Chi è Gorbaciov

di Roberto Gabriele

I mass media occidentali hanno creato in questi anni un clima tale attorno alla figura di Gorbaciov che rimane quasi impossibile avanzare critiche. Si passerebbe per “eretici” e sarebbe come parlar male di Garibaldi. A questo contribuisce anche la convergenza delle valutazioni tra destra e sinistra. Da una parte gli apologeti del capitalismo e dell’economia di mercato vedono nel leader sovietico il restauratore del capitalismo e la conferma della eternità di un certo si­stema economico-sociale, per decenni minacciato dal comunismo; dall’altra la si­nistra, quella socialdemocratica e quella “radicale” trovano conferma alle loro criti­che sul “socialismo reale”.

Man mano che l’esperienza gorbacioviana si trasferisce dalle enunciazioni alla realtà, è necessario invece approfondire la conoscenza del fenomeno e capire me­glio la natura della perestrojka.

Soprattutto, all’interno del movimento comunista, occorre abbandonare il luogo comune secondo cui quello che sta avvenendo in URSS è un rinnovamento di ciò che esiste. Si tratta invece di un processo che marca una discontinuità profonda col passato in termini economici, politici, ideologici e istituzionali. Tre cose, in particolare, stanno emergendo con molta chiarezza:

I) lo smantellamento della cosiddetta “area imperiale”, ma che i comunisti hanno sempre definito campo socialista.

La liquidazione dei governi comunisti in una serie di paesi dell’Est europeo non sono fatti occasionali e/o dovuti al precipitare improvviso degli avvenimenti. Dalla formazione di un governo cattolico moderato in Polonia alla fucilazione di Ceausescu, passando per la eliminazione della RDT, c’è un disegno preciso da parte della leadership gorbacioviana di liberarsi di quello che viene ormai definito un fardello inutile che pesa sulle possibilità di ripresa dell’URSS come grande potenza mondiale.

Il ridimensionamento del campo socialista non riguarda solo i paesi del patto di Varsavia, ma anche l’Unione Sovietica stessa. Nello scontro sulla Lituania non c’è solo l’aspetto duro della riproposizione dell’integrità territoriale dell’URSS, ma an­che la prospettiva di un nuovo rapporto interstatale delle nazionalità che ne fanno parte.

Queste non sono malevoli considerazioni di incalliti “conservatori”, ma aperte teorizzazioni che vengono da parte sovietica e dai suoi organi di stampa più accre­ditati, coma la rivista Tempi Nuovi (Igor Malascenko, marzo 1990).

II) l’abbandono di una dimensione internazionalista nei rapporti tra stati e movimenti rivoluzionari in chiave antimperialista.

La nuova teoria della interdipendenza non prevede più un antagonismo strategi­co col sistema mondiale imperialistico, ma nuove relazioni che arrivano perfino ad un cambiamento di rotta rispetto agli aspetti più aberranti del sistema imperiale americano. Fanno fede di questo le nuove relazioni col Sud Africa, con Israele, con la Corea del Sud etc.

Né incidenti di percorso, come l’intervento USA a Panama o nelle Filippine, costituiscono solo materia di scandalo in quanto ritenuti fatti interni al sistema oc­cidentale e delle varie sfere di influenza. Anzi, l’organicità dei rapporti politici e delle nuove relazioni internazionali viene marcata da incontri come quello di Malta (che non assume neppure la dignità di una nuova Yalta, ma rappresenta solo il mer­canteggiamento di uno spazio geopolitico molto più ridotto) e dalla richiesta di co­struire una casa comune europea che altro non è che un allargamento dell’Europa dei monopoli i cui effetti vengono denunciati anche da settori finora plaudenti ver­so la politica gorbacioviana (La Trappola dell’Est, Gianni Corbi “Repubblica” del 26/04/90; Tutto il potere ai Konzern, “L’Unità” del 26/04/90).

III) l’introduzione delle leggi di mercato e la restaurazione di una economia capi­talistica.

Qui i sostenitori della perestrojka, in occidente e nella sinistra, rischiano di pro­vare le più amare delusioni. Innanzitutto perché si sta verificando nei paesi dell’Est europeo il fenomeno sconcertante del ritorno dei vecchi proprietari di terre, di im­mobili, di industrie che rivendicano e spesso ottengono ciò che era stato in prece­denza socializzato (si tratta quindi non di rinnovamento dell’economia socialista, ma di vera e propria restaurazione); in secondo luogo perché l’indirizzo economico dei teorici della perestrojka si sta dimostrando, sul piano interno, una pura e sem­plice applicazione della teoria liberista dei Chicago-boys nel modo più rigido. La Polonia e l’Ungheria sono entrate già nel ciclo infernale di quella politica economi­ca, ora tocca alla Cecoslovacchia e alla RDT. L’URSS si sta preparando a questo anche se con un pò più di cautela, ma sempre allo stesso modo e nella stessa di­rezione.

Sul piano dei rapporti economici internazionali il “campo socialista” sta diven­tando un nuovo terminale del sistema finanziario del Fondo Monetario, delle istitu­zioni della CEE, del campo di azione delle multinazionali (Joint-venture, zone economiche speciali etc).

Negli ultimi tempi abbiamo avvertito una certa preoccupazione nella sinistra italiana su ciò che sta avvenendo, ma questo non ha portato ad una vera e propria apertura di dibattito sugli avvenimenti all’Est.

Ancora si rimane legati alla descrizione dei fenomeni politici, senza andare ad indagare sui dati strutturali delle trasformazioni. Quasi che l’ideologia sul “rinno­vamento del socialismo” di cui Gorbaciov si copre, possa nascondere i fatti. Eppu­re i “rinnovatori” non si richiamano al marxismo contro le deformazioni italiane e i metodi burocratico-amministrativi? Il marxismo non impone una analisi della na­tura dei rapporti economici e sociali che si stanno determinando ad Est? E il ritorno a Lenin non richiede una analisi dei rapporti imperialistici sul piano economico di cui FMI e CEE sono portatori?

E’ uno strano ritorno a Marx e a Lenin quello che si invoca da parte dei tanti “neocomunisti”, all’Ovest come all’Est.

Eppure, anche limitandoci all’analisi puramente politica dei fatti, si possono scorgere, aldilà delle frasi ad effetto sul socialismo dal volto umano e sulla demo­crazia, le tendenze reali che si contrappongono oggi in URSS e che è molto impor­tante analizzare da un punto di vista obiettivo.

La prima tendenza è quella che esprime Gorbaciov e che per ora è quella do­minante, (e tra l’altro non ha neppure la certezza di prevalere definitivamente) che cerca con una continuità politico-istituzionale (il PCUS, l’attuale classe diri­gente) di attuare le trasformazioni radicali cui abbiamo fatto riferimento finora nel­l’ottica di fare dell’URSS uno stato moderno ed efficiente, indipendentemente da ogni finalità strategica di tipo rivoluzionario e antagonista al sistema capitalistico mondiale e, nel lungo periodo, anche al di fuori di rapporti economico-sociali di ti­po socialista;

Una seconda tendenza, che peraltro è stata fino a poco tempo fa organica alla prima, vuole rompere il rapporto di continuità politico-istituzionale col passato (i cosiddetti radicali di Eltsin) in quanto considera dannosa e ritardante la linea conti­nuista di Gorbaciov, il quale essendo un politico molto accorto avverte, al contra­rio, il rischio del salto nel buio; infine una terza tendenza, peraltro non omogenea, è fatta di un settore del vecchio apparato, di gruppi di opposizione marxista-lenini­sta, di forme di nuova opposizione operaia.

Lo scontro in URSS tra queste tendenze è ancora aperto e gli esiti sono impre­vedibili, come anche non definito, ad eccezione della posizione dei radicali, è il punto di arrivo delle rispettive strategie. In altri termini non si riesce ancora a capi­re, perché le posizioni sono in evoluzione, dove Gorbaciov arresterà i processi di trasformazione, tenendo conto dei problemi che insorgono quotidianamente (nazio­nalità ed economia in particolare) e quali saranno le prospettive di quello che viene definito blocco conservatore, il quale è certamente sulla difensiva e non può spera­re in un rilancio senza una prospettiva strategica e la individuazione delle forze a cui riferirsi (anche se i Fronti Uniti dei Lavoratori cominciano a rappresentare un punto di riferimento).

Come abbiamo già avuto modo di dire in altri scritti pubblicati dalla nostra rivi­sta, i comunisti non possono limitarsi a dividersi tra detrattori (in verità, ancora molto pochi) e sostenitori della perestrojka, ma debbono andare all’analisi concreta dei fatti.

Attualmente esiste invece una tendenza di “neocomunisti” che ripropongono il vecchio antagonismo di tipo trotskista tra un comunismo “vero”, mai realizzato e il modello “burocratico” di socialismo da combattere. Ma lo scontro in atto, ha queste caratteristiche? La Perestrojka ha avviato veramente un rinnovamento del socialismo o qualcos’altro che bisogna capire per tempo? Questo vorremmo chie­dere per esempio a compagni come Agustin Marcos, autore dell’articolo “Stalini­smo e perestrojka” apparso su Realitat (febbraio 1990) rivista teorica del Partito comunista catalano.

Interrogarsi su ciò che sta avvenendo in URSS e quello che è stato il campo so­cialista rimanda anche ad altre due questioni piuttosto complesse che se non affron­tate non ci permettono di giudicare e di capire gli avvenimenti attuali.

Le due questioni riguardano il giudizio storico sullo stalinismo e l’origine del conflitto in URSS.

Che cosa c’è dietro il furore antistalinista che fu a suo tempo di Krusciov e che ora, in un crescendo sapientemente orchestrato (fino al patto Stalin-Ribbentrop e alle fosse di Katyn) promana a dosi sempre più massicce dalla leadership gorba­cioviana?

La similitudine di questa campagna con analoghe operazioni anticomuniste portate avanti in occidente nei decenni passati dovrebbe metterci sull’avviso. In URSS oggi non si sta, come già all’epoca di Krusciov, portando avanti un discorso scientifico e critico sull’epoca stalianiana: si sta semplicemente cercando di coprire con una propaganda terroristica la “svolta” attuata con la perestrojka. E tanto più le scelte da fare sono contraddittorie con una strategia di avanzamento del socialismo e spesso con gli interessi materiali dei lavoratori, tanto più occorre trovare il “mo­stro” che possa coprire la pesantezza di ciò che si sta facendo.

L’antistalinismo dunque è di maniera e strumentale e la cosa è venuta fuori con la nascita della “repubblica presidenziale” che contraddice apertamente i propositi di allargamento della democrazia.

Da questo punto di vista il “re è nudo”, il che ci rimanda alla sostanza dei pro­blemi che il periodo staliniano pone e che non possono essere affrontati emotiva­mente e con i ritorni a … “Oggi la crisi del socialismo non può essere imputata “sic et sempliciter” agli errori di Stalin”, per la semplice ragione, come sostiene anche il compagno Garroni in una lettera che pubblichiamo in appendice al quaderno, che il marxismo identifica lo sviluppo verso il comunismo come un processo storico reale, una accumulazione di esperienze prodotte dalle contraddizioni capitalistiche. Dunque il significato e i limiti del periodo staliniano devono essere storicamente collocati e valutati e non ha senso parlare di “ritorni”.

Sappiamo che i critici del “socialismo realizzato” non hanno mai digerito la storia “reale” del socialismo, ma ciò, oltre a costituire un indubbio favore alla bor­ghesia, da un punto di vista teorico ha ben poco a che fare col marxismo e tanto meno con Lenin.

La questione è altra: si tratta di accettare questo passaggio storico come fattore reale di una dinamica sociale e di classe per andare oltre e modificare ciò che va modificato.

Dobbiamo ammettere però che questa operazione è impossibile al di fuori di circostanze storiche che lo permettano e quindi non vogliamo cadere nella modelli­stica dei critici del socialismo reale e in definitiva in una posizione idealistica. Il che ci rimanda alla seconda questione interpretativa dei processi in atto in URSS.

Qual è il significato vero di questi processi e perché dal 1953 (si badi bene non dal 1956!) si sta sviluppando una crisi che, aldilà delle battute d’arresto, è a senso unico?

La verità è che le mutate circostanze storiche hanno da tempo spostato dall’Eu­ropa al Terzo Mondo il centro delle contraddizioni di tipo rivoluzionario e, nello stesso tempo, all’interno di quello che si è definito campo socialista si sono avviati processi di trasformazione sociale (che vengono analizzati nell’articolo successivo del presente quaderno) che hanno rimesso in corsa settori della società e tendenze politiche che non hanno interesse a portare avanti un progetto di società comunista.

Queste tendenze stanno oggi prevalendo e Gorbaciov, anche nel suo procedere contraddittorio, esprime nella sostanza queste nuove tendenze con più radicalità, spregiudicatezza e determinazione che nel passato.

Molti si sono meravigliati della rapidità con cui la crisi si è andata sviluppando, ma essi non si sono soffermati sul fatto che per contrastarla bisognava avere una condizione oggettiva diversa.

Nel periodo di Lenin e di Stalin e fino all’immediato dopoguerra, in condizioni ben più difficili, anche dal punto di vista economico, è stato possibile dare battaglia e vincere: oggi la situazione è diversa e diverse sono quindi le conclusioni.

Ciò non ci induce ovviamente al fatalismo, semmai ci porta a fare considerazioni più scientifiche sullo scontro in atto, sulla natura delle forze che vi partecipano e sui punti di ripresa possibili, ad Est come ad Ovest, come a Sud del movimento ri­voluzionario comunista.

Per fare questo però dobbiamo sgombrare il campo dalle mistificazioni e partire da due riferimenti:

Il primo sul carattere della perestrojka come controtendenza rispetto ai processi storici che hanno portato alla realizzazione di un campo di stati a regime socialista (nel senso e nei limiti storici in cui questo è stato possibile realizzare).

Il secondo sul fatto che un discorso idealistico sulla ripresa del marxismo con­tro le “degenerazioni,” del socialismo reale ha ben poco a che fare coi problemi di ripresa del movimento di classe e con le prospettive del comunismo.

Anzi, rafforzando questo punto di vista si ritarda la comprensione degli avveni­menti e si riduce la teoria marxista ad ideologia.

Il passato (e il futuro) possono essere valutati e capiti con l’analisi concreta del­la situazione concreta e non in altro modo.

Chi ha provato ad applicare schemi diversi agli avvenimenti si è trovato di fronte ai disastri di questo “meraviglioso ’89”.

Polonia, Ungheria, RDT, Cecoslovacchia, e ora anche l’URSS vanno a destra e spesso più a destra delle aree capitalisticamente stabilizzate e questo è l’effetto non tanto (e non solo) degli errori commessi all’epoca dei sistemi burocratici di coman­do, quanto della natura dello scontro in atto.

Che poi la storia si serva di qualche apprendista stregone per camuffare il senso degli avvenimenti, non deve indurci in inganno.

Originariamente pubblicato in Quaderni di Lotta per la Pace e il Socialismo, n. 3, maggio 1990, pp. 2-6. Il testo è stato riprodotto anche in La zattera e la corrente, Quaderni di Aginform, settembre 2019, pp. 161-166.