (l’invasione dell’Iraq, l’intervento in Jugoslavia, Afghanistan ecc.) e le sanzioni ai Paesi non allineati (soprattutto Paesi dell’America Latina, dove si sono continuati anche a tentare golpe, talvolta riusciti, talvolta no).

L’egemonia così costruita si è dimostrata però sempre più fragile di fonte alla crescita di altre potenze economiche, prima tra tutti la Cina ma anche i paesi componenti i BRICS. La crisi economica, iniziata fin dagli anni Settanta ed esplosa nel 2007, ha segnato un progressivo declino della potenza economica statunitense, che però ha mantenuto il primato militare. Questo è un aspetto pericolosissimo, perché l’uso della forza sarà l’ultimo possibile tentativo da parte dell’incattivito impero di conservare la propria supremazia.

L’espansione Nato in Eurasia è l’argine principale al declino economico degli USA, che hanno tutto l’interesse di prolungare il più possibile la guerra e utilizzarla per esercitare il proprio dominio sulla già vassalla UE e per indebolire il vero nemico, la Cina che sul terreno economico sta sopravanzando gli stessi Stati Uniti, sottraendole le alleanze economiche con i Paesi europei e privandola dell’appoggio della Russia se riuscisse l’operazione di un suo indebolimento, se non di un cambio di regime. Del resto, già nel G7 del 2021 in Cornovaglia e nel summit della Nato era stata palesata questa strategia, e si era avviato il presidio militare del mar della Cina con l’invio di sommergibili nucleari all’Australia.

Se la Cina è il primo bersaglio USA, il secondo è il polo imperialista europeo e i suoi legami economici a est. L’Europa però, nonostante abbia tutto da perdere, sta dimostrando di non essere in questo momento in grado di reagire neppure per autodifesa.

D. La tua analisi sulla crisi ucraina, che si fonda sui fatti concreti, non solo è oscurata dalla cultura dominante, che inventa un’altra storia, ma è rimossa (oltreché, naturalmente, dai movimenti trotzkisti, che definiscono disinvoltamente la Russia e la Cina Paesi imperialisti) persino da parti del movimento comunista italiano e da parti ben conosciute della cosiddetta area di classe e movimentista italiana. Che ne pensi?

R. L’aspetto sovrastrutturale dell’egemonia culturale e mediatica degli USA sui Paesi del blocco atlantico (il controllo su internet e sulla sua gestione, la manipolazione dell’informazione) è stato un fattore di enorme peso, e anche questa guerra si sta svolgendo su due fronti, quello militare e quello mediatico.

Viviamo da un anno un clima soffocante di propaganda di guerra, dove l’informazione mainstream inculca spudoratamente nelle coscienze una visione totalmente mistificata degli eventi in corso. Il dissenso viene censurato quando non ferocemente attaccato in una sorta di nuovo maccartismo.

Tale bombardamento mediatico ha purtroppo fatto breccia anche in un popolo “di sinistra”, e addirittura in certa parte comunista, da troppo tempo spaesato e orfano di un orizzonte di cambiamento.

I piccoli partiti comunisti presenti oggi in Italia hanno in parte la responsabilità di questa sciagurata deriva delle coscienze, perché per le loro logiche di settarismo e autoreferenzialità si sono ridotti a uno stato di debolezza tale non solo da non essere in grado di difendere il loro popolo, ma anche da non agire sul piano della controinformazione, anche per l’assenza al loro interno di una seria formazione di quadri competenti.

D. Resta il fatto che, di fronte a una crisi mondiale che potrebbe anche portare alla Terza Guerra Mondiale, di tipo nucleare, drammatica è l’assenza del movimento contro la guerra.

R. Credo che lo sbriciolamento della sinistra di classe sia una delle cause di questa assenza, sia dal punto di vista “oggettivo” della debolezza organizzativa, sia da quello “soggettivo” dovuto all’egemonia culturale della classe dominante che ha portato a un atteggiamento individualista penetrato a fondo nelle coscienze e che non è certo favorevole all’azione comune.

Inoltre, l’appiattirsi della sinistra “non di classe”, quella che un tempo poteva dirsi socialdemocratica, entro un orizzonte recintato dal neoliberismo, con la difesa dei soli diritti civili utilizzata a mo’ di fumo negli occhi per apparire ancora minimamente “di sinistra”, mentre sui diritti sociali non è distinguibile dalla controparte di destra, ha senza dubbio portato al disimpegno di un’ampia fascia di popolo di sinistra che, accecata dalla propaganda di guerra proveniente anche (se non soprattutto) dal polo di centrosinistra, ha progressivamente perso importanti paletti ideologici, addirittura quello della difesa della pace.

Le poche manifestazioni contro la guerra che ci sono state nel corso di questo anno, sebbene siano meglio che niente, oltre che ad avere numeri inadeguati all’entità della causa, si sono caratterizzate per aspetti contradditori e persino velatamente ipocriti, e per un pacifismo ingenuo che non rende giustizia alle radici di questo conflitto.

Anche in questo caso, il compito dei comunisti è su un doppio binario: costruire la propria unità e un partito all’altezza dei tempi ma anche promuovere un fronte ampio di lotte sociali (le ricadute delle spese militari e delle sanzioni alla Russia saranno pesantissime e tutte sulle spalle della classe lavoratrice europea) e contro la guerra (che abbia come punti fermi l’opposizione alla NATO e l’impegno antimperialista) nonché, sul piano sovrastrutturale, utilizzare tutti gli strumenti tecnologici a disposizione per contrastare la propaganda e porre un argine alla mistificazione dilagante. In quest’ultimo aspetto sarebbe di aiuto un ringiovanimento della militanza e dirigenza delle organizzazioni comuniste.

È sempre più necessario un coordinamento delle numerose realtà culturali comuniste delle varie riviste e siti web, perché sia possibile un’azione forte e incisiva che possa arrivare alla nostra classe di riferimento.

D. Per quali motivi, a tuo avviso, i piccoli partiti comunisti italiani non sono in grado di unire le forze e porsi come cardine unitario per un movimento antimperialista contro la guerra?

R. Dopo lo scioglimento del PCI, si è creato un circolo vizioso in cui debolezza oggettiva e incapacità di elaborazione teorica e di autoformazione delle varie piccole organizzazioni comuniste della diaspora si sono alimentate a vicenda, conducendo al presente scenario di frammentazione e inadeguatezza. Quanto profonde siano le crepe di questa frammentazione è evidente dal fatto che neppure un fatto drammatico come la guerra abbia fatto convergere le forze, mentre anzi, si sono creati nuovi distinguo divisivi, che peraltro, nella loro autoreferenzialità, hanno alimentato la disconnesione fra organizzazioni sempre meno capite e classe di riferimento sempre più confusa. Va aggiunto che a dividere non sono solo le differenze culturali e tattiche, ma anche, talvolta persino di più, gli interessi di micropotere di gruppi dirigenti che hanno dimostrato di non essere all’altezza della situazione.

Il flagello del settarismo ha contagiato la grande maggioranza delle organizzazioni, scottate dal susseguirsi di dissidi interni e micro scissioni, spesso non esenti da impulsi personalistici, che ha caratterizzato la loro storia politica negli ultimi venti anni.

Credo che questo stato di debolezza e il profondo radicamento di una mentalità identitaria e autoreferenziale siano le motivazioni della mancata azione comune dei comunisti contro la guerra imperialista.

D. Come arrivare alla costruzione di un partito comunista diretto alla costruzione di un movimento antimperialista contro la guerra e all’altezza dei tempi e dello scontro di classe?

R. La ricompattazione e riorganizzazione dei comunisti in un partito adeguato al suo compito è premessa necessaria al loro protagonismo nella storia che verrà e anche all’uscita dalla barbarie in cui ci troviamo.

Per arrivare a ciò, secondo me, la strada giusta non è quella di accelerazioni organizzative “dall’alto” che ripropongano l’ennesimo micro partito comunista con la pretesa, come tutti gli altri, di essere quello giusto verso cui convergere. Il percorso da fare è più lungo, e deve nascere “dal basso” su due piani: teoria e prassi. Sul piano teorico, si deve partire dalla costruzione di solide basi politiche e ideologiche – e anche qui emerge l’opportunità di coordinare le varie realtà culturali e formative. Sul piano dell’azione politica, si deve fare tutto il possibile per essere concretamente e visibilmente presenti nei conflitti reali, tornando a difendere la nostra classe di riferimento, a orientarla, a ricostruire con essa anche un legame affettivo che, come ci insegna Álvaro Cunhal, restituisca entusiasmo e fiducia nei militanti con “l’allegria del vivere e del lottare”, oggi soffocata da uno scoramento opprimente.

È utile, per superare questo scoramento, guardarsi intorno, perché per fortuna a livello internazionale e soprattutto extraeuropeo le cose per i comunisti vanno un bel po’ meglio che qui. Il movimento comunista è alla guida, in modo diretto o indiretto, di circa un quinto dell’umanità, se si sommano i Paesi dove governa direttamente un partito comunista e quelli in cui i comunisti partecipano a coalizioni rivoluzionarie (da Cuba alla Cina e molti vicini paesi asiatici, a intere regioni dell’India, al Sudafrica a molti paesi del Sudamerica) e molti sono i Paesi in cui i comunisti svolgono un forte ruolo di opposizione (alcuni esempi: Portogallo, Giappone, Grecia, Russia). La narrazione “occidentale” che dichiara estinto il comunismo è riuscita a bendare gli occhi a molti di noi, ma è ora di rialzare la testa e riorganizzarsi in modo coordinato anche sul piano internazionale, camminando verso l’obiettivo del socialismo attraverso la strada tattica di un equilibrio mondiale basato sul multilateralismo, di cui peraltro si vedono già i segnali.

In una recente iniziativa politico-culturale, il vostro direttore Fosco Giannini ha detto che “voler ricostruire un partito comunista in Italia non ci pone fuori dal mondo, bensì ci colloca nel mondo”: credo che questo sia lo spirito con cui procedere.

L’attuale crisi del capitalismo nella sua fase “crepuscolare”, termine che usa lo studioso marxista Roberto Fineschi e che mi pare estremamente calzante, rappresenta uno scenario particolarmente difficile per l’azione dei comunisti, ridotti in Italia in uno stato di estrema debolezza, ma può essere anche una grande occasione per promuovere un mutamento, come vanno dimostrando molte altre esperienze nel mondo.

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