Ucraina: eclissi della ragione

di Francesco Galofaro, Università di Torino

Ho passato il fine settimana a Tallinn, in Estonia, per un convegno. Al ritorno ho trovato un’Italia profondamente cambiata. Nel volgere di una manciata di ore, l’indignazione contro la guerra si è trasformata in interventismo, ovvero nel proprio contrario. Ma l’albero si riconosce dai frutti: può un albero buono dare frutti cattivi? Così ha detto un tempo qualcuno di cui, nella confusione, non riesco più a ricordare il nome. All’emergenza umanitaria che ha colpito la popolazione e i profughi l’Unione europea non risponde inviando farmaci né cibo, ma armi. I telegiornali mettono in scena l’«eroica resistenza del popolo ucraino», inneggiano a soldati eroici che si fanno esplodere pur di non arrendersi, mostrano bambini coi kalashnikov, giovani sorridenti che nei cortili di orrendi condomini svuotano bottiglie di wodka per fabbricare molotov, profughi adolescenti che vorrebbero tornare in Ucraina a combattere fino alla morte. Vogliamo davvero vendere le nostre mine antiuomo agli ucraini, così che minino il proprio stesso Paese?

Al riguardo, i giornalisti non mostrano un briciolo di coscienza critica e si limitano a fare da cassa di risonanza all’ottuso clima di propaganda bellica. Ursula von der Leyen annuncia che chiuderà il sito Sputnik. Lo fa nell’interesse del cittadino, perché non sia esposto alla tossica propaganda russa e per risparmiargli la fatica di leggere. Se accettiamo la censura è segno che siamo già in guerra. In guerra, diceva Paolo Fabbri, il potere di definire la verità è la posta in gioco. E mi ricordo che, allo stesso modo, un quarto di secolo fa durante le guerre in Jugoslavia nel mio circolo ARCI i “compagni” democratici di sinistra mi cancellarono una rassegna su Kusturica: non si proiettano i film del nemico, se servono a dimostrare che anche il nemico è un essere umano.

L’unilateralità del punto di vista mediatico è preoccupante. Enrico Letta, sepolcro imbiancato, il 16 febbraio aveva partecipato alla manifestazione per la pace organizzata dalla comunità di Sant’Egidio; ora chiede di inviare soldati italiani in Ucraina. Al mio convegno, una delle relatrici ha dato la propria solidarietà agli ucraini e ai russi che lottano contro il tiranno. Mentre ero via, i nonni hanno insegnato a mia figlia che Putin è cattivo. I media lo descrivono come un pazzo: solo un folle, infatti, potrebbe opporsi all’ordine della NATO, che palesemente incarna la metafisica saldatura tra verità, giustizia e bellezza che caratterizza l’autoritratto della cultura occidentale.

Come scriveva Umberto Eco, l’ideologia si riconosce per la coerenza interna del proprio discorso; la realtà, al contrario, è contraddittoria. Così, al convegno di Tallinn, una serie di colleghi hanno scoperto di non poter tornare a casa. Tra loro, una suora ortodossa della regione del Don e una coppia – lei russa, lui americano – di docenti di Irkutsk. Una collega di Torino, per metà russa e per metà ucraina, diceva di sentirsi come un bambino al divorzio dei genitori. E anch’io mi chiedo: se fossi figlio di un russo e di un’ucraina, a chi dei due dovrei sparare?

Dacché ero uno studente liceale ho avuto più volte modo di sperimentare quanto è difficile costruire la pace. Le due guerre nel golfo, le guerre jugoslave, la distruzione di ogni forma statuale in Libia e in Siria, l’inutile occupazione dell’Afghanistan: ogni volta abbiamo sostenuto che l’esportazione della democrazia e la difesa dei diritti non c’entra nulla con la guerra, ogni volta abbiamo denunciato i reali interessi in gioco, e ogni volta siamo stati dipinti come utili idioti o quinte colonne. In guerra, l’opposizione nemico/amico prevale senza articolazioni o sfumature su qualunque altra considerazione. Soprattutto, non è possibile assumere una posizione sulla guerra: elevarsi al di sopra del discorso bellico e delle sue categorie per criticarlo e rifiutarlo. È a quest’eclissi della ragione che mi riferisco nel titolo delle quattro righe confuse che vado scrivendo.

Cosa vuol dire allora schierarsi per la pace, data l’inesorabile logica della fase? Bisogna partire dalla situazione concreta, attuale. Bisogna capire come garantire non a Putin, ma a tutti i governi russi a venire, di qualsiasi colore politico e da qui al prossimo secolo, la sicurezza dalle armi di distruzione di massa che abbiamo schierato ai loro confini. E come garantire la stessa sicurezza a tutti gli altri Paesi della regione che si sentano minacciati dalle armi russe. E come garantire un massimo di sovranità e autodeterminazione: il che non significa che ogni insignificante staterello ha il diritto di fare ciò che gli pare alla faccia di chi vive oltre il confine; come cibernetico, direi piuttosto che ciascuno Stato è, col proprio comportamento, responsabile della sicurezza dei vicini in quanto parte di un sistema che si autoregola. “Sovranità” non significa che ho il diritto di gettare spazzatura nel pozzo condominiale, ma che ho il dovere tenerlo pulito insieme ai miei vicini, anche se sono persone sgradevoli. Allora mi chiedo: il comportamento di Polonia e della Bielorussia, che in queste ore si minacciano a vicenda di popolare le proprie pianure di missili nucleari, è costruire la pace? Non sarebbe meglio ripartire, con un approccio più costruttivo, da un’estensione del trattato New Start per ridurre le armi nucleari e del regime di controlli reciproci che esso comporta? Costruire la pace vuol dire sperare che i primi, timidi incontri tra Ucraina e Russia portino frutti o denunciare ogni colloquio come un raggiro ordito dal crudele orso russo? Credo che, per uscire dalla logica della guerra, sia controproducente limitarsi a descrivere l’interlocutore come un mostro insensato, ennesima reincarnazione di Hitler ed emissario del male assoluto. Finché nel discorso politico e nella sua cassa di risonanza mediatica prevarrà questo atteggiamento, possiamo star sicuri che la logica scelta e perseguita sarà quella dell’escalation, dell’interruzione di ogni legame culturale ed economico d’ostacolo alla guerra anche a discapito della nostra salute, a prezzo della fame e della regressione alla civiltà del carbone pur di favorire la produzione e l’uso di pistole e bastoni. La razionalità implicherebbe al contrario un esercizio molto più difficile: la capacità di assumere il punto di vista degli altri e un riconoscimento anche solo parziale delle loro ragioni. Sarà difficile: se i media sacrificheranno il resoconto dei fatti alla propaganda, lo sforzo di obiettività agli appelli alle armi, il pluralismo alla censura, se faranno il deserto intorno alla pace, non si potrà contare su nessun argomento. Potremo affidarci soltanto alle nostre capacità di critica, come ciechi che, non potendo osservare il presente, avvertono meglio il futuro che incombe.