di Francesco Galofaro, Università di Torino
Dedico qualche riflessione a una notizia vecchia che ha già fatto sprecare fiumi d’inchiostro: l’intervista esclusiva e il fotoservizio di Vogue dedicato a Olena Zelenska ritratta da Annie Leibovitz. Del resto, è agosto: non c’è mese migliore per questo genere di frivolezze. Riassumendo per sommi capi: poco dopo la pubblicazione del servizio, Ian Bremmer, politologo, presidente e fondatore di Eurasia, lo ha definito “una cattiva idea”. Nel magico mondo degli influencer, Selvaggia Lucarelli condanna il servizio patinato e grida al tradimento delle sofferenze del popolo ucraino; Oliviero Toscani la insulta dandole della provinciale, “come Salvini e Meloni”. Anche il popolo di Twitter reagisce male: secondo i commenti, gli Zelensky fingono di combattere in Ucraina ma in realtà incontrano celebrità di Hollywood e politici corrotti; la foto della donna in un elegante cappotto blu attorniata da donne soldato in un paesaggio industriale devastato spinge una commentatrice a chiedersi se alla Zelenska importi poi molto dei morti nella loro “piccola sporca guerra per procura”; secondo un terzo commento, “l’Ucraina combatte una guerra che non vincerà mai, mentre Zelenski fa servizi su Vogue e il governo continua a mandare assegni in bianco che riempiono le tasche di politici corrotti”. Si sprecano le repliche degli analisti della comunicazione: su Panorama Cristina Brasi sostiene che il servizio è un errore perché la cultura popolare pensa con categorie religiose che promettono la salvezza ai poveri e la dannazione ai ricchi; sull’Huffington post Sofia Ventura si affretta a soccorrere il vincitore: il servizio di Vogue pone le logiche della celebrità al servizio della Resistenza e i critici tollerano gli Zelensky solo nel ruolo di vittime. Secondo uno schema abusato, i conservatori criticano i tempi e i costumi, i progressisti difendono l’effimero a spada tratta; i fotografi difendono altri fotografi e gli influencer criticano altri influencer, ribadendo l’autoreferenzalità dei media, esteticamente pregevole perché perfetta.
Avrei voluto proporre un’analisi semiotica delle foto, ma ci ha già pensato Maria Pia Pozzato per RaiNews, dimostrando, con competenza, due cose: 1) la qualità artistica della fotografia intende sopravvivere alle polemiche del momento. Si presenta come traccia per la storia: in effetti, mi sia consentito, i colori freddi e le espressioni un po’ lugubri sembrano preludere a una possibile melodrammatica conclusione, ricordando in questo gli scatti della famiglia Romanov. 2) l’immagine assegna alla Zelenska il ruolo della first lady, secondo l’adagio ideologicamente vetusto per cui dietro a un grande uomo c’è una grande donna – Vogue spaccia un’immagine della donna di successo alquanto deprimente, se posso permettermi.
Avrei alcune note a margine da aggiungere, rispolverando le teorie di Umberto Eco sulla decodifica aberrante e sulla guerriglia semiotica. In primo luogo, il servizio viene pubblicato su Vogue; in seguito, tuttavia, circola attraverso i social e raggiunge ogni tipo di lettore in ogni parte del mondo, non solo quelli cui si rivolge la rivista di moda: così, i lettori che effettivamente lo ricevono non sono quelli previsti dal linguaggio impiegato nel servizio, che esalta pizzi, trini e chiffon, in linea con il genere di rivista che lo promuove. Il vestito della Zelenska si rivolge al ceto medio alto e alla borghesia, al primario del reparto, all’avvocato, ma poi viene letto dal cassintegrato, dal proprietario del furgoncino che fatica a pagare gli aumenti della benzina, dal precario che non sa se potrà far fronte al rincaro delle bollette. Il messaggio sceglie delle forme dell’espressione che rivelano i codici privati e i punti di vista ideologici del mittente, invitando il destinatario a identificarsi in una donna determinata che ha un ruolo di “quasi-comando”; viene però diversamente interpretato a seconda del reale patrimonio di conoscenze del lettore, per il quale connota un universo molto distante dal suo ed essenzialmente fasullo, se non ostile. Si tratta di un errore di comunicazione estremamente diffuso quanto elementare: qualcuno ricorda le foto di Matteo Renzi su Vanity Fair? Esso è causato dal fatto che i comunicatori al servizio del potere sembrano incapaci di assumere un punto di vista sul mondo diverso da quello dei committenti. Si tratta di persone che non hanno idea di quanto costi una bottiglia di latte, per ricordare una famosa gaffe di Pier Carlo Padoan. In una recente raccolta di scritti di Eco sulla televisione, curata da Gianfranco Marrone, Eco notava che “la pubblicità di una Jaguar risveglia il desiderio in uno spettatore benestante e sentimenti di frustrazione in un diseredato”. In realtà non occorre pensare che tutti coloro che interpretano i servizi di moda come una rappresentazione autocompiaciuta dell’autorità siano dei poveri frustrati (altro grave errore dei “comunicatori” attuali); semplicemente, non hanno una visione acritica del potere e non condividono quei codici ideologici, i quali – non serve dirlo – non hanno nulla di universale o necessario, non sono eterni né i soli possibili.
Il fenomeno per cui i codici in base ai quali il messaggio è pensato e scritto non coincidono con quelli attraverso cui esso è interpretato caratterizza la guerriglia semiologica. Secondo Eco, essa consiste “in una serie di interventi attuati non là dove il messaggio parte, ma dove arriva, inducendo gli utenti a discuterlo, a criticarlo, a non riceverlo passivamente (…) Nell’epoca di Internet e dei telefonini questa guerriglia non è organizzata da gruppi d’élite, da attivisti di qualche sorta, da una punta di diamante, ma si sviluppa spontaneamente, come una sorta di tam tam, di trasmissione bocca a bocca da cittadino a cittadino”. Eco scrive nel 2004: aveva visto con anni di anticipo il perpetuo conflitto che sarebbe esploso sui nuovi canali di comunicazione orizzontali, i social network, Telegram; una guerra condotta a suon di bufale e di invenzioni mitografiche.
A questo proposito, mi permetto un ultimo commento. Zelensky aveva cominciato la propria campagna di comunicazione e di marketing della guerra con una mossa vincente, indossando la maglietta grigio verde della recluta, del soldato che difende la patria; non la divisa di gala con mostrine e decine di stellette, non il basco reclinato e gli occhiali da sole tamarri con cui tanti dittatorucoli si danno arie da capo militare. Zelensky ha lanciato una moda: la maglietta con la croce tryzub si vende a 17 euro su Amazon. Al contrario, i vestiti della first lady non ricordano il popolo ucraino, in guerra suo malgrado, ma piuttosto i rapaci oligarchi che dagli anni ‘90 l’hanno depredato, esportando il bottino all’estero, creando aziende, lavoro, sviluppo in altri Paesi. Tuttavia, Zelensky rimane un attore: non c’è proprio niente di strano se frequenta le star di Hollywood e se i rotocalchi se ne contendono il ritratto. Sbagliano gli esperti di comunicazione a criticare gli scatti di Vogue come inautentici e costruiti, come se lo Zelensky “vero” fosse quello in maglietta grigioverde. La foto di Vogue ritrae l’attore, lo Zelensky in mimetica è il personaggio.
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