Che fare? dal passato qualche indicazione per il presente e per il futuro (Risposta ad un classico interrogativo riproposto da marx21)

di Bruno Steri

— Anche io ritengo assai opportuno l’invito di Marx21 a ragionare sul classico “che fare”, cogliendo l’occasione del centenario della nascita del Pci. Tanto più è urgente tale sollecitazione in quanto essa muove, nel nostro Paese, da un contesto che Marco Pondrelli non a caso definisce di desolante frammentazione dei comunisti e della sinistra di classe in generale: constatazione che corrisponde al vissuto e al sentire delle compagne e dei compagni e che diviene tanto più eclatante in una fase “calda” come quella determinata dalla crisi ucraina. Né mi sorprende il fatto che alcune delle risposte già pervenute provino a circoscrivere i caratteri dell’attuale fase politica riferendosi a quel che è successo negli ultimi decenni: si guarda appunto al passato per capire meglio il presente e formulare ipotesi sull’immediato futuro.

Rivoluzione…

— Per parte mia, ritengo istruttive alcune differenze che distinguono la fase politica attuale dalle precedenti: penso che non sia affatto superfluo rinominarle, anche ribadendo delle date emblematiche che servono a tracciare gli snodi del corso storico. Una di queste è il 12 dicembre 1969, strage di Piazza Fontana a Milano e inizio della cosiddetta “strategia della tensione”. Si era al culmine di una fase politicamente ascendente che, nel dopoguerra, aveva visto il movimento operaio italiano acquisire potere grazie alla spinta del più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico, erede e apripista della togliattiana “democrazia progressiva”. Il ’68 studentesco e il ’69 operaio avevano poi impresso un’accelerazione della dinamica sociale, lasciando quasi intravedere la prospettiva di un cambiamento strutturale del sistema vigente. Nel senso comune si faceva prepotentemente strada l’idea che il mondo presente non è l’unico mondo possibile: si può cambiare. Il dibattito che allora aveva contrapposto “riforme” e “rivoluzione” non impedì di far conseguire al Pci nel 1976 – precisamente sull’onda di quel fermento sociale – la più alta percentuale elettorale della sua storia (il 34,4%, di un niente al di sotto della percentuale raggiunta dalla Democrazia Cristiana).

e reazione

— Nel frattempo l’avversario di classe, che non è un’invenzione bolscevica, non stava a guardare: in un mondo diviso rigorosamente in due blocchi non si poteva consentire un tale salto di qualità, con l’eventuale entrata dei comunisti nella stanza del potere in un Paese considerato “atlantico”. Un paio di tentativi di colpo di Stato – uno organizzato dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo (1964) e un altro promosso dall’ex presidente del Movimento Sociale Italiano, Junio Valerio Borghese (1970) – avevano provato, senza successo, a dare una spallata decisiva alla democrazia parlamentare. Al di là di iniziative (troppo) dichiaratamente eversive, forze potenti erano all’opera per imporre in modo meno eclatante ma più efficace una svolta autoritaria. Dal 1966 l’agenzia di stampa Aginter Press, con sede nella Spagna franchista, operava infatti nell’ombra alle dirette dipendenze della statunitense Cia (Central Intelligence Agency) reclutando e addestrando terroristi e in contatto, per quel che riguarda l’Italia, con i gruppi fascisti Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. In questo stesso contesto un terrorista pentito, il fascista Vincenzo Vinciguerra, aveva riferito ai magistrati dell’esistenza di una struttura clandestina della Nato in Italia, nota come Gladio. Tutto ciò faceva parte di una strategia di lunga lena, coordinata dall’ex capo delle forze statunitensi in Vietnam, generale William Westmoreland, tesa ad utilizzare la destra eversiva e a infiltrare movimenti e partiti di sinistra, in vista di una destabilizzazione del Paese. Più precisamente: “destabilizzare per stabilizzare”, cioè innalzare il livello dello scontro, provocare lo stato di emergenza, aprire le porte istituzionali ad una repubblica presidenziale.

Stragismo di Stato

— Ha così inizio la drammatica sequela di stragi, giustamente definite “stragi di Stato”: è la sopra menzionata “strategia della tensione”, così detta in opposizione alla “strategia dell’attenzione” nei confronti del Pci che il democristiano Aldo Moro stava sperimentando. Non ritengo superfluo ribadire qui di seguito il lugubre elenco che ha insanguinato per oltre un decennio il nostro Paese:

  • Strage per una bomba alla Banca dell’Agricoltura in P.zza Fontana a Milano (12 dic. 69). 17 morti, 88 feriti
  • Strage di Gioia Tauro (22 lug. 70), deragliamento di un treno direttissimo. 6 morti, 60 feriti
  • Strage di Peteano (31 mag. 72) Fiat 500 imbottita di esplosivo. 3 carabinieri morti, 2 feriti
  • Strage per una bomba contro la questura di Milano (17 mag. 73) . 4 morti, 40 feriti
  • Strage di p.zza della Loggia a Brescia (28 mag. 74), una bomba nel corso di una manifestazione antifascista. 8 morti, 100 feriti
  • Strage per il deragliamento del treno Italicus (4 ago. 74). 12 morti, 105 feriti
  • Strage per una bomba alla stazione di Bologna (2 ago. 80). 85 morti, 200 feriti
  • Strage del rapido 904 (23 dic. 84), attentato dinamitardo nella galleria dell’Appennino in Val di Sambro. 17 morti, 260 feriti.

Ho ripetuto fatti che certo almeno la mia generazione conosce già: ma è bene che anche le nuove generazioni sappiano nel dettaglio di cosa stiamo parlando; e siano consapevoli che, anche nella “civile” Italia, centinaia di vittime innocenti possano costituire per alcuni un prezzo accettabile in vista del conseguimento di determinati obiettivi politici. In proposito, va ricordato che sono state effettuate condanne per strage nei confronti di qualche esecutore materiale; ma nessuna condanna per quanti furono indagati come mandanti. Questi ultimi sono stati tutti assolti o non coinvolti nei processi.

Ad esempio, per la strage di piazza Fontana, Franco Freda e Giovanni Ventura (cellula veneta di Ordine Nuovo) e Guido Giannettini (ex agente del Sid) furono assolti per mancanza di prove; nel 2005 la Cassazione riconosceva colpevoli di strage Freda e Ventura, ma non più processabili in quanto “irrevocabilmente assolti dalla Corte d’Assise di Appello di Bari” (sic!). Per la strage del treno Italicus, i neofascisti Mario Tuti, Piero Malentacchi e Luciano Franci furono assolti per impossibilità di determinarne la colpevolezza. Per la strage di Bologna furono condannati come esecutori materiali Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (neofascisti dei Nar), ma i “presunti” mandanti Licio Gelli (ex capo della loggia P2), Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte (ufficiali del Sismi) e Francesco Pazienza (collaboratore del Sismi) furono condannati solo per depistaggio. E via di questo passo. Due mesi prima del suo omicidio, Pier Paolo Pasolini scriveva su ‘Il Corriere della Sera’: “Processare la Dc”; e faceva nomi importanti come quelli di Andreotti, Fanfani e Rumor. La sua morte ha impedito che egli constatasse l’impenetrabile muro di silenzio eretto attorno ai suddetti fatti.

Il declino

— Ho rievocato sinteticamente una fase del nostro Paese caratterizzata dal binomio: crescita e possibile affermazione di un’istanza anticapitalista; conseguente violenta reazione dell’avversario di classe. In tale oppositivo binomio si condensa la lezione che viene da quegli “anni di piombo”. Non apro qui il capitolo “lotta armata”, che appartiene a quella medesima fase ma che considero sostanzialmente un’appendice del suddetto binomio. Mi limito ad un’unica sommaria considerazione. Al di là del giudizio pesantemente negativo sui metodi adottati, tipicamente terroristici (attentati individuali, omicidi, sequestri di persona) ed estranei a un’azione e ad un coinvolgimento di massa, nonché al di là di ambiguità e sospetti di eterodirezione, la scelta in questione oggettivamente non ha fatto altro che portare un fondamentale appoggio alla strategia che, come detto sopra, puntava a “destabilizzare per stabilizzare”: alzando il livello dello scontro ha fornito benzina al motore dell’involuzione reazionaria.

Quanto ho sin qui richiamato rappresenta l’ultimo sussulto di lotta di classe politicamente degno di nota, almeno per quel che concerne il nostro Paese. Da allora in poi si assiste ad un lento declino della forza sociale e politica del mondo del lavoro, delle sue rappresentanze politiche e, in esse, dei comunisti. Sull’onda d’urto della caduta del muro di Berlino e del crollo del cosiddetto “socialismo reale”, nel febbraio del 1991 in occasione del suo XX° Congresso il Partito Comunista Italiano si auto scioglie, ratificando formalmente un processo degenerativo – sul piano ideologico e nella composizione sociale di iscritti e quadri dirigenti – iniziato da tempo; e dà vita ad un nuovo partito di ispirazione liberale.

La successiva importante esperienza di Rifondazione Comunista, nata come movimento e poi costituitasi in partito, con le sue potenzialità e i suoi errori, meriterebbe un apposito attento approfondimento che qui non possiamo fare . Ci limitiamo a rilevare che la generosa “resistenza” del Prc ha avuto il merito di assicurare per un paio di decenni il mantenimento di una presenza comunista in Italia, presenza anche parlamentare, ma non è riuscita a sintetizzare in un gruppo dirigente coeso le diverse provenienze e a porsi come duraturo riferimento di “un nuovo mondo possibile”.

Qualche sommaria indicazione per l’oggi e il domani

— Si perviene in questo modo all’attuale frastagliamento della sinistra di classe e dei comunisti, in un Paese che aveva visto operare il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico. Non occorre aggiungere altro per evidenziare le differenze tra una fase che abbiamo definito “politicamente ascendente” ed una che si colloca a conclusione di una graduale discesa. Ma sarebbe sbagliato pensare che il giudizio sull’oggi sia tutto qui. Comprendiamo perfettamente il desolato rammarico prodotto dall’attuale frammentazione: tuttavia frammentazione non equivale affatto ad assenza. Ancorché “frammentata”, nel nostro Paese permane l’eredità di una storia che è fatta di valori e di lotte. Si tratta di sintonizzarsi su di essa, coltivando e valorizzando la memoria storica per poter meglio definire il “che fare”. Possiamo concludere con qualche schematica indicazione:

In primo luogo, l’esperienza passata deve indurre ad avere contezza della natura e della forza dei nostri avversari. In proposito, va subito annotato un mutamento rilevante nel contesto internazionale: il mondo non appare più ingessato in due blocchi contrapposti, quanto piuttosto sempre più esposto ad una spinta multipolare: ciò a seguito delle contraddizioni interne al più potente Stato capitalistico e al profilarsi di nuovi protagonisti globali, su tutti la Cina. In un tale dinamico contesto, si può ben capire l’importanza di non demordere dalla parola d’ordine “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”, mantenendo ferma la critica alle propensioni imperialistiche degli Usa e della stessa Unione Europea: se poi il gioco si fa duro, come nell’attuale crisi internazionale (determinata dall’aggressiva propensione della Nato verso Est), diviene dirimente la differenza tra l’avere o non avere armamenti atomici Nato all’interno dei propri confini nazionali. Contemporaneamente resta essenziale mantenere viva l’attenzione per le esperienze che sono ideologicamente affini alla nostra e, come dice nella sua risposta Luca Cangemi, sentirsi (e agire come) parte di un contesto internazionale: che – lo ribadiamo – vede nella Cina comunista un riferimento essenziale.

In secondo luogo, occorre ridare forza ai concetti chiave della tradizione marxista, ritematizzandone il contenuto a ridosso delle attuali contraddizioni di classe, degli attuali conflitti tra capitale e lavoro. E’ necessario oggi non dare per scontata la comprensione e l’efficacia di formule e slogan (anche se per noi ovvi) e ripartire con l’impegno per una battaglia che è ad un tempo sociale e culturale. Di qui l’importanza dell’informazione ragionata e dell’approfondimento analitico, anche grazie all’utilizzo di strumenti come la nostra rivista di partito. Per dirla con la formulazione sintetica usata dai classici del marxismo: va ricostruito l’incontro tra la teoria e la prassi rivoluzionaria.

In terzo luogo, in una fase politica come l’attuale è urgente provare a ridurre la frammentazione di sigle e “falci e martello” alla sinistra del Pd: beninteso, là dove è possibile (e non sempre è possibile…). Si tratta dell’acquisizione di un atteggiamento che, pur essendo rigoroso nei principi, non sia settario nella pratica politica: che punti cioè a non esaltare le differenze (in particolare quelle che non appaiono essenziali) e, soprattutto, a valorizzare i punti di accordo (in particolare quelli che appaiono essenziali). Da questo punto di vista, è giusta l’esortazione contenuta nella risposta di Aginform: non servono gruppi che si autoproclamano partiti, chiusi in un ambito puramente ideologico sulla scorta di un malinteso “metodo identitario”. Non è questo che Lenin intendeva con “avanguardia di classe”. Quel che serve è invece un intelligente, non opportunistico spirito unitario, fortificato a ridosso del corpo sociale e nei luoghi di lavoro. In tale direzione, il minimo sindacale può essere rappresentato da un’unità d’azione tra le forze affini e dalla conseguente costituzione di fronti, cementati dai contenuti politici ancor prima che dalle emergenze elettorali.

Finché sussiste il modo di produzione capitalistico non cesseranno le contraddizioni sociali; e sulla scena politica potranno fare irruzione nuove ondate di lotta di classe. Il tempo e il luogo non dipende in tutto da noi; l’importante è comunque farsi trovare preparati.