Approfondiamo il dibattito per ricostruire in Italia un forte Partito comunista. Intervento di Giuseppe Amata

di Giuseppe Amata

Il 21 gennaio ricorre il 101° anniversario della fondazione in Italia del Partito comunista, avvenuta come è noto a Livorno nel 1921. In tutto questo periodo la storia ci ricorda diverse fasi in cui il Partito comunista, dopo i primi anni di infanzia rivoluzionaria con i pregi rappresentati dalle aspirazioni a svolgere un grande ruolo nel Paese e con i difetti del verbalismo e a volte dell’infantilismo sotto la direzione di Bordiga, ha iniziato nel 1926 con le Tesi congressuali di Lione scritte sotto la guida di Antonio Gramsci, imperniate sull’alleanza operai-contadini, il lungo processo rivoluzionario che ha portato alla cacciata del regime fascista ed all’approvazione della Costituzione repubblicana. Di seguito ha portato alle lotte per la pace contro la Nato, per la difesa delle libertà democratiche e dei lavoratori. Quindi la svolta, a partire dall’VIII Congresso, lenta e inesorabile verso la deriva socialdemocratica, sfociata miseramente nello scioglimento del PCI. La successiva costituzione del PRC, animata dalla buona volontà dei suoi militanti di base, non è riuscita nell’intento di ricostruire un grande e forte partito di quadri e di massa, per l’incapacità e l’opportunismo del gruppo dirigente che ha inoculato dentro il Partito tutti i difetti del vecchio PCI, senza conservarne i pregi della fase iniziale, cioè della lotta antifascista e della difesa delle conquistate libertà e in generale degli interessi del proletariato e delle masse popolari.

Oggi a distanza di 101 anni i comunisti italiani rimasti fedeli alla storia del movimento comunista internazionale, con l’intento però di discernere gli aspetti positivi, da innalzare come emblema, da quelli negativi da correggere, sono impegnati a ricostruire il Partito comunista, superando la diaspora, la frammentazione ed il soggettivismo di alcuni dirigenti tra i gruppi e i partitini che si definiscono comunisti.

Rispondo positivamente all’appello che lancia Marco Pondrelli su marx21.it, e per la mia esperienza militante dal lontano 1961 ad oggi, intervengo nella discussione seppur con sintetiche motivazioni (le mie argomentazioni più approfondite si possono leggere in particolare in alcuni miei libri: “Verso la fine del PCI” del 2013; “L’evoluzione della teoria comunista e della prassi dalle origini ai nostri giorni” del 2019; “CINA – Riflessi ideologici e politici di cento anni di Rivoluzione e Riforma” del 2021).

Aggiungo che circa un mese addietro un interessante Appello per l’unità dei comunisti in Italia, lanciato da circa 200 compagni e pubblicato dalla rivista online “Gramsci oggi” l’ho sottoscritto, ritenendo giusto il richiamo all’unità delle forze comuniste per costituire un unico Partito comunista; precisando, però, che l’unità non avverrà solo con gli appelli, bensì con l’azione di massa (che in questa fase i comunisti da soli non sono in grado di avviare e pertanto bisogna realizzare un fronte ampio anche con chi non è comunista) e soprattutto con il confronto ideologico che superi gli errori e le deviazioni revisionistiche del vecchio PCI e porti all’unità ideologica, politica e organizzativa dei comunisti. Inoltre esprimevo nel merito dell’Appello, in riferimento alla costruzione del “Fronte unito mondiale” una considerazione che ritenevo e ritengo importante. La mia considerazione si riferiva al fatto che oggi a livello mondiale le forze del Fronte unito sono più forti rispetto all’azione imperialistica e non permetteranno all’imperialismo di realizzare in pieno quel minaccioso disegno evocato dai numerosi compagni che hanno lanciato l’Appello pubblicato da “Gramsci oggi”.

A distanza di qualche settimana, Marco Rizzo, segretario del Partito comunista, risponde positivamente all’Appello. Ovviamente saranno i fatti a giudicare la corrispondenza con le parole scritte, perché nel passato Marco Rizzo sulla linea ideologica del Partito comunista cinese aveva posizioni di netto rifiuto, ma che negli ultimi due anni ha corretto. La sua risposta la considero un passo avanti per la costruzione di un processo unitario delle forze che si definiscono comuniste. Ritengo, al riguardo, che anche gli altri due segretari, Mauro Alboresi del PCI e Maurizio Acerbo del PRC, come anche la direzione della Rete dei Comunisti, dovranno manifestare cosa pensano sul processo di costruzione di una forza comunista unificata. Il PCI si sta avviando al 2° Congresso, rimandato di qualche mese, e pur assumendo attualmente un atteggiamento di distacco dalla ricerca di un processo unitario, una risposta la dovrà pur dare. Tra l’altro questo Partito nel recente passato, conscio della sua limitata forza organizzativa, ha sempre considerato importante l’unità dei comunisti, a differenza del PRC, il quale pur essendo di altrettanta limitata forza organizzativa, a livello di analisi ideologica e politica non si è del tutto scrollata la pesante eredità del bertinonittismo (fondata su un mix di socialdemocratismo ideologico e inconcludente spontaneismo movimentistico) e si è disinteressato dell’assillante problema della ricostruzione in Italia di un’avanguardia comunista unificata sul piano ideologico, politico e organizzativo, pur rettificando molte posizioni nei rapporti con i Partiti comunisti al potere e nell’analisi della situazione internazionale.

L’articolo di Marco Pondrelli su marx21.it del 21 gennaio, dal titolo “I comunisti in Italia e nel mondo”, risulta a mio avviso appropriato e opportuno e ogni comunista non si può tirare indietro ad affrontare il discorso dell’unità dei comunisti e del Fronte unito a livello mondiale. Egli, afferma: “Proprio guardando allo scenario internazionale possiamo cogliere segnali d’ottimismo, la Cina governata dal Partito Comunista è la seconda potenza mondiale (la prima calcolando il PIL a Parità di Potere d’Acquisto). Nell’89 gli Stati Uniti presentavano sé stessi come l’unico impero mondiale, una narrazione che aveva fatto proseliti anche a sinistra e fra i comunisti, oggi possiamo dire che il periodo del mondo unipolare è finito”. E dopo aver analizzato la situazione italiana, la cui analisi condivido, conclude: “In questo quadro la situazione dei comunisti è desolante, di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti Partiti sono sempre meno, i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro. Proprio sul che fare vorremo raccogliere pareri, interventi ed opinioni per questo abbiamo deciso di aprire una riflessione a 101 anni dalla nascita del Partito Comunista in Italia.”

Raccogliendo l’invito di Marco Pondrelli, desidero contribuire a questa discussione sulla ricerca delle cause che hanno portato alla deriva revisionistica e poi allo scioglimento del PCI, con il seguito del PRC e del suo fallimento, nonché della frammentazione e dispersione dei comunisti.

Per maggior comprensione delle cause che hanno portato alla fine in Italia del Partito comunista e quindi dei temi da discutere, divido in tre fasi la storia di questi 101 anni.

La prima fase, quella che va dal 1921 al 1956, è per grandi linee condivisa da tutti i comunisti, anche se rimangono dei problemi da approfondire e discutere. Ne cito solo uno: il disegno togliattiano di costruire una democrazia progressiva come fase di transizione al socialismo mi sembra corretto anche oggi, discutendo col senno di poi. Quello che ritengo sbagliato sono i mezzi usati da Togliatti per realizzare tale obiettivo e cioè la non comprensione del fatto che l’apparato statale dopo la vittoria della guerra di liberazione si doveva smantellare (burocrazia, esercito, polizia, magistratura, codici civile e penale) per crearne uno nuovo fondato sulla ricostruzione delle Forze armate con massiccia presenza dei partigiani, sulla modifica dei codici e su un nuovo apparato burocratico che modificasse lo schema creato da Cavour all’epoca dell’unità d’Italia. In tal senso, l’amnistia di Togliatti, pur con la sua buona volontà di ricreare un clima di concordia nazionale ferita dal fascismo e dalla guerra, comprese le avventure coloniali e i mercenari in Spagna, è stata un clamoroso autogol, in quanto il vecchio apparato statale si è scatenato contro le lotte degli operai per i diritti sindacali e dei contadini che lottavano per la riforma agraria, occupando le terre.

La seconda fase è quella che va dall’VIII Congresso fino alla fine degli anni Sessanta, in cui il PCI pur mantenendo un carattere di classe si avviò nel processo revisionistico a livello ideologico, politico e organizzativo immettendo nel suo seno quadri dirigenti borghesi e aprendo a potenziali alleanze con forze prettamente monopolistiche e atlantiste, al seguito del revisionismo sovietico e anziché adoperarsi per un serio confronto con le forze comuniste mondiali, dopo le divergenze sorte con le Conferenze di Mosca del 1957 e del 1960, divenne una punta contro le posizioni del Partito comunista cinese. E se Mosca ritirava i tecnici e annullava i contratti di collaborazione, il PCI ritirava dalla Cina i suoi insegnanti dalle scuole interpreti cinesi e finanche il corrispondente dell’ “Unità”. Solo dopo l’aggressione al Vietnam del Nord, Togliatti capisce che non si può continuare su quella linea e scrive interessanti appunti (il cosiddetto “Memoriale di Yalta”) in cui accenna “all’unità nella diversità”, ma poi muore. Luigi Longo, pur avendo alle spalle una gloriosa militanza, non sa o non vuole uscire dal corso revisionistico. Di quella fase, l’attuale discussione fra i comunisti è ancora aperta e le posizioni fra gruppi o partitini e compagni senza partito sono a volte distanti tra loro. E dal punto di vista storico ed ideologico ritengo questa fase da approfondire con serietà e senza anatemi, riconoscendo l’importante ruolo nella storia del movimento comunista che ebbero sia Togliatti che Longo con i loro meriti e con i loro errori e rivalutando una figura dimenticata, che è quella di Pietro Secchia, il cui ruolo nell’organizzazione della militanza rivoluzionaria e nella difesa delle conquiste democratiche è stato principale, anche se mancava del carisma che aveva indubbiamente Togliatti per la sua formazione ideologica e per la sua esperienza, essendo stato a Mosca a contatto con importanti dirigenti comunisti sovietici e mondiali.

La terza fase è rappresentata dallo scivolamento del PCI da partito classista a partito interclassista, in cui pur essendoci nel suo seno sia gli operai che i contadini, nonché quadri che in gioventù avevano aderito al Partito comunista, come lo stesso Berlinguer, di fatto i quadri periferici erano formati da funzionari provenienti dalla piccola borghesia ed i nuovi dirigenti nazionali, entrati nella Direzione dopo l’VIII Congresso e nei successivi, avevano una concezione ideologica e politica prevalentemente socialdemocratica (Amendola, Napolitano, Lama, Di Giulio, Occhetto e tanti altri) anche se si professavano comunisti di un comunismo a loro immagine e somiglianza (l’eurocomunismo). Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta hanno messo in dubbio anche il loro euro-comunismo per scrollarsene durante la direzione di Gorbacev in Urss, tanto da sciogliere in fretta e furia il Partito. Di questa terza fase della storia del PCI non ci sono grandi divergenze tra coloro che attualmente si definiscono comunisti o militano nei diversi gruppi o partitini comunisti.

Divergenze esistono, infine, sulla nascita e il rapido declino del Partito della Rifondazione Comunista.

Pur ritenendo che l’unità per la ricostruzione di un forte Partito comunista di quadri e di massa non si realizza soltanto risolvendo queste questioni, ma soprattutto delineando una corretta analisi di classe della situazione politica internazionale e nazionale e sviluppando un movimento di massa nel nostro Paese che si leghi al Fronte unito contro l’egemonismo imperialistico per la pace, la cooperazione tra Paesi e popoli fondata sul reciproco vantaggio, sulla multilateralità, e sul presupposto che la comunità mondiale debba avere un destino condiviso, non può mai crescere questo Partito senza la chiarezza ideologica e i conti con la storia passata.