“Dica 33!”: Il “Pivot to Asia” non gode di ottima salute

cina australiadi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Doveva essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione Obama, rischia invece di essere un progetto più enunciato che realizzato. Il “Pivot to Asia” – di questo stiamo parlando – è costretto a fare i conti con i reali rapporti di forza che governano l’area: la Cina popolare è, se non il primo, certo tra i principali partner economici di Paesi alleati tradizionali degli Stati Uniti, tanto da dividere anche le borghesie che li governano, e possiede le risorse e le competenze per un ampio progetto asiatico di sviluppo delle infrastrutture e dei collegamenti. Si pensi, per esempio, all’Australia, tra i più solidi alleati di Washington sin dall’inizio della guerra fredda (non è certo un caso che la “gamba” militare del Pivot sia stata annunciata proprio nel 2011 nell’ex colonia britannica) dove sondaggi e prese di posizione raccontano di un’opinione pubblica, di un mondo politico e di una classe imprenditoriale divisi in due, tra attaccamento politico militare agli Usa e propensione a migliori e più approfonditi rapporti economici con Pechino, tanto che forte è la richiesta di non partecipare ad atti di provocazione statunitensi nella surriscaldate acque del Mar cinese meridionale.

Se, nello specifico, la situazione non destasse qualche preoccupazione sulle rive del Potomac, non sarebbe intervenuto nella questione della “fedeltà” australiana l’ambasciatore Usa John Berry in prima persona: è stato lui a denunciare pubblicamente un intenso “coinvolgimento” di Pechino nella vita politica del Paese, attraverso il sostegno a politici dell’opposizione. Il riferimento è ai finanziamenti di piccola entità (si parla di cifre intorno al 1.600 dollari) che un uomo d’affari cinese ha indirizzato a un senatore del partito laburista australiano, poi accusato di aver posizioni troppo concilianti sul Mar cinese meridionale. Ne è seguito l’invito all’esecutivo australiano a proteggersi nei confronti dell’influenza indebita di governi stranieri che non condividono i valori occidentali e che sfruttano gli spazi democratici occidentali. Più duro è stato il colonnello statunitense Tom Hanson che ha invitato gli australiani a compiere una scelta definitiva perché è “difficile camminare con equilibrio su di un sottile filo tra alleanza con gli Stati Uniti e l’impegno economico con la Cina”.

Il cosiddetto “dilemma strategico” australiano non è l’unico nervo scoperto. Problemi di rapporti sono emersi anche con altri Paesi. Nelle settimane scorse – con due interventi ai quali rinvio in nota – abbiamo dato conto della volontà del presidente filippino Duterte di migliorare i rapporti con Pechino dopo la crisi legata all’arbitrato sul Mar cinese meridionale e di aprire ad una politica estera più indipendente da Washington, incline alla costruzione di rapporti amichevoli anche con Mosca.

Ora, nel muro anticinese del Pivot to Asia, pare aprirsi un’altra breccia con protagonista la Malesia. A lanciare l’allarme per un possibile effetto domino (stessa espressione che portò all’intervento in Vietnam!) e per l’intensificazione dei rapporti tra Cina popolare e Kuala Lumpur è il New York Times: “con la presidenza Obama agli sgoccioli, la leadership cinese sta approfittando del momento per sgretolare la politica in Asia del presidente, offrendo proposte economiche e militari attraenti ai tradizionali alleati degli Stati Uniti nella regione“. Preoccupazioni simili sono anche quelle mostrate dal Washington Post che si chiede se, sulla scia di Duterte, sarà proprio la Malesia ad “abbracciare” la Cina, evidenziando ulteriormente come il “pivot si sia rivelato una delusione in molte capitali con l’ambizioso accordo commerciale Trans Pacific Partnership ormai nelle secche. La Cina, al contrario, può offrire un mucchio di denaro e promesse di investimenti senza negoziati tortuosi e condizioni impegnative”.

Nonostante (come nel caso filippino) esistano controversie di sovranità sulle acque del Mar cinese meridionale, il primo ministro malese Najib Razak, giunto lunedì scorso a Pechino, ha espresso la volontà di acquistare veloci motovedette cinesi in grado di trasportare missili nell’ambito di quello che viene definito come il “primo significativo accordo in materia di difesa” tra i due Paesi. Oltre a questo ci sono intese per una cifra di 34 miliardi di dollari nei campi dell’energia, delle infrastrutture e delle ferrovie. Inoltre, come nel caso filippino, gli accordi sono stati siglati in un’atmosfera di condanna del passato colonialista occidentale e di rivendicazione di una piena sovranità nazionale. Va, infatti, ricordato come subito dopo la fine della seconda guerra mondiale la Malesia sia stata teatro di una feroce repressione del movimento indipendentista (a guida comunista) da parte dei britannici, sperimentando tecniche di controinsurrezione (a farne le spese è stata più di tutte la popolazione di etnia cinese) che sarebbero poi state utilizzate in Vietnam.

Alle preoccupazioni (ma ci sono anche interventi che minimizzano i recenti avvenimenti) si accompagnano anche “velate” minacce che hanno lo scopo di ricordare alle classi dirigenti locali chi sia ancora il “padrone”, così come gli interventi più o meno diretti negli affari interni. Mi riferisco ad un articolo della prestigiosa Foreign Policy che, riferendosi al viaggio di Duterte a Pechino, ha parlato esplicitamente di “flop” della politica Usa. Al contempo ha ricordato come nel “più antico alleato degli Usa” e “piattaforma vitale per opporsi all’aggressione cinese nel mari del sud”, ci sia un esercito che, avendo alle spalle molti decenni di cooperazione, è stato costruito a immagine e somiglianza di quello statunitense, e come a livello di opinione pubblica sia ancora prevalente il sentimento filo Usa. A livello di “società civile”, vale a dire di esercizio di capacità egemonica di Washington, ci sono poi diversi documenti che rivelano finanziamenti (su tutti da parte della Open Society di Soros) a movimenti politici malesi in vista delle prossime elezioni nazionali. Traduzione: un’eccessiva autonomia nell’area potrebbe essere pericolosa…

Riferimenti:

Diego Angelo Bertozzi, L’Australia tra doppia anima e pericolo giallo, Cinaforum, 30 settembre 2016;
Diego Angelo Bertozzi, Pivot to China, qualcosa non funziona, Marx21, 27 settembre 2016;
Diego Angelo Bertozzi, Cina. Da “sabbia informe” a potenza globale, Imprimatur, 2016;
The New York Times, In China, Rodrigo Duterte and Philippines May ‘Pivot’ Away From U.S, 17 ottobre 2016
Federico La Mattina, Nuove relazioni delle Filippine con Stati Uniti e Cina?, Imesi Palermo, 26 settembre 2016;
The Washington Post, On Duterte’s heels, Malaysia is the next Asian country to embrace China, 31 ottobre 2016
Foreign Policy, Duterte’s Flip-Flop Into Bed With China Is a Disaster for the United States, 20 ottobre 2016