Una guerra fredda al servizio di una guerra geoeconomica

soldato carrodi Alberto RabilottaMichel Agnaïeff
da alainet.org 

Traduzione di Giulia Salomoni per Marx21.it

Attualmente, un quarto di secolo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la “guerra fredda” risorge per diventare una minaccia crescente per la pace mondiale. Il tentativo in corso di utilizzare l’espansione dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), per completare il’accerchiamento militare della Russia e il rivolgersi degli Stati Uniti alla regione Asia-Pacifico per preservare il suo status di potenza dominante, in particolare nel Mare della Cina, sono percepite come le fonti della rinascita di una guerra fredda che si pensava fosse sparita per sempre.

In realtà nulla nasconde la volontà di Washington di provocare un aumento delle tensioni. Gli annunci quasi quotidiani confermano l’intenzione di affermare la presenza attiva della NATO in Europa, e in particolare nei paesi limitrofi alla Russia, e questo di traduce nella creazione di nuove basi militari, nell’installazione di sistemi avanzati di radar e di missili a media distanza con la capacità di portare testate nucleari, e nell’annunciata installazione di bombardieri strategici B52 nelle basi europee della NATO. La base di tutto questo spiegamento è costitita dalle incessanti manovre militari, tra esse l’esercitazione militare Anaconda-16, che ha dato luogo al più importante spiegamento di forze straniere in Polonia dalla Seconda Guerra Mondiale. Un ritmo simile si osserva nei voli di ricognizione con chiare intenzioni intrusive e l’ostentatrice presenza di vascelli e flotte di guerra degli Stati Uniti (USA) e dei suoi alleati nelle acque territoriali russe e nel Mediterraneo Orientale.

Queste dimostrazioni di forza ispirate alla strategia volta a spingere l’avversario verso “l’orlo dell’abisso” sono presentate dalla ’addomesticata stampa occidentale come la “risposta legittima” ad una minaccia russa, supposta e mai dimostrata, contro i paesi del Baltico e Polonia. La Russia sarebbe l’aggressore, e la NATO la vittima che cerca di assicurarsi la possibilità di difendersi. La stessa cosa per l’insieme degli avvenimenti in Ucraina dal rovesciamento del governo di Yanukóvich, dove assolutamente tutto “si deve ad un’intollerabile ingerenza della Russia”. Nel caso della Cina, la stampa occidentale giudica la situazione come se la questione della libertà di navigazione si limitasse al “diritto” dei vascelli di guerra statunitensi di pattugliare nelle acque della zona economica esclusiva della Cina entro le 200 miglia marine, o più ancora, di “controllare” le acque dello Stretto di Malaca, arteria vitale per l’economia cinese.

In questo modo la stampa occidentale definisce fatti ed eventi di situazioni che possono rapidamente diventare esplosive in una cornice che non lascia posto ad analisi più equilibrate (1), e comunque relega nel “purgatorio delle teorie del complotto” gli intenti di prendere una prudente distanza dalla narrazione dominante fabbricata principalmente dai “Think Tanks” statunitensi, debitamente amplificata dalla concentrazione della proprietà dei mezzi di diffusione e la vicinanza, molte volte promiscuità, delle redazioni di questi mezzi con i rispettivi governi in materia di copertura internazionale. Senza dimenticare la forzata dipendenza da fonti di informazioni “riconosciute” e l’omogeneità mentale esistente dei giornalisti impiegati in questi media, convenientemente “plasmati” dalle strategie di persuasione delle quali diventano i portavoce.

Esistono molte varianti dei punti di vista sulle cause di questo risorgimento della Guerra Fredda, e il loro diffondersi attraverso i media di massa è solito essere semplificatore e moralizzante, con il messaggio soggiacente che la fonte delle tensioni sia una persistente e sorda lotta tra il male (l’autoritarismo e la corruzione) e il bene (l’economia di mercato e la libertà democratica). D’altra parte i punti di vista marginali, con sfumature o in franca opposizione a questa narrazione dominante, tendono a invocare il “peso dominante” della storia, della geografia o delle decisioni politiche prese sotto la pressione di interessi stretti e di ordine economico o finanziario.

Tali fattori, è evidente, sono in gioco nella situazione attuale. La spiegazione del ritorno alla guerra fredda non può tuttavia essere ridotta alla constatazione, non importa quanto giusta sia, che l’aumento delle tensioni serva molto bene agli interessi del complesso militare-industriale degli Stati Uniti, specialmente con la restaurazione di una “minaccia russa” molto più convincente che una “minaccia terrorista”, reale però limitata, per giustificare così gli enormi budget per gli armamenti. Neppure limitarsi a esclusive considerazioni geostrategiche ispirate in maggior o minor misura per le teorizzazioni degli studiosi di geopolitica come Mahan, Mackinder o Spykman (2).

Una parte della spiegazione si trova nel problema che costituisce, di fronte alla volontà di supremazia degli Stati Uniti, la singolarità della posizione geografica della Russia, situata in un “centro” geografico della storia mondoale, nella potenza crescente della Germania in Europa e nella possibilità di una collaborazione germano-russa orientata verso l’Eurasia. Il progetto cinese della “via della seta” non passa inosservato a Washington, dove lo si vede come un primo passo concreto verso la formazione di un blocco cino-euroasiatico.  È precisamente questo “problema” quello che negli anni 90 fu sollevato e per il quale Zbigniew Brzezinski (3), disse che, in nome della difesa della preponderanza mondiale degli USA, era necessario da un lato “trattenere” ogni tentativo dalla Russia per recuperare la sua posizione di gran potenza, e per l’altra assoggettare all’Europa mediante i suoi “soci” nel Continente. In questo modo gli Stati Uniti cercano di conservare il ruolo di arbitri supremi nelle relazioni di potere in seno allo spazio euroasiatico, che è a sua disposizione dallo smembramento dell’Unione Sovietica. Il recupero della Russia sotto i governi di Vladimir Putin, l’affermazione della potenza cinese e il fallimeno delle politiche neoconservatrici adottate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno reso irrealizzabile la “dottrina” Brzezinski. Il recupero della Russia sotto i governi di Vladimir Ptin, l’affermazione della potenza cinese e la sconfitta delle politiche neoconservatrici adottate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 hannp reso irrealizzabile la “dottrina” Brzezinski.

È così che invece che cercare di controllare il centro del continente euroasiatico (4) Washington ha preferito consolidare la supremazia della sua posizione di forza nel sistema finanziario internazionale e nel controllo delle nuove tecnologie, scommettendo principalmente sulla conclusione di trattati commerciali e di investimenti a livello bilaterale, nei quali Washington fa giocare al suo favore l’asimmetria di potenza tra USA ed i suoi “soci” per imporre gli elementi chiave di condizionamento politico. Cosa ottengono gli Stati Uniti mediante questa strategia? 1) affrontare ovunque i tentativi di integrazione economica regionale iniziate senza il suo consenso 2) Aprire la via ai “trattati interregionali” giudicati più appropriati per perseguire i loro interessi nelle questioni di politica economica e relazioni internazionali. Il ruolo di arbitro supremo in materia di relazioni di potere attraverso il mondo che si attribuisce Washington diviene così indissociabile dalla sua volontà di sottomettere i paesi firmatari di questi trattati agli interessi di un sistema economico che sotto la direzione degli USA sta venendo costruito rapidamente nel mondo e del quale saranno i beneficiari quasi esclusivi (5).

L’esercizio dell’egemonia passerà principalmente per l’instaurazione del neoliberismo nel mondo. L’imperialismo eserciterà a fondo la pressione per concludere questi trattati commerciali, come protezione delle investimentii e dei diritti di proprietà intellettuali, che secondo il discorso ufficiale sono destinati ad assicurare un “buon ambito” per i commerci nel solco di un processo di internazionalizzazione dell’economia; questi trattati serviranno soprattutto a consolidare i meccanismi essenziali dell’ordine imperialista statunitense, cioè il primato del sistema finanziario USA, il ruolo centrale del dollaro nel sistema monetario mondiale, l’applicazione estraterritoriale delle leggi statunitensi, la riproduzione degli standard statunitensi nella regolamentazione della proprietà intellettuale e la moltiplicazione dei meccanismi privati per la risoluzione delle controversie commerciali e di investimenti che marginalizzano il ruolo dei governi nazionali negli orientamenti dell’economia dei loro paesi.

La pressione imperialista è esercitata a fondo e può portare alla destabilizzazione dei “paesi recalcitranti” più deboli, utilizzando per questo le conosciute vie di appoggio alla contestazione democratica per via elettorale, il lancio di accuse di crimini o corruzione, mediante l’appoggio organico e finanziario della sovversione interna, così come di pressioni o sanzioni economiche di tutti i tipi.

E oltre a questi strumenti, nei paesi giudicati come “difficilmente attaccabili” come Russia e Cina, la strategia applicabile include il contenimento e le minacce nelle loro regioni confinanti: per il primo è stata sostenuta l’agitazione nel Caucaso ed il rovesciamento del governo in Ucraina nel 2014, e per il secondo il separatismo della regione autonoma Uigur del Sinkiang e il conflitto territoriale nel Mare del Sud della Cina.

In America Latina, banco di prova delle politiche dell’imperialismo neoliberale, Washington e i suoi alleati locali hanno raggiunto attraverso la loro influenza negli “indipendenti” poteri giudiziari e i mezzi di comunicazione addomesticati, il rovesciamento dei governi (colpo di Stato in Honduras nel 2009, in Paraguay nel 2012 e il processo politico per spodestare la presidente brasiliana Dilma Rouseff nel 2016), e paralizzare i governi che cercavano di ampliare la democrazia e la giustizia sociale (in Argentina sotto i governi di Cristina Fernandez e in El Salvador sotto i governi di Sanchez Cerèn, tra gli altri esempi). Per il politologo argentino Edgardo Mocca esiste un “profondo interrogativo sul ruolo del Potere Giudiziario nella democrazia argentina […] perché si accumulano elementi che inducono a pensare che la corporazione giudiziaria si sia convertita in uno dei pilastri della rivoluzione neoliberale, su un piano di uguaglianza con le catene monopolizzate dei mezzi di comunicazione in un interessante scambio di ruoli: i media costruiscono la mappa dei “buoni” e dei “cattivi” nella politica argentina e alcuni giudici traducono questa cartografia in sentenze”. Questa critica è condivisa da Raul Zaffaroni, ex giudice della Corte Suprema di Giustizia dell’Argentina (7).

Di fatto l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo si rafforzano reciprocamente favorendo la possibilità che, una volta eliminata la minaccia di un sistema socioeconomico alternativo, sia ristabilito il potere e gli ingressi dei monopoli e delle grandi imprese, e quindi delle oligarchie della finanze e dell’industria dei paesi “sviluppati” – la triade costituita da USA, Giappone e Unione Europea- la cui influenza determinante in seno ai sistemi politici nazionali crescerà ulteriormente, permettendo un maggiore drenaggio delle immense risorse finanziarie che arriveranno loro sotto la forma di “rendita” (8).

Il processo di internazionalizzazione delle economie e della transnazionalizzazione delle imprese occidentali è cruciale per queste oligarchie che si integrano senza riserve al neoliberismo globalizzato, e il cui obiettivo principale è di conseguenza preservare a qualunque costo gli interessi delle loro imprese e gli interessi personali nella gestione del mercato mondiale.

L’imperialismo attuale ha continuato ad evolvere in una forma più collettiva, nella quale gli USA si pongono come difensori di “interessi comuni” che condividono con i loro alleati subalterni, cioè gli altri membri del G7 (9), che nella pratica sono stati trasformati nel “direttorio del mondo”, e in questa configurazione gli alleati subalterni accettano che si debbano accontentare di un diseguale ripartizione dei vantaggi che si potranno ottenere, e le loro oligarchie nazionali stimano che “i vantaggi procurati dalla gestione del sistema mondializzato degli USA per conto dell’imperialismo collettivo superano gli inconvenienti” (10).

Il sogno (e l’incubo) del ritorno ad un mondo unipolare.

Adottando il ruolo di gendarme mondiale di questa mondializzazione neoliberale, Washington si arroga il diritto di intervenire in ogni paese in cui lo consideri necessario e in qualunque regione del pianeta, ricorrendo per questo alle sue reti di influenza ed ai suoi alleati locali, e con la forza bruta quando lo reputa necessario. Il bilancio dell’ultima decade è definitivamente chiaro, con i diversi tentativi di cambi di regime, l’invasione dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia. È un fatto che nel breve periodo unipolare che è seguito alla sparizione del “nemico” sovietico e della “minaccia” comunista, gli USA hanno considerato la loro egemonia mondiale come un fatto irreversibile e che questo punto di vista continua  a dominare il pensiero politico statunitense nonostante i cambi nei rapporti di forze su terreno economico mondiale, così come l’evidente sconfitta del neoliberismo nella risoluzione nel lungo termine del problema dei cicli di realizzazione del capitale nelle economie reali, una contraddizione fondamentale che mina dagli anni 70 del secolo passato le economie dei paesi più sviluppati del capitalismo, a cui si aggiunge la crescente perdita di credibilità nelle elite dirigenti da parte delle popolazioni, come vediamo nelle società degli USA, in Gran Bretagna ed in altri paesi della “triade”.

Eppure l’inflessibilità continua a figurare nell’”ordine del giorno” quando si tratta di proseguire le politiche imperialiste, e questo si spiega per due ragioni principali. La prima è la rigidità del “nuovo ordine legale internazionale” che è stato impiantato attraverso i differenti trattati bilaterali e multilaterali sul commercio, la protezione degli investimenti e il diritto di proprietà intellettuali. In precedenza questi, e l’avere creato un “santuario” per gli interessi finanziari al fine di proteggerli delle decisioni politiche, hanno subordinato gli Stati a questo “nuovo diritto” che nella vita sociale reale ha svuotato la democrazia liberale e rappresentativa del suo contenuto, conservando solamente il suo aspetto formale.

A differenza del capitalismo dell’era industriale, che per sopravvivere e conservare il potere finiva per accettare di negoziare con le forze sindacali e politiche alcune riforme lavorative e sociali, l’attuale sistema esclude definitivamente tutta la trasformazione o mutazione del modello economico, rivelando così la sua natura profondamente antisociale, tema che comincia a preoccupare autorevoli economisti ed i mezzi destinati alla cupola imprenditoriale (11). Questo spiega perché la prassi democratica, dal terreno lavorativo fino a quello politico e sociale, sia stata limitata e tenda ad estinguersi, e la preoccpazione di conservare i dogmi soggiacenti al modello porto a negare sistematicamente la necessità di rispettarne la pertinenza sociale. Come con le monarchie assolutiste basate sul “diritto divino” in questo sistema quasi non c’è spazio per la negoziazione di riforme che favoriscano tanto le economie reali quanto le società, e questa politica inoltre si riflette tanto nella vita politica e sociale dei paesi del blocco occidentale come nelle loro relazioni con i paesi percepiti come “recalcitranti”.

La seconda fonte di questa rigidità è l’omogeneità mentale che regna nello strato dei quadri e degli impiegati nelle sfere politica, economica, mediatica e accademica. Omogeneizzazione che è frutto dell’introduzione in queste sfere delle idee neoliberali nel corso dell’ultimo decennio. Per molto tempo la formazione ricevuta e i criteri di selezione hanno giocato a favore di questo tipo di profilo nei candidati. Questa omogeneizzazione mentale è attualmente una barriera a qualunque critica che ponga in discussione i presupposti fondamentali del neoliberalismo e che apra spazi all’esplorazione di soluzioni di ricambio che si allontanino o contraddicano i fondamenti di questa dottrina, e di conseguenza alla flessibilità nella negoziazione, tanto sul terreno delle relazioni e degli aspetti sociali come pure nelle relazioni internazionali.

Tanta inflessibilità nel contesto di una crescente instabilità egemonica ha come conseguenza i comportamenti internazionali che vediamo negli Stati Uniti e nei loro alleati subalterni, che sempre di più contraddicono aspetti essenziali della realtà esistente. Questa inflessibilità si manifesta nella “mancanza di armonia” o di coerenza tra alcune delle parti del sistema mondiale di alleanze dell’imperialismo.

Il lassismo degli USA nel tentativo di mantenere la disciplina nel campo dei suoi alleati può spiegarsi con una certa ebbrezza nata dai “vapori” dell’unipolarità (12), che si dissipa rapidamente dall’inizio del 2013. Ma considerando con realismo la situazione, questo lassismo può anche essere spiegato con le trasformazioni necessarie a partire dalla dualità “totalitarismo neoliberale-egemonismo statunitense”, che in sé stesso può essere fonte di contraddizione.

La difesa dell’unipolarità a qualunque prezzo, le mancanze di disciplina nel campo dei suoi alleati e i temerari comportamenti che si producono nel Vicino Oriente, in Africa del Nord, nella periferie della Russia e della Cina, hanno permesso di creare “un caos ben pianificato e molto utile all’imperialismo” nelle relazioni internazionali e la gestione- di breve termine e portata- delle contraddizioni politiche, economiche e sociali generate dal totalitariso neoliberale. Quest’ultimo può anche essere visto come la creazione e lo sfruttamento senza fine di tensioni nel mondo affinchè funzionino come valvole esterne di sicurezza, destinate ad abbassare le pressioni sociali interne. In quanto alla logica propria alla dinamica dell’imperialismo, il caos nel quale è stato sommerso il Medio oriente è un’eloquente testimonianza. Le invasioni dell’Iraq e della Libia, la destabilizzazione della Siria, l’apertura politica verso i  “Fratelli Musulmani” in Egitto, e dall’altra parte l’appoggio concesso a regimi confessionali e retrogradi, come minimo hanno complicato e ritardato considerevolmente l’emergere di un mondo arabo più stabile e sviluppato, o detto in altro modo, la costruzione di un polo arabo in un mondo che evolve verso la multipolarità.

Quel che è certo, ed oltre i “vantaggi tattici” e le “vittorie di Pirro”  ottenuti in questo caos,sono gli enormi rischi per la pace regionale e mondiale. Possiamo pensare al comportamento del presidente turco Erdogan, mandatario di un paese membro del NATO, col suo progetto di ricostituire l’Impero ottomano, il suo appoggio ai gruppi ribelli e terroristi in Siria mentre reprime in maniera brutale e sanguinante la popolazione curda dentro il territorio nazionale; o al pericoloso polverone creato per il “cambio di regime” in Ucraina e la formazione di un governo dominato da un’alleanza tra gli oligarchi che hanno creato i problemi del paese con gli ultranazionalisti e neonazisti di origini recenti o antiche. E che dire della politica seguita dalla famiglia reale in Arabia Saudita, che finanzia il terrorismo e si serve di un movimento politico-religioso, il wahabismo, per destabilizzare società che si considerano minimamente laiche, che provoca apertamente conflitti bellici, come in Siria e Yemen, e si accanisce ad aumentare le tensioni con l’Iran, senza curarsi che così potrebbe far precipitare in guerra l’intera regione. Lo stesso Israele, paese fortemente coinvolto nel confronto con l’Iran e che partecipa alla destabilizzazione della regione medio-orientale, e che si permette il lusso di ignorare decenni di condanne e critiche da parte della maggioranza dei paesi del mondo per le sue odiose politiche di espansione territoriale e di brutale repressione del popolo palestinese.

È per questo che non c’è nulla di sorprendente nella richiamo lanciato recentemente da Ted Galen Carpenter, importante membro del conservatore Istituto Cattolico e collaboratore della rivista National Interest, che scrive che “ è tempo di potare la sovra-estesa rete di alleanze” degli Stati Uniti attraverso la NATO, ricordando che questo compito non fu mai realizzato dalla NATO dalla fine della guerra fredda, e che sia necessario iniziare ora.

Carpenter scrive che ci sono due tipi di alleati che dovrebbero essere “potati”: i paesi del Baltico, che sono piccoli, non hanno importanza strategica per gli Stati Uniti e hanno cattive relazioni con la Russia e i loro “alleati odiosi” per la loro politica interna e regionale, dall’Arabia Saudita alla Turchia, passando per l’Egitto ed Israele (13).

Ma la “potatura” non è stata fatta e non verrà fatta neppure in un prossimo futuro, piuttosto il contrario, perché gli USA continuano ad incorporare e cercheranno di incorporare sempre più paesi vicini o confinanti alla Russia, senza prendere in considerazioni le intenzioni politiche più o meno nascoste di questi nuovi alleati.   E senza considerare che in caso di un grave incidente di frontiera provocato contro la Russia, senza l’esplicito appoggio di Washingron, ogni atto di guerra corre il rischio di trasformarsi in pochi secondi in un rogo nucleare, ed ogni conflitto regionale può rapidamente trasformarsi in un conflitto mondiale.

Per molti osservatori Washington sta chiaramente dando l’impressione che non può o non vuole imporre ai suoi alleati la disciplina imperiale nel delicato terreno dei gesti e delle azioni che possono portare alla guerra. La disciplina imperiale riposa da millenni nel principio che gli alleati e vassalli non hanno interessi oltre a quello di servire il supremo interesse dell’impero. Non importa quanto seduttrici siano le distinzioni tra le differenti forme di egemonia e di imperialismo, nessuna è sufficiente per spiegare la rottura di questo principio.

Ed in presenza della reazione molto negativa di Israele ed Arabia Saudita nel 2011, quando l’Amministrazione Obama abbandonò l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak, è difficile scartare l’ipotesi che effettivamente un mondo unipolare conveniva ad un buon numero di alleati degli USA, perché offriva loro la cornice per facilitare la realizzazione delle proprie ambizioni regionali. Quegli alleati non hanno quindi nessun interesse, e neppure intenzione alcuna, di abbandonare i vantaggi che per i loro progetti offriva loro l’unipolarità. Per quel motivo continuano agendo temerariamente e nella cornice di un scenario ormai superato, provocando o alimentando pericolosi confronti politici o militari, perché ad alcuni di essi un ritorno alla guerra fredda può sembrare vantaggioso.

In un recente articolo intitolato “Stati Uniti, sempre più instabili” (14), il sociologo Immanuel Wallerstein analizza l’instabilità, che non è oramai un problema esclusivo di quelli che sono chiamati “paesi del Sud”, e che si sta diffondendo nelle sfere della società e della politica negli USA, e indica che parallelamente in “tutto questo tempo gli Stati Uniti hanno continuato a perdere la loro autorità nel resto del mondo. In realtà oramai non sono più egemoni.  Coloro che protestano ed i loro candidati lo stanno notando, ma lo considerano reversibile, e non lo è. Gli Stati Uniti sono ora un socio globale considerato debole ed insicuro. Questa non è meramente la visione degli Stati che si sono opposti con forza alle politiche statunitensi in passato, come Russia, Cina, Iran. Questo è anche certo per gli alleati presumibilmente vicini, come Israele, Arabia Saudita, Gran Bretagna e Canada. Su scala mondiale, il sentimento di affidabilità degli Stati Uniti nell’ambito geopolitico è passato da quasi il 100 percento durante l’epoca dorata a qualcosa di molto minore. E peggiora di giorno in giorno.”  Il severo giudizio esposto da Wallerstein sembra confermarsi nei fatti, con le svolte e cambiamenti della politica estera della Turchia dopo lo strano tentativo di colpo di Stato, lo scorso 19 Luglio.

Questo degrado non è passato inosservato ad un diplomatico che conosce la storia, come il ministro delle Relazioni Estere della Russia, Serguéi Lavrov, che riferendosi ai “importanti cambiamenti che stiamo vedendo nella scena internazionale”, ha detto lo scorso 1 di giugno (15) che nuovi centri di sviluppo economico ed influenza stanno emergendo e guadagnando forze, soprattutto nella regione Asia-Pacifico, ma che “osserviamo anche un fenomeno realmente straordinario come la trasformazione dell’Europa in una regione che irradia non il tradizionale benessere, bensì l’instabilità”.

Questa “irradiazione” di instabilità a partire dall’Europa proviene senza dubbio dagli effetti perversi del modello economico, sociale e politico dell’Unione Europea (UE) e dalla dimostrata incapacità degli attori principali dell’UE (Germania e Francia in particolare) di opporsi alla politica temeraria che emana da Washington. A questo si unisce il rifiuto ad accettare che l’egemonia neoliberale e l’unipolarità sono cose del passato, e che ci troviamo in una transizione geopolitica che può arrivare ad essere l’embrione di una multipolarità, o di un policentrismo, come normalmente dicono i russi.

Guerra fredda e guerra psicologica per scatenare la battaglia geoeconomica?

 La “sospesa” presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, ha detto recentemente che l’emergere del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) è stato un evento senza precedenti nel quadro internazionale, il raggiungimento di un traguardo dal punto di vista dei processi multilaterali e della costruzione di un mondo multipolare, e senza dubbio in riferimento agli USA ed ai loro alleati, ha sottolineato che “sappiamo che questo ha spaventato alcuni paesi” (16).

Se, come segnala Wallerstein, l’imperialismo statunitense non è più egemonico, allora il combattimento “a vita o morte” contro qualunque alternativa socioeconomica al progetto neoliberale, come lo vede la presidente Dilma, ci permette di capire le “urgenze” da parte di Washington ed i suoi alleati del NATO di creare il fantasma di un “nemico strategico comune”, di una “guerra fredda” che permetta di costruire attraverso una “marcia forzata” una coesione politica ed ideologica del “mondo occidentale”, così come le “giustificazioni” per l’assalto ideologico, la repressione poliziesca, l’intervento diretto o l’ingerenza e la sovversione politica destinata a sradicare qualunque alternativa socioeconomica, sia nazionale, regionale o internazionale, capitalista o meno che risponda a legittime necessità sociali ed economiche dei popoli.

 Il cubano Fabián Escalante Font (17) ci dà una buona indicazione per capire questa complessa realtà quando segnala che “il concetto di ‘guerra psicologica’ si cominciò a formare negli Stati Uniti alla fine della decade dei 40, nel passato secolo, con l’iniziò di quello che si chiamò  “guerra fredda.” È precisamente nel 1951 in cui si presenta per la prima volta nel dizionario dell’Esercito nordamericano sotto la seguente definizione: ‘La guerra psicologica è l’insieme di azioni intraprese da parte di un o varie nazioni nella propaganda ed altri mezzi di informazione contro gruppi nemici, neutrali o amici della popolazione, per influenzare  le loro  concezioni, sentimenti, opinioni e condotte, in modo che appoggino la politica e gli obiettivi della nazione o gruppo di nazioni a cui serve questa guerra psicologica.

 Tutto questo è ancora più comprensibile se l’incorporiamo alla concezione che sta andando di moda, ma che è in realtà una reminescenza di quella che è stata un’antica pratica a Washington, di “fare la guerra con altri “mezzi”, che è lo stesso titolo (“War by Other Means”)  di un recente libro scritto per R. D. Blackwill e J. M. Harris, due importanti ex funzionari di ideologia neoconservatrice, e che ha ricevuto gli elogi in una rassegna del Council on Foreign Relations, (CFR), crogiolo di politiche imperialiste come mai ce ne sono stati.

La prima cosa che il CFR rileva è che gli autori “combinano la loro esperienza in politica internazionale in Amministrazioni Repubblicane e Democratiche” per chiedere che il governo dell’USA presti “al comportamento geoeconómico” lo stesso interesse che presta alla cooperazione sulla sicurezza nelle relazioni con gli alleati e soci, e che – per esempio- utilizzi la posizione che gli Stati Uniti hanno come “superpotenza energetica” per aiutare alleati come Polonia e Ucraina e assicurare che il Trattato Transpacifico e il Trattato Transatlantico “servano per bilanciare le politiche geoeconomiche di Cina e Russia”.

Julián Snelder fa una recensione di questo libro da un punto di vista critico (19) ed emergono alcuni punti che valgono la pena benché non dicano qualcosa di nuovo, come che “la corsa per la leadership si gioca fondamentalmente in termini economici”, o che “per risolvere i problemi esterni Washington porta molto rapidamente la mano alla pistola, invece di portarla al portafoglio”, e che Blackwill e Harris enfatizzano che per essi non si discute che gli USA abbandonino il loro ruolo mondiale, bensì il contrario, cioè che “attivino una strategia che massimizzi gli interessi statunitensi attraverso il commercio, le finanze e gli investimenti.”

Snelder nota che in questo libro si cita il “falco” Edward Luttwak, chi parafrasa Clausewitz quando afferma che “la geoeconomia è la continuazione delle antiche rivalità tra le nazioni per mezzi industriali”, e che i nemici degli USA in questo “confronto geoeconomico sono Cina, Russia ed altri Stati capitalisti nei quali i governi nazionali sono i principali attori sul terreno dei commerci”, aggiungendo che Blackwill e Harris considerano che le banche di sviluppo della Cina (BDCh) e del Brasile (BNDES) “possono portare avanti una diplomazia con capitale in una scala senza paragoni in  Occidente.”

Di fronte a quelli che chiedono l’uso del commercio, le finanze e gli investimenti come armi, affermando che in questo capitolo gli USA “hanno fatto un pisolino”, Snelder replica che magari “Cuba ed Iran potrebbero essere in disaccordo. Le sanzioni sono tra gli strumenti geoeconomici più potenti che sono stati usate dagli USA, con effetti devastanti”, ed aggiunge che perfino gli autori di “War by Other Means” segnalano che gli Stati Uniti sono stati il principale paese ad imporre sanzioni, in più di 120 occasioni durante il secolo scorso. E ricordando un po’ di storia si può aggiungere che dal Trattato di Versailles (1919), l’aggressione all’Unione Sovietica e più tardi ai paesi socialisti in generale è stato fondamentalmente sul terreno economico, commerciale e tecnologico, che si è cercato di ostacolare in quei paesi uno sviluppo economico armonioso mediante la loro integrazione nel commercio internazionale. Questa politica continua, si può dire che prosegue la politica delle cannoniere dell’Impero Britannico, ma in una forma più sofisticata.

Come prima, l’imperialismo capitalista è la questione centrale

La mobilitazione per la pace si impone come mai prima. Un numero crescente di militanti politici e sociali dell’Europa, USA e di altri paesi stanno concentrando i loro sforzi in questo senso. Quei militanti provengono da differenti orizzonti ma hanno in comune l’aver preso consapevolezza dei disastri passati e presenti del liberalismo economico sfrenato. Sanno che il liberalismo economico, nelle sue fasi del XIX secolo, ha condotto sempre a conquiste imperialiste ed alla rapina coloniale nei paesi del Sud, ed a che in contropartita nei paesi del Nord si sia impiantato un sistema di rendita e parassitario distruttore delle società. Sanno anche che questo liberalismo economico è stato l’origine di conflitti bellici in Europa e di due guerre mondiali (1914-1918 e 1939 -1945). Ed osservando la realtà attuale hanno consapevolezza che questo liberalismo economico può approfondire ulteriormente la già enorme frattura sociale, e questo in tutti i paesi del mondo, e portare ineluttabilmente ad una forma di feudalesimo, di servitù, come quella descritta nei lavori dell’economista Michael Hudson.

Le politiche provocatorie degli USA e della NATO, e le insensate politiche dei dirigenti di certi paesi alleati in Europa e nel Medio Oriente possono spingere facilmente il mondo sull’orlo di una nuova guerra, questa volta con armi nucleari. Un testimone di peso della guerra fredda, il Generale (in congedo) George Legge Butler che da 1991 a 1994 fu Comandante della Forza Aerea Strategica e del Comando Strategico, cioè il primo Comandante della fine dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, almeno in teoria, condanna nelle sue memorie le strategie di confronto militare nell’era nucleare che “non hanno giustificazione militare o politica” secondo lui, perché “la guerra nucleare su larga scala” – del tipo che egli ed i suoi colleghi prevedevano, pianificavano e simulavano in esercizi – “avrebbe reso insostenibile la vita così come la conosciamo”, perché “migliaia di milioni di persone, animali, ogni cosa vivente, perirebbero sotto le peggiori condizioni agonizzanti che si possano immaginare”(20).

Oggigiorno, e per tutte queste ragioni, l’antimperialismo torna ad essere la questione centrale nella lotta contro il capitalismo realmente esistente e le oligarchie nazionali mondializzate e mondialiste, e questo per lottare per la sopravvivenza delle società e per l’equilibrio ecologico del pianeta. Ritorneremo sull’imperialismo ed il capitalismo globale in prossimi articoli.

1.- Robinson Pierce, “Russian news may be biased, but so is much western media”, The Guardian, UK, 3 de agosto 2016.

2.- Kennedy, Paul, “The pivot of History The US needs to blend democratic ideals with geopolitical wisdom”, The Guardián, UK, 19 de junio 2004.

3.- Brzezinsky, Zbigniew, “Le Grand Echiquier –L’Amérique et le reste du monde”, Bayard, Paris 1997.

4.- Se trata, grosso modo, del territorio del imperio ruso o de la URSS, con la excepción de su extremidad oriental, o sea la fachada marítima sobre el Océano Pacífico.

5.- Van Grunderbeek Pierre, « Obama, Poutine et la géopolitique. Les dangers d’une guerre mondiale…nucléaire ? » Mondialisation.ca, 22 abril 2014, http://www.mondialisation.ca/obama-poutine-et-la-geopolitique-les-dangers-dune-guerre-mondiale-nucleaire/5378764

6.- Lin Christina, “China, Central Asian states watch as US legitimizes Al Qaeda in Syria”,  Asia Times  7 de agosto 2016

7.- Edgardo Mocca, La Operación fraude y sus condiciones políticas, Página/12, 20 septiembre 2015:http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-282082-2015-09-20.html; Raúl Zaffaroni:http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-297705-2016-04-24.html

8.-.- Gerard Duménil et Dominique Lévy, «  L’impérialisme à l’ère néolibérale », PDF,http://www.oid-ido.org/IMG/pdf/libimp-1.pdf

9.- Amin Samir, « Capitalisme transnational ou impérialisme collectif »  Pambazuka News, 22 de enero 2011:  https://www.pambazuka.org/fr/global-south/capitalisme-transnational-ou-imp%C3%A9rialisme-collectif

10.- Amin Samir, « Géopolitique de l’impérialisme contemporain », Centre de recherche sur la mondialisation, 12 de noviembre 2003 y 6 noviembre 2005: http://www.mondialisation.ca/g-opolitique-de-l-imp-rialisme-contemporain/1194

11.- Stephen Roach, “The Globalization Disconnect”, Project Syndicate, 25 de Julio 2016; 
Joseph Stiglitz, “Globalization and its new discontents”, 5 de agosto 2016 Project Syndicate;
Bloomberg: http://www.bloomberg.com/politics/articles/2016-07-18/a-globe-trotting-billionaire-defends-trump-s-trade-policy  Harvard;https://hbr.org/2016/06/business-leaders-have-abandoned-the-middle-class;

12- Una ilustración de esta mentalidad se encuentra en el « proyecto de los neoconservadores » : “Project for the New American Century” https://web.archive.org/web/20130609154959/http://www.newamericancentury.org/

13.- Ted Galen Carpenter  10-06-2016 “It’s Time to Prune America’s Overgrown Alliance Network”http://nationalinterest.org/blog/the-skeptics/its-time-prune-americas-overgrown-alliance-network-16544?page=2

14.- Immanuel Wallerstein, “Estados Unidos, crecientemente inestable”http://www.jornada.unam.mx/2016/06/11/opinion/018a1mun; en inglés:http://iwallerstein.com/the-increasingly-unstable-united-states/

15.- Tass: “Lavrov says Europe is turning into region that radiates instability”http://tass.ru/en/politics/879422

16.- Tass: “Brazil’s former president says emergence of BRICS frightened some states”,http://tass.ru/en/world/881167

17.- Fabián Escalante Font, “La guerra sicológica y la lucha ideológica”
https://lapupilainsomne.wordpress.com/2016/06/06/la-guerra-sicologica-y-la-lucha-ideologica-por-fabian-escalante-font/

18: CFRhttp://www.cfr.org/diplomacy-and-statecraft/war-other-means/p37532
Bajo las presidencias de George W. Bush, R. D. Blackwill fue asistente en el Consejo de Seguridad Nacional del Presidente para la planificación estratégica y enviado presidencial a Irak, así como Embajador en India (2001-2003);  J. M. Harris formó parte del Equipo de Planificación de Políticas del Departamento de Estado durante la Administración de Barack Obama, y fue “arquitecta” de la concepción de la agenda económica de la (ex) Secretaria de Estado Hillary Clinton.

19.- Julian Snelder  http://www.lowyinterpreter.org/post/2016/06/09/Book-review-War-by-Other-Means.aspx

20.-El general (retirado) Butler preconiza la abolición de las armas nucleares. Su libro más reciente, publicado en septiembre del 2015, se titula « Uncommon Cause – Volume I: A Life at Odds with Convention – The Formative Years ».https://www.wagingpeace.org/tag/lee-butler/