Filippine, il “Piano Goldberg” tra sinistra imperiale e manovalanza ISIS

duterte filippine bandieradi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

La presidenza di Duterte nelle Filippine, soprattutto da quando ha intrapreso un percorso di riavvicinamento a Pechino (e in parte a Mosca) qualche preoccupazione a Washington la alimenta senza dubbio: un’eccessiva indipendenza di un Paese strategico in acque “surriscaldate” come quelle del Mar cinese meridionale, rischia di minare l’intera strategia che supporta il “Pivot to Asia”. Per dirla come George Friedman, le Filippine rappresentano il “Paese più critico per gli equilibri di potere nel Pacifico” perché offrirebbe a Pechino – in apprensione per una possibile strategia di “blocco economico” – un alleato indispensabile per uscire dalle strozzature del Mar cinese meridionale e ottenere l’accesso agli oceani globali. [1]

Per questo sulle rive del Potomac non poteva essere trascurata la possibilità di “facilitare” un cambio della guardia a Manila, non scartando l’ipotesi di ricorso ad un’operazione di “regime change”, sfruttando le solide basi e i punti di forza che Washington si è costruito nell’arcipelago: si pensi alla rivista Foreign Policy che ha minacciosamente ricordato a Duterte come l’esercito filippino abbia alle spalle “decenni di cooperazione con gli Stati Uniti sia stato costruito su immagine e somiglianza di quello statunitense”, e come la stessa “società civile” filippina sia storicamente influenzata dal modello statunitense e “gran parte filo-statunitense” [2].

Anche lo storico statunitense Alferd McCoy – autore del recente “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of US Global Power” – ha definito la politica estera di Duterte come un “gioco pericoloso” tale da produrre un “colpo paralizzante al potere globale degli Usa”; rapporti sempre più stretti con la Cina e l’arrendevolezza nelle dispute di sovranità potrebbero alzare il livello di rischio di colpo di Stato da parte della parte più nazionalista delle forze armate [3].

In questo quadro di “avvertimenti” para-mafiosi verrebbe proprio da ritornare al discorso tenuto da Obama a West Point nel maggio del 2014, quando il primo presidente afro-americano della storia statunitense aveva sottolineato senza mezze parole in quale campo la “potenza di fuoco” di Washington fosse ancora inarrivabile per gli avversari strategici: “I nostri valori ispirano i leader nei parlamenti e dei movimenti scesi nelle piazze di tutto il mondo. […] La nostra capacità di plasmare l’opinione pubblica mondiale ha contribuito a isolare la Russia. Grazie alla leadership americana il mondo ha immediatamente condannato le azioni russe, l’Europa e il G7 si sono uniti a noi nell’imporre sanzioni, la Nato ha rafforzato il nostro impegno per gli alleati dell’Europa orientale […]”. Un vero e proprio esercito di riserva costituito da partiti amici, fondazioni, giornali e organizzazioni non governative (la “società civile”) può essere mobilitato per indebolire ogni opposizione e mettere in difficoltà governi ostili [4].

Torniamo al caso particolare filippino. Alla fine del 2016 il Manila Times [5] portava alla luce il cosiddetto “Piano Goldberg” (dell’ex ambasciatore statunitense nelle Filippine), un vero e proprio programma per un cambio di governo – obiettivo farla finita con il “nazionalismo vecchio stile” – contenente un ampio spettro di raccomandazioni (“a combination of socio-economic-political-diplomatic moves”)quali: procedere all’isolamento politico e commerciale del Paese, migliorando i rapporti con altri Paesi Asean; approfondire i legami con l’opposizione e con funzionari pubblici e altri gradi militari che non condividono la politica presidenziale (nel marzo scorso un parlamentare ha chiesto la messa in stato d’accusa del presidente perché troppo arrendevole nei confronti di Pechino [6]); utilizzare i mezzi di comunicazione per insistere sulla pericolosità dei rapporti con Pechino e Mosca; assistere i gruppi di opposizione attraverso i programmi Usaid e ottenere il sostegno della Chiesa cattolica; creare divisioni nella stessa cerchia politica presidenziale, soprattutto appoggiando personalità definibili di “sinistra” – quella che potremmo chiamare “sinistra imperiale” – più attente alla retorica della difesa dei “diritti umani”.

Adottate o meno dalla Casa Bianca, è fuor di dubbio che alcune di queste “raccomandazioni” trovino un certo riscontro, soprattutto nella campagna di denigrazione. E anche se non compresa nella lista dell’ambasciatore, potrebbe oggettivamente giocare a favore della strategia di sovversione anche il violento ri-apparire sulla scena politica filippina di formazioni terroriste come Maute e Abu Sayyaf (note da tempo come le filiali locali di al-Qaida e sospettate di ricevere finanziamenti dall’Arabia Saudita), in grado nei giorni scorsi di prendere il controllo della città di Marawi (isola di Mindanao): la necessità della “lotta al terrorismo islamico” potrebbe ben servire come mascheratura ideologica ad un  ritorno di una presenza militare statunitense nella ex colonia, quando non come strumento di pressione per limitare la preoccupante l’autonomia della presidenza Duterte.

NOTE

1. Friedman G., The Philippines in Play, Geopoliticalfutures, 4 maggio 2017

2. Boot M., Duterte’s Flip-Flop Into Bed With China Is a Disaster for the United States, Foreign Policy, 20 ottobre 2016

3. Robles R., Duterte plays a dangerous game in the South China Sea, South China Morning Post, 27 febbraio 2017

4. Full transcript of President Obama’s commencement address at West Point, The Washington Post, 20 maggio 2014

5. Dante A. Ang, US ex-envoy plotting Duterte fall, The Manila Times, 27 dicembre 2016

6. Philippine lawmaker pushes for Duterte impeachment over ‘defeatist’ China stance, Reuters, 30 marzo 2017