Mai dire Mao: una storia di libertà negli Usa

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

mao-tse-tung popartChe la retorica della esportazione della democrazia possa tranquillamente convivere con la ben più prosaica “ossessione” del nemico interno – ovviamente comunista – ce lo ha ampiamente dimostrato la più che secolare storia degli Stati Uniti. Gli esempi sono molti: nell’immediato secondo dopoguerra la Camera di Commercio degli Stati Uniti si attiva in modo particolare, dal 1946 al 1952, nella diffusione di una serie di opuscoli – “L’infiltrazione comunista negli Stati Uniti. Sua natura e come combatterla”, “I comunisti nel governo. I fatti e un programma”, “I comunisti nei sindacati. Fatti e contromisure” e, infine “Comunismo: a che punto siamo?” – per dimostrare che radio, cinema, teatro e televisione, mondo politico e sindacale sono sotto il controllo di Mosca. Tutta la politica di alleanza con l’Urss è messa in discussione, tanto che alcuni deputati repubblicani fanno stampare in tre milioni di copie un volantino nel quale la stessa amministrazione Roosevelt è accusata di essere parte di un gigantesco complotto mirante a far cadere Washington nelle mani dei comunisti. Per loro è chiaro: “lo spettro rosso del comunismo è in agguato sul paese, da est a ovest, da nord a sud”. Il presidente democratico Truman interviene direttamente per ricordare la minaccia: Ci sono oggi in America molti comunisti. Sono dappertutto. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle macellerie, negli incroci, nel mondo degli affari.

E ognuno di essi porta in sé, in germe, la morte della nostra società“. Con l’ordine esecutivo n. 9835 viene impostato il “Programma per la lealtà dei dipendenti federali” con lo scopo di epurare dal pubblico impiego i dipendenti sleali, cioè sospetti di essere comunisti o simpatizzanti del comunismo. Il Dipartimento della Giustizia è invitato a compilare una lista delle organizzazioni giudicate totalitarie, fasciste, comuniste o generalmente sovversive. Si trovano così accomunate dalla stessa accusa associazioni e movimenti come il Partito comunista americano, il Ku Klux Klan, il Comitato per la difesa della Dichiarazione dei diritti, la Lega degli scrittori americani, gli Amici americani della natura e l’Associazione dei librai di Washington. Viene, inoltre, approntato un “Security index”, un elenco contenente ben 26.000 nomi di individui ritenuti politicamente pericolosi da rinchiudere in campi di concentramento in caso di emergenza.

Possiamo quindi stupirci dell’ennesima dimostrazione ossessiva che ci arriva dalla “Casa sulla collina” e che stride un poco proprio con la retorica della democrazia e della libertà? Visti i precedenti, certamente no.

A fine marzo il National Center for Education Statistics, che dipende dal Dipartimento dell’Educazione, si è trovato nei guai per aver utilizzato una frase – per nulla sovversiva ma perfettamente a tema – di Mao Zedong: “Nei nostri confronti dovremmo ‘essere insaziabili nell’apprendimento’ e verso gli altri ‘essere instancabili nell’insegnamento’”. La richiesta di spiegazioni da parte di alcuni senatori ha portato alla sostituzione della frase incriminata con una più americana di Lincoln.

Certo l’Urss non c’è più e con essa sono caduti in disgrazia anche molti partiti e movimenti comunisti: il pericolo del contagio rivoluzionario è stato prontamente sostituito con quello della minaccia terrorista. Ma resta la Cina, governata da un partito che ancora si riconosce in Marx, Lenin e Mao. Certo, Pechino non predica più l’esportazione della rivoluzione ormai da molti lustri, ma si ostina a non riconoscere la superiorità universale del modello occidentale (statunitense su tutti) e a non condividere l’idea degli Usa come “nazione indispensabile”. Diamo la parola a Ian Huntsman, già ambasciatore Statunitense a Pechino e poi “colomba” tra i candidati repubblicani alle presidenziali: “Metà del mondo può vedere la luce di questa nazione. Ovunque i dissidenti la possono vedere. O tu hai questa luce o non ce l’hai. Questo è il valore dell’America nel mondo oggi. Quando facciamo brillare la nostra luce all’estero amplificata da una forza interna a casa nostra siamo invincibili“. A Zhongnanhai c’è, insomma, chi questa luce non la vuole vedere!

Il fatto non poteva essere certo ignorato da Pechino, da sempre sotto accusa per la mancanza di libertà, tanto da trovare spazio in un articolo sull’ufficiale Global Times1. Ad essere presi di mira sono gli Stati Uniti che “si vantano tanto della propria libertà di parola ma che non possono tollerare una citazione da Mao” e che dimostrano tutta la propria “grettezza di fronte alla diversità della cultura globale”. Il messaggio è chiaro: la Cina ha ancora molta strada da percorrere sulla via della costruzione di un sistema trasparente, gli Stati Uniti possono offrire un valido modello sulla strada delle riforme, ma non possono essere un modello valido in tutti i suoi aspetti. Di fronte a Pechino si è consumato l’ennesimo segno di arroganza a stelle e strisce: “gli Stati Uniti possono imporre limiti alla libertà di parola, mentre se lo fanno gli altri Paesi vengono considerati infidi”. Uno strano modo, senza dubbio, di far brillare nel mondo la propria luce.

NOTE

1   “Mao furor shows truth of US free speech“, Global Times, 31 marzo 2013