Alla riconquista dell’orizzonte perduto

di Adriana Bernardeschi

Per la generazione di compagni che ha fatto la Resistenza, il Partito Comunista d’Italia – della cui fondazione ricorreva il centenario lo scorso anno – ha rappresentato la possibilità di un orizzonte: quello di una società umana regolata dall’uguaglianza e dalla giustizia sociale, fondata sul principio “da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. L’attività politica era per loro strumento di liberazione dell’umanità, inscindibile persino dalla propria dimensione esistenziale. Quell’orizzonte è drammaticamente assente per le generazioni successive, la cui vita è regolata da precarietà su tutti i piani, e la speranza stessa di un cambiamento è sradicata dalle loro prospettive, anche per la forte influenza che ha avuto una formazione mediatica revisionista e mistificatoria che ha annientato lo “spirito dell’utopia” di blochiana memoria e ha portato alla disaffezione per la politica e alla rassegnazione proprio la classe sociale degli sfruttati e degli oppressi.

Conoscere e analizzare la vicenda di quel grande partito, nei suoi lati luminosi e in quelli più controversi, non si deve dunque limitare a una celebrazione identitarista e sterile; non deve trasformarsi in un rito “religioso” – come scrive giustamente Francesco Calogero nel suo intervento in questo dibattito – che le varie piccole “sette” dell’attuale diaspora comunista mettono in atto, ciascuna scollegata dalle altre e spesso, male ancora maggiore, dalla realtà.

Questa realtà ci dice che il sistema capitalistico è in crisi su tutti i fronti: economico, ambientale, sanitario… e aggiungo anche umano, perché secoli di mercificazione di ogni aspetto della vita hanno profondamente mutato in peggio le coscienze e il senso comune di tutte e tutti.

Dunque la presenza e l’azione dei comunisti, lungi da rappresentare il portabandiera di una mera testimonianza, è quanto mai necessaria per pensare a un cambiamento reale. Un nuovo protagonismo dei comunisti nelle lotte passa necessariamente per la loro ricompattazione e riorganizzazione, che dunque non è solo argomento di dibattito bensì rappresenta un bisogno attuale e imprescindibile per uscire dalla barbarie in cui ci troviamo.

Per analizzare lo stato odierno del movimento comunista, è fondamentale distinguere fra la situazione italiana e quella internazionale: la diaspora e la riduzione all’autoreferenzialità, all’invisibilità, alla non incidenza sulla realtà, la rottura di comunicazione con la propria classe di riferimento sono caratteristiche dei comunisti italiani, perché a livello mondiale, soprattutto extraeuropeo, per fortuna, la situazione è decisamente migliore. Al contrario, infatti, della narrazione capitalistica occidentale che lo dà per morto, il movimento comunista è alla guida, in modo diretto o indiretto, di circa un quinto dell’umanità, se si sommano i paesi dove governa direttamente un partito comunista e quelli in cui i comunisti partecipano a coalizioni rivoluzionarie – e quindi spaziamo da Cuba alla Cina e molti vicini paesi asiatici, a intere regioni dell’India, al Sudafrica a molti paesi del Sudamerica. E non si devono trascurare, nel farsi un quadro generale, i paesi in cui i comunisti svolgono un forte ruolo di opposizione, come il Portogallo, il Giappone, la Grecia, la Russia, solo per fare alcuni esempi.

In un mondo pluripolare – terminata l’era dell’egemonia Usa, nel panorama mondiale si affaccia in maniera imponente la Cina, divenuta ormai la prima economia industriale e che ha relazioni estese con buona parte del globo, mentre la stessa Russia non è più il tappetino dell’epoca Eltsin ed è pronta a difendere la propria autonomia dall’imperialismo Usa, e anche l’Unione Europea, pur attardata sul piano della crescita e dei diritti sociali, ha i numeri per costituire un altro polo imperialista – risulta lampante come “la borghesia è incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù” (Karl Marx, Friedric Engels, Manifesto del Partito comunista, in Opere scelte, Ed Riuniti, 1966, p. 303).

Come agire, allora, per dare uno sbocco efficace alle forze esistenti, alimentarne di nuove, riorganizzarsi per riconquistare un’egemonia?

Sul fronte dell’organizzazione, proprio dal maggiore partito comunista europeo, quello portoghese, ci arriva l’insegnamento di Cunhal: la possibilità di un “partito dalle pareti di vetro”, una comunità di compagni dove il confronto è aperto e libero, dove viene contrastata ogni deriva burocratica e ogni forma di personalismo, dove il dissenso non viene demonizzato ma valorizzato dialetticamente come elemento che contiene una parte di verità, da capire per arrivare a sintesi; un partito che nelle proprie dinamiche anticipi le caratteristiche della società per cui lotta, e il cui progetto pertanto possa essere percepito anche dall’esterno come coerente e possibile. Tutte caratteristiche drammaticamente assenti nelle piccole formazioni comuniste succedutesi nel nostro paese dopo la Bolognina, caratterizzate ciascuna a suo modo proprio dall’autocelebrazione staccata dalla realtà, dalla logica della fedeltà ai dirigenti, i quali detengono totalmente il potere decisionale, dalla demonizzazione del dissenso, dalla burocrazia sproporzionata rispetto alle dimensioni ormai microscopiche di ciascuna di esse. E dove vi è una qualche forma di pluralismo, non si tratta di confronto dialettico ma semplicemente di organizzazione in correnti. Come denuncia Fosco Giannini in un suo recente articolo, “buona parte del movimento comunista italiano odierno” si è ridotto ormai “su posizioni rinunciatarie, idealiste, nell’essenza elitarie, posizioni che giungono persino ad osteggiare la ricerca del consenso attraverso la lotta mediatica, posizioni che tuttavia nascondono, attraverso l’elitarismo idealista, la mancanza di un pensiero politico forte”.

C’è dunque moltissimo da fare. Innanzitutto si deve riprendere a studiare, a formarsi e formare quadri e militanti per attrezzarli al pensiero critico che possa incidere concretamente sulla realtà. Ci si deve misurare senza sconti con il proprio passato, utilizzando gli errori commessi non come spauracchio demolitore ma come primo gradino per risollevarsi, non commettendo il fatale sbaglio di buttare via anche la preziosa “cassetta degli attrezzi” del pensiero marxista che ci permette di mantenere salda la rotta per la fuoriuscita da questo sistema, perché ce ne spiega in modo scientifico le contraddizioni. Sul piano culturale, sarebbe auspicabile che le numerose piccole realtà mediatiche comuniste, come “Marx21” che ospita questo interessante dibattito, si coordinassero in una rete operativa che potesse potenziarne l’azione esterna e alimentare la crescita intellettuale di tutti.

Sul piano della prassi politica, sono convinta che l’unità dei comunisti sia principalmente un frutto che nasce dal basso, radicandosi nel conflitto sociale determinato delle contraddizioni del capitalismo. La prima condizione per riprendere contatto con la nostra classe sociale di riferimento è essere presenti in ogni terreno di lotta, valorizzandolo e mettendosi a disposizione, non abbandonando i movimenti a uno sterile spontaneismo e ricomponendo le battaglie con parole d’ordine mobilitanti e unificanti che prospettino un programma minimo di lotta di classe – riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, riproposizione di un meccanismo di riadeguamento dei salari in caso di inflazione, contrasto di ogni forma di precarietà e sottooccupazione, lotta alla sottomissione degli Stati al capitale finanziario, battaglie per i beni comuni pubblici, contro le spese militari ecc.

Ritrovare credibilità per tutti gli sfruttati e uscire dall’elitarismo – incrostazione della diaspora comunista – è l’unica strada percorribile per riaccendere la speranza di quell’orizzonte perduto di cui le nuove generazioni sono state derubate.