Considerazioni aggiuntive alle note di Fausto Sorini sulla questione comunista in Italia

di Giancarlo Bellorio

Nel leggere attentamente le note di Fausto Sorini sulla condizione dei comunisti in Italia – Che fare? – voglio aggiungere alcune considerazioni a questo testo, molto interessante per una necessaria e non rinviabile discussione aperta, fra coloro che, prendendo atto della drammatica situazione, non si arrendono e ricercano le diverse vie per una soluzione. Ben venga quindi questa proposta di Forum per cominciare a fare qualcosa per uscire dalla palude.

Sono complessivamente d’accordo sulle analisi che spiegano la dissoluzione, prima del PCI, poi il carattere via via marginale che hanno assunto Rifondazione e i vari partitini comunisti. Sono anche d’accordo sulle proposte per una ricerca organizzativa che tenga insieme l’avvio di iniziative di lotta con la ricerca teorica.

Qual è allora il bandolo della matassa? Spesso nella ricerca dei limiti ed errori che spiegano la nostra deriva, prevalgono le spiegazioni di carattere soggettivo, meno quelle oggettive. E qui trovo alcune questioni irrisolte.

Non credo si possa spiegare tutto con le nozioni di “traditori” o “incapaci” riferita ai gruppi dirigenti; e ritengo insufficienti, a proposito dei fattori oggettivi, limitarsi a fare riferimento alle ripercussioni della crisi dell’esperienza dei paesi socialisti, della fine dell’Unione Sovietica, o della alla morte di Stalin o di Togliatti (cioè al venir meno di leadership forti).

Sono convinto, sia pure con molti dubbi, che non sempre i marxisti, i dirigenti dei partiti comunisti, hanno saputo applicare nelle diverse situazioni il “metodo scientifico” di Marx. Riflettiamo su due nozioni che stanno alla base del pensiero di Marx: l’ analisi materialistica della situazione concreta e il concetto per cui “l’ideologia dominante è quella delle classi dominanti”.

Penso che la composizione e le condizioni materiali di vita della classe operaia siano profondamente mutate in poco tempo (diciamo dagli anni ’60).  Detto in poche parole: mentre il dominio dei padroni si è progressivamente ridotto con la diffusione delle prime organizzazioni operaie, a partire dalla seconda metà dell’800, ed essi sono stati costretti in alcuni Paesi a imporsi con la violenza, oggi assistiamo al loro dominio sulla classe operaia senza manganello ne olio di ricino. Nella lotta di classe promossa dal padronato la classe operaia si ritrova con le ossa rotte, e non a causa di un golpe controrivoluzionario.

Se riporto la mia memoria agli anni giovanili, ricordo che il modello americano cominciava a insinuarsi e le lotte, pur guidate da grandi dirigenti comunisti, tranne alcune isolate pregevoli iniziative, nella coscienza dei lavoratori si affievoliva la nozione di lotta di classe per la trasformazione in senso socialista e prevaleva l’aspirazione ad un generico miglioramento nei consumi. Veniva meno via via il richiamo di Togliatti a  mantenere aperta la prospettiva socialista.  Anni prima della Bolognina c’è stato un mutamento sociale, che ha favorito la mutazione genetica e la successiva liquidazione del PCI.

Questa profonda trasformazione della società non è stata colta dai nuovi gruppi dirigenti successivi a Togliatti, che hanno poi giustificato la Bolognina con la fine dell’Urss. Ma anche i nuovi dirigenti di Rifondazione che si sono opposti alla deriva del PCI non hanno saputo fare una “analisi concreta della situazione concreta”, assumendo un marxismo ossificato da citazioni che non funzionavano più, anziché usare il metodo scientifico e innovativo di Marx, Lenin e Gramsci. Dovremo dare una spiegazione del perché gruppi dirigenti, in origine minoritari, come i miglioristi di Napolitano, abbiano aumentato via via il consenso nella maggioranza del partito, così come poi è avvenuto anche per la scelta di liquidare il partito da parte di Occhetto. È evidente quindi che la crisi dei comunisti in Italia è più antica dello scioglimento del PCI. 

La risposta che mi sento di dare, anche sulla base della mia esperienza di lunga militanza (cominciata nel 1970), dalle tante discussioni nel partito e anche del sentire comune dell’opinione pubblica, compresi i nostri elettori, è questa: non si è colta la profonda trasformazione, prima nelle condizioni materiali di vita, poi nei cambiamenti organizzativi nei luoghi di lavoro (decentramento, delocalizzazione e lavoro precario) con un massiccio spostamento dell’occupazione verso i settori terziari, che ha avuto effetti maggiori rispetto allo spostamento degli occupati dall’agricoltura all’industria. Quindi penso che oggi sia necessaria, prima di tutto, un’analisi e una ridefinizione della composizione sociale e di classe della società italiana.

Se la mia memoria corre ritorna ai primi anni del dopo guerra fino alla fine degli anni 50, seppur ragazzo, mi ricordo condizioni materiali di vita non troppo distanti da quelle descritte da Gramsci ai suoi tempi; poi, nel giro di pochi anni è cambiato tutto. Si è passati da situazioni di vero e proprio denutrimento e rachitismo ad una condizione di leggero benessere mai raggiunto prima nella storia del movimento operaio.

Anche l’evoluzione del rapporto fra iscritti ed elettori del PCI, dal dopoguerra agli anni 70, pone alcuni interrogativi.

Si nota una inversione di tendenza nel rapporto tra iscritti (che calano) e voti (che aumentano).

Quello che vedo è che le idee dominanti del capitalismo hanno conquistato progressivamente, non solo la mente degli elettori del Pci, ma anche, seppur lentamente, la stessa coscienza dei suoi militanti e iscritti.

Questa convinzione si è rafforzata in me nelle esperienze dirette fatte nei congressi del partito e della Cgil dove, a parte rari casi, le mie posizioni uscivano sconfitte. Gli argomenti prevalenti erano quelli che si rifacevano ad una sostanziale accettazione dell’attuale sistema economico e sociale. Quelle assemblee congressuali le ho vissute in due situazioni diverse. Prima nell’area milanese con una forte connotazione operaia e poi nella provincia di Siena prevalentemente contadina. Nonostante la presenza di Rifondazione fosse maggiore in Toscana che nel milanese, a livello di massa le situazioni si invertivano e l’adesione al Pds in Toscana erano più forti, anche sul piano elettorale e degli iscritti (oggi sta franando tutto).  La spiegazione che mi sono dato è che le condizioni di vita dei mezzadri erano condizioni bestiali e degradanti di servitù. I miglioramenti dei mezzadri sono stati maggiori di quelli degli operai e quindi vi è stato un “riconoscimento” maggiore verso il ”partito” e il “sindacato”, senza che tale adesione significasse una profonda coscienza politica.

Cosa voglio dire, in estrema sintesi? Che possiamo imputare gli errori ai limiti soggettivi dei gruppi dirigenti del Pci e poi di Rifondazione; possiamo individuare spinte oggettive nella crisi internazionale e nel crollo dell’Urss; possiamo richiamarci al monopolio degli organismi culturali e di informazione da parte delle classi dominanti, ma tutto questo non mi basta. Qualcosa di più profondo è penetrato nella coscienza sociale di grandi masse e ne ha favorito l’adesione al sistema capitalistico, incoraggiate in questo anche da una parte dei dirigenti del PCI e della sinistra.

È giusto fare riferimento al “che fare?” e cercare nuove forme organizzative, ma faccio fatica  a convicermi che basti questo.

Ripensando alle svolte  che hanno mutato la storia dell’umanità, esse sono avvenute sulla base di teorie e proposte che hanno indotto i popoli a credere che i cambiamenti fossero possibili, scardinando l’egemonia dominante. Se questa convinzione non si determina nella coscienza dei popoli, prevalgono rassegnazione ed accettazione. E questo mi sembra che caratterizzi l’attuale situazione.

Ad esempio: perché tanto ritardo nelle lotte per la riduzione dell’orario di lavoro, pur in presenza di un enorme aumento della produttività?

Fino alla fine dell’800 si lavorava 14-16 ore al giorno, in Italia si stabiliscono le 48 ore nel 1923. Nel 1972 si applicano le 40 ore. In mezzo secolo la settimana lavorativa si riduce di 8 ore, poi quasi niente per i successivi 50 anni. Perché?

Pochi uomini hanno scosso il mondo come Karl Marx. Alla sua scomparsa, fece immediatamente seguito l’eco della sua fama, con una rapidità che nella storia ha rari precedenti. Ben presto, il nome di Marx fu sulle bocche dei lavoratori di Chicago e Detroit, così come su quelle dei primi socialisti indiani a Calcutta. La sua immagine fece da sfondo al congresso dei bolscevichi a Mosca dopo la rivoluzione. Oggi diamo la colpa dei nostri limiti al controllo dei mezzi culturali e di informazione (Tv e stampa) da parte della borghesia. Ma ai tempi di Marx il controllo della cultura e dell’informazione era ancor più forte, con l’aggiunta del peso esercitato dalla Chiesa.

Ecco perché penso che la questione della formazione dei quadri e la diffusione (con una attenta divulgazione capillare) di una cultura critica è essenziale per costruire dei primi nuclei di militanti.

Una spiegazione della progressiva perdita della coscienza di classe è da ricercare anche nella scelta organizzativa del Pci di ridurre la propria presenza nei luoghi di lavoro, spostandola in prevalenza nei territori.

Scriveva Gramsci: “l’organizzazione politica si articoli in primis nei luoghi della produzione, si strutturi in cellule sui luoghi di lavoro”. Tale tipologia di organizzazione è quella che porta il comunista nel cuore del conflitto di classe, per costruire strutture consiliari che sono fondamentali per lo sviluppo della coscienza di classe, piuttosto che operare sul territorio con rivendicazioni legate ai diritti di cittadinanza o ai diritti umani (diritti civili), necessariamente interclassiste e, quindi, riformiste… Per cui, “muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre più vaste unità, fino alla nazione, che è nel suo insieme, un gigantesco apparato di produzione”.

Le ragioni del pensiero di Gramsci sui Consigli di Fabbrica, allora basato sull’esperienza della grande fabbrica, possono trovare applicazione anche nell’attuale situazione di frantumazione delle sedi di produzione, anche nei servizi, oggi altrettanto strategici, come trasporti, telecomunicazioni ecc. Ad esempio, collegando i lavoratori di settori economici interconnessi, come i produttori di macchine (auto, treni, autobus) con i lavoratori dei trasporti, per pervenire ad una visione generale, non solo aziendale, del processo produttivo.

Penso che i lavoratori maturino una maggiore coscienza di classe anche in relazione all’importanza strategica di un determinato settore di produzione. Ricordo che la ripresa del grande movimento di lotta della fine degli anni ’60, fu preceduta dalla lotta del settore elettromeccanico (quello delle turbine, dei treni, dei grandi motori, ecc.). Questo settore di lavoratori non ebbe solo una grande importanza sindacale, ma anche e soprattutto politica. Furono infatti i lavoratori dell’Ansaldo di Genova a scendere in piazza per impedire il congresso del MSI.

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