Dominio e propaganda

intellettuali librodi Alessia Franco

Riceviamo e pubblichiamo come stimolante contributo al dibattito

Il ruolo degli intellettuali nell’epoca della comunicazione di massa

Tentiamo una riflessione (nel senso di un ragionamento, ma anche nel senso di un ripiegarci verso il nostro passato prossimo per guardarci allo specchio) sull’élite intellettuale nostrana, ossia sulla minoranza che, dal ruolo sociale ricoperto, è messa in condizione di somministrare prodotti culturali (anche nell’accezione cinematografica e televisiva) alla maggioranza lavoratrice o non-intellettuale.

Quindi: i termini “intellettuale” e “non intellettuale” sono intendersi in senso rigorosamente sociale, non attitudinale. È evidente che nella realtà empirica si danno lavoratori manuali, disoccupati, casalinghi fruitori di cultura anche autonoma, perfino produttori di cultura nella loro sfera privata. Con il termine “intellettuale” ci si riferisce non a persone con una più o meno spiccata attitudine alla produzione artistica o alla elaborazione intellettuale, ma a quel ceto specifico che agisce, organizza e produce cultura. È chiaro che non ci riferiamo neanche a tutti i produttori di cultura, ma solo di una parte di essi, e una parte solitamente inscritta nella dimensione nazionale e massiva.

Prima di chiarirci meglio, sarà utile mettere a fuoco i tre concetti centrali nel pensiero gramsciano: egemonia, cultura, società civile.

Partiamo da quest’ultima e tentiamone una definizione per via contrastiva: la società civile non è lo Stato. Considerando quest’ultimo come l’espressione del potere come forza, cioè dell’apparato giuridico-coercitivo, al contrario si delineerà la società civile come quella configurata dai rapporti privati tra gli esseri umani in quanto tali, cristallizzati in istituzioni come la Chiesa, la stampa, la scuola. È attraverso i canali della società civile così definita che gli intellettuali devono e possono incanalare, appunto, attraverso la cultura gli ideali e i modelli favoriti dalla classe dirigente (mentre imporre i modelli coercitivamente è compito dell’apparato giuridico-coercitivo della società politica). L’apparente paradosso è che, per Gramsci, proprio la società civile è «la sfera dell’attività politica per eccellenza», nel senso che in essa agiscono proprio quelle forze e istituzioni “private” che si propongono di modificare la società (che è un fine dichiaratamente politico). È allora la sede di un’attività politica della base stessa, tentata e non subita (com’è invece nella sfera della società politica), soltanto aperta e disponibile alle influenze benefiche degli intellettuali.

Quando, durante la stesura del primo Quaderno dal carcere, emerge la questione dell’egemonia, Gramsci riporta l’attenzione sulla società civile, meglio caratterizzandola: le due sono strettamente correlate tra di loro e alla questione degli intellettuali. A fare da cerniera tra la società civile e l’egemonia, infatti, è la dicotomia dominio-direzione che ha nella presenza attiva degli intellettuali il discrimine. La supremazia di un gruppo sociale sull’altro, secondo Gramsci, può esprimersi in due modi: attraverso un dominio (di natura coattiva, ossia attraverso la forza) o attraverso una direzione intellettuale e morale (ossia attraverso il consenso), operata appunto dagli intellettuali o attraverso di loro.

Soffermiamoci sull’egemonia, tema fra i più complessi dell’opera gramsciana. Non sinonimo di “supremazia”, il termine “egemonia” finisce con il contrapporsi al mero “dominio”. Si può relegare ad una fase rozza e primitiva la credenza che basti la forza economico-sociale e fondare l’egemonia: essa si basa invece costitutivamente sul complesso sistema di mediazioni realizzato nella società civile anche per input degli intellettuali, al fine di costituirsi come “direzione”.

Trattando di alcune questioni linguistiche (la diffusione dei neologismi e il conformismo linguistico a livello nazionale), Gramsci elenca quei «focolai di irradiazione» [Gramsci 2007, pag. 2345] della lingua, ossia i media: la scuola, i giornali, gli esponenti della cultura alta e di quella popolare, il teatro e il cinema, le riunioni pubbliche fino alla semplice conversazione tra strati della popolazione più colti e meno colti. Mezzi diffusori della lingua, certo, ma anche di cultura in senso lato: scrive Gramsci infatti che «la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua unitaria comune» [Gramsci 2007, 2346]. E precisa che:

«ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».

Un legame risulta evidente: quello tra cultura e direzione politica.

Approdiamo così, automaticamente, al terzo vertice di quell’ideale triangolo su cui si struttura la riflessione gramsciana: la cultura appunto. Attraverso di essa (come contenuto dei veicoli che compongono la società civile) passano i tentativi di cambiare la società senza fare uso della forza, senza disporre dei mezzi coercitivi, legislativi, giudiziari, militari di cui dispone lo Stato. In una parola, possiamo dire: attraverso la persuasione.

Gramsci non ebbe modo di osservare l’enorme incidenza della televisione sulla formazione culturale delle masse e, in generale, l’evoluzione dei mezzi mass-mediali. La Scuola di Francoforte e il nostro Pasolini non hanno mancato di mettere in guardia dal potenziale repressivo e antidemocratico di questi nuovi mezzi di comunicazione massiva. Il pericolo della deriva antidemocratica si accentua nella misura in cui il canale della comunicazione diventa un cono, e la fonte si restringe fino a diventare un acuto vertice che può contrarsi ancora fino all’estremo, fino a farsi puntiforme: fino a vedere un’unica testa pensante all’origine della cascata mass-mediatica.

Nell’Italia degli ultimi decenni non si è concretizzata solo questa eventualità, già di per sé spaventosa, da cui pure eravamo stati messi in guardia. Il dispiegarsi di un personalissimo impero mediatico è stato accompagnato da un fenomeno chiaramente leggibile con gli strumenti forniti, con largo anticipo, da Gramsci: il cortocircuito tra società civile e Stato. Cortocircuito che si consuma appunto nel fertile campo della cultura di massa a livello nazionale.

Per richiamarci a tempi più vicini all’esperienza di Antonio Gramsci: una forma di governo autoritaria come quella cui il filosofo sardo dovette soccombere non si reggeva esclusivamente sulla propaganda, ma l’esercizio della forza era assolutamente imprescindibile. Non si trattava certo di una Repubblica democratica fondata sul consenso. Al contrario, le forme di governo non formalmente autoritarie possono e devono limitare le manganellate alle situazioni di disordine e minaccia che si può indurre l’opinione pubblica a ritenere giustamente sedate con quegli strumenti: ossia, l’abuso anche fisico da parte dello Stato può consumarsi entro i limiti in cui si riesca a farlo apparire legittimo e straordinario. Ogni altro intervento dello Stato deve passare attraverso una forma “gentile”, persuasiva di dominio. E se l’egemonia in senso gramsciano è una direzione morale e intellettuale (che si spera onesta e consapevole), la necessità di calare dall’alto contenuti che legittimino i passi compiuti dallo Stato mostra la vera natura dell’esercizio dell’egemonia in una società come quella berlusconiana: il nesso tra egemonia e populismo mediatico è serratissimo.

Se lo Stato si appropria degli snodi strategici della comunicazione, dei focolai di irradiazione della cultura che appartengono alla società civile, e lo fa in modo pressoché esclusivo, ecco che si verifica la fagocitosi, per cui i mezzi tecnicamente liberi della società civile diventano uno dei tanti strumenti di cui dispone il potere coercitivo dello Stato. Questa eventualità, tutt’altro che sconosciuta, può verificarsi in due forme. Torniamo per un attimo al ventennio più brutale per illustrare la prima: lo Stato invade gli spazi della società civile istituzionalmente, e la società civile è assoggettata di diritto allo Stato. È così che Dino Alfieri, ministro per la stampa e la propaganda, diventa automaticamente ministro della cultura popolare con la nascita del MinCulPop nel 1937 (o meglio, dopo che così viene rinominato il precedente Ministero per la Stampa e la Propaganda).

Spostiamoci verso un ventennio molto più leggiadro e osserviamo da vicino la seconda forma del fenomeno: quella in cui lo Stato si appropria degli spazi della cultura non istituzionalmente ma nella persona di un suo esponente nella veste di privato cittadino. Che però, proprio perché esponente dello Stato e detentore di alcuni dei suoi poteri, soltanto un privato cittadino non è. Si verifica allora lo stesso fenomeno, ma larvato e non apparente: l’assoggettamento di fatto degli strumenti e degli spazi della società civile allo Stato, mentre di diritto essi rimangono di pertinenza privata perché un privato è il loro acquirente.

Gli intellettuali che si lascino a loro volta asservire a queste logiche diventano galoppini del vero e proprio regime persuasivo che si è così costituito, non diversi dai fabbricanti di film propagandistici su commissione dei tempi andati. Travolta dall’unico, suadente vocione del padrone, sfuma anche l’organicità dell’intellettuale, che non si fa più portavoce e avanguardia di una classe, o non necessariamente della classe a cui appartiene: la cultura di massa, per poter essere massimamente pervasiva, deve essere connotata da un aspetto il più possibile interclassista. Paradossale, visto che l’intellettuale gramsciano si definisce come organico alla propria classe, come parte della classe i cui interessi deve curare con la propria attività e la propria produzione culturale: l’intellettuale è l’avanguardia, la testa pensante della sua classe, che se ridotta allo stato di massa acefala non potrebbe coordinarsi né darsi espressione artistica. La fuoriuscita di un intellettuale dal senso di appartenenza della sua classe lo rende ad essa inorganico, cioè anche inutile.

Eppure, l’apparenza interclassista è un comodo mascheramento che permette l’infiltrazione di determinate forme di cultura in ogni pertugio sociale. La realtà concreta è molto diversa: il cortocircuito di cui abbiamo parlato assoggetta di fatto una enorme quantità di produttori di cultura a logiche classiste, di una classe cui spesso non appartengono (credo si possa con facilità smentire empiricamente che tutti gli intellettuali italiani siano contemporaneamente proprietari di industrie o grandi investitori), e in più danno loro l’illusione (replicata piamente da molti fruitori dei loro prodotti culturali, spettatori dei loro film o dei loro servizi televisivi, lettori dei loro libri) di operare su un terreno scevro da implicazioni classiste e da ripercussioni politiche. Ancor di più: illusione di operare in un terreno libero dal potere coercitivo dello Stato, quello appunto della società civile.

È un’illusione nella misura in cui gli interessi di una porzione di società civile si concentrano nella persona di un uomo di Stato e viceversa. Ed è un’illusione perché questo esponente dello Stato non è solo un’incarnazione delle istituzioni, un sovrano che materializza la legge nella sua persona impersonale, ma è un individuo dotato di una concreta e precisa collocazione sociale. Anche la sua collocazione di classe è ben determinata ed ovviamente non è casuale che proprio un membro della sua classe si trovi al posto in cui egli si trova: potremmo credere il contrario solo quando un operatore di call center, con i soli introiti che gli permette la sua posizione di operatore di call center, potrà acquistare un palinsesto televisivo e asservirlo ai suoi scopi ed interessi che coincidono con quelli di tutti gli operatori di call center.

I duplici interessi di un uomo di Stato sono dunque travestiti da fenomeni disinteressati (diversamente interessati) della società civile, i cui gangli vitali si trovano avviluppati in un’intricata rete di interessi non intrinsecamente conflittuali, poiché sottomessi ad un’unica mente e quindi, eventuale schizofrenia ventura a parte, ad un’unica logica.

Lo scacco subito dalla società civile è passato da uno snodo di cui non era affatto impossibile prevedere gli sviluppi: mi riferisco al passaggio del sistema radiotelevisivo dal regime di monopolio pubblico ad un sistema misto, in cui un privato può possedere trasmittenti su scala nazionale. La Corte costituzionale (sent. 59/1960) ribadisce la necessità di un monopolio pubblico dei mezzi televisivi sulla base di un sillogismo di buon senso: «se i costi delle imprese radiotelevisive sono molto elevati e se il numero delle frequenze che le convenzioni internazionali assegnano all’Italia è limitato, allora il pluralismo dell’informazione è meglio garantito dal monopolio pubblico che da un regime privatistico che sfocerebbe inevitabilmente in un monopolio o in un oligopolio» [Bin, Pitruzzella 2012, pag.555]. Ecco fatto fuori il nostro operatore di call center che voleva possedere una rete televisiva. Al contrario, la strada dei suoi più ricchi antagonisti sarà spianata negli anni seguenti, dalla sentenza del 1976 che esclude dal monopolio pubblico le tv locali e crea le premesse materiali della catastrofe ventura. Contro i principi rivendicati dalle Corte costituzionale, di fatto si viene a creare un oligopolio privato fatto di trasmittenti locali, e la volontà di alcuni giudici di oscurare le trasmissioni private ormai diffuse su scala nazionale è bloccata dal decreto-legge che legittima la situazione di fatto in via transitoria: il famoso decreto Berlusconi. Conclude l’opera nel 1990 la legge Mammì, che legittima il sistema misto. La società civile è gettata in pasto (ecco Pasolini, ecco la Scuola di Francoforte) a un miliardario, gli interessi di un miliardario iniziano a martellare antidemocraticamente la massa impotente degli spettatori. Ma la tragedia non è ancora compiuta: si tratta solo di un privato che invade gli spazi pubblici che i privati meno ricchi non possono invadere a loro volta. Lo scacco decisivo è la sua discesa in campo: la manipolazione dell’opinione pubblica, ça và sans dire, si consuma su tre reti nazionali, nell’inconsapevolezza di molti spettatori che preferiscono le brillanti e satinate trasmissioni Mediaset (l’indimenticabile e attempata signora che difende il suo diritto alle telenovelas al grido “Rai ricchioni!”) senza avere la malizia di intuirne gli scopi infami. E la vittoria elettorale è tanto più travolgente quanto più è diversificata l’offensiva, perché gli interessi del padrone invadono i contenitori più sacri (i telegiornali, la carta stampata) e quelli più apparentemente frivoli e apolitici (il salotto televisivo, la commedia romantica). Nella primavera del 1994 è Non è la rai  a farsi cavallo di Troia dello spot elettorale, quando ad una (poi dirà di se stessa) giovane e sprovveduta Ambra Angiolini si fa dire (improvvisazioni sintattiche a parte), dopo che il diavoletto animato ha ricevuto una telefonata:

«Allora, secondo lui era il Padreterno, tanto per cominciare, perché lo chiama, ecco, come se chiamasse, no, perché sembra che al Padreterno sia piaciuto moltissimo lo spot di Berlusconi su Forza Italia [il diavoletto che annuisce alle sue spalle], ecco, bene, gli è piaciuto molto, molto, molto, molto, molto, molto contento».

Stessa sede, altra data:

«È una pazzia pensare che il Padreterno si occupi di certi dettagli con tutte le cose che ha da fare, le galassie che scoppiano a destra e a sinistra, Forza Italia! Sì, perché Lui scusatemi, eh, Lui è contento di Forza Italia. Tiene per Forza Italia, il Padreterno. Mentre, come sappiamo, Satana tiene per Occhetto, eh, ovviamente, scusate, eh, e company. Anche Stalin, però, ho saputo.»

La furberia non si cura neppure di essere sottile.

Mettendo da parte la carta stampata, che pure risente dello stesso male e obbedisce allo stesso capo, rimarrebbe ancora un settore di società civile indenne dalla duplice invasione dell’interesse privato e della faziosità ideologica (perché, ricordiamo ancora quel che è più grave: il privato è anche uomo di Stato politicamente schierato): le tre reti Rai. La tragedia assume toni surreali se si pensa alla composizione della Commissione di vigilanza, incaricata di vigilare sulla linea editoriale della Rai, e che consta di una maggioranza di esponenti dell’opposizione e di un Presidente membro della coalizione al potere. Ciò che era stato espulso dalla porta rientra allora dalla finestra: se il padrone delle reti private scende in campo,  la sua influenza (e i relativi interessi) si estendono anche alle tre reti che non possiede.

Ma l’uomo in questione è davvero di multiforme ingegno (e impegno) e nessun settore della società civile ne è immune. Ad aprire una breccia nell’esteso argomento cinematografico basti una curiosità: il film Immaturi (il cui peso artistico è a disposizione di chiunque voglia verificarlo, e i cui numeri sono pubblici e riscontabili in rete), co-prodotto e distribuito dalla Medusa Film (leggi: Berlusconi), in quanto pellicola “di alto interesse culturale” beneficia della legge del 2004 che prevede il finanziamento pubblico dei film di qualità;  Ministro dei beni e attività culturali interessato, è l’insospettabile Sandro Bondi (allora PDL, leggi: Berlusconi).

Al di là degli interessi economici di quello che, tra le sue mille virtù, è anche un imprenditore, restano da calcolare (benché incalcolabili) gli interessi dell’uomo politico e da enumerare gli (ab)usi che ha ben avuto il diritto di fare dei suoi sconfinati mezzi. E se negli anni Novanta Mike Bongiorno e Raimondo Vianello nominavano il padrone in piena campagna elettorale su Rete4 con la stessa noncuranza che avrebbero usato nel loro salotto di casa, oggi i programmi di svago come i telegiornali delle reti interessate sono pregni della sua ideologia (e della sua anti-ideologia). Pullulano di focolai mefitici di una propaganda irresistibile perché continua, martellante ed omogenea, impegnata su ogni fronte possibile, massimamente pervasiva perché apparentemente priva di denotazione politica e di classe, nonché del carattere coercitivo dello Stato.

La cultura è di regime e puri servi di regime sono i cosiddetti intellettuali che si sottomettono a tali logiche, per idiozia o per interesse (che in parte temo e in parte spero che siano i più) e si fanno espressione fantomatica (perché inautentica) di una inesistente superclasse in cui tutti siamo potenziali milionari, zuzzurelloni depoliticizzati o grossolani indottrinati da un facile e altrettanto grossolano populismo.

Ancora una volta sottolineiamo il mascheramento: dominio travestito da egemonia. Prende col buono, diffonde modelli seguiti poi da tentativi spontanei di emulazione, non rincorre la gente col manganello, persuade: eppure, cionondimeno, sotto queste belle apparenze, ancora dominio, non egemonia, o apparente egemonia strumento del dominio. Perché subdola, perché univoca, perché prezzolata.

Senza perdere di vista l’indispensabile bussola gramsciana, è facile osservare (in termini di classe, in termini partitici, ma anche in termini economici) a chi giovi la diffusione di determinati modelli, il florilegio di mistificazioni (tele)giornalistiche, il proliferare di correnti e generi nella letteratura come nel cinema. Così, non per caso, il filone dei cinepanettoni vede la luce e viene codificato precisamente a metà degli anni ’90 e un’intera generazione di maestranze cinematografiche scende in campo in questo nuovo cinema, che è un cinema dei telefoni bianchi di ritorno, apparentemente disimpegnato ma meglio propagandistico dei vari Scipione l’africano, di certo molto meglio camuffato.