Editoriale newsletter n.3 del 26 marzo 2012

a cura della Redazione di Marx21.it

fornero articolo18Siamo ad un giro di boa. Con la presentazione del Disegno di legge da parte del Governo sulla riforma del mercato del lavoro, che comprende le modifiche all’art.18, si apre una nuova delicatissima fase nel paese. Il ddl infatti sarà posto al vaglio della discussione parlamentare e sarà quindi suscettibile di modifiche e correzioni. Non del tutto però. Come ha precisato lo stesso Monti al forum di Cernobbio della Confcommercio, il Consiglio dei Ministri ha approvato il ddl con la formula “salvo intese” e questo significa che eventuali modifiche potranno essere fatte solo dal Governo e dal Quirinale. Certo, per ottenere il voto del Pd (oggi gravemente sotto pressione e dilaniato al suo interno da una discussione che sta polarizzando le sue anime interne), il Governo dovrà fare alcune concessioni ma la determinazione fin qui dimostrata non lascia sicuramente spazio ad illusioni di possibili marce indietro sostanziali. Ma le indiscrezioni delle cronache parlamentari già parlano, al di là delle schermaglie da campagna elettorale che si avvicina a grandi passi, di un sostanziale accordo sul “modello tedesco” (dove è il giudice a decidere il reintegro o la monetizzazione) che vedrebbe concordi Pd, Terzo Polo e Alfano, con forti malumori degli ex-An e di Sacconi.

Ma al di là dell’esito finale, quello che si profila è un cambiamento sostanziale dell’art.18 e dell’orientamento giuridico in questo paese in materia di difesa del posto di lavoro. Questo è il punto: sia che il Governo vada fino in fondo anche a rischio di “strappare” con alcune componenti che lo appoggiano, sia che si trovi una convergenza sul “modello tedesco”, verrà stralciata una norma fondamentale del diritto del lavoro italiano, frutto di anni di battaglie e conquiste, segnando così un importante punto di non ritorno.

Rispetto a tutto questo è essenziale disvelare la portata fortemente ideologica di questa battaglia che il Governo sta conducendo. Non è assolutamente vero che il lavoro in Italia abbia delle forti rigidità in uscita. In una tabella in cui viene rappresentata la posizione dei vari paesi nella protezione dei lavoratori permanenti dal licenziamento, l’Italia occupa già ora uno degli ultimi posti (in compagnia dell’Irlanda e sorpassata da paesi come Rep. Ceca, Messico, Turchia, Polonia … che hanno leggi più severe delle nostre in quanto a licenziamenti) [vedi tabella pubblicata da La Stampa del 21 Marzo, pag. 6]. Il nostro paese infatti ha un indice di 28,2 (dove 0 è protezione minima e 100 la massima) e senza l’art.18 andrebbe a quota 23,7.

Perché allora la discussione sull’art.18 è diventata la linea del Piave? Proprio per la valenza simbolica ed ideologica che essa rappresenta. Vincere sull’art.18 significa sfondare sul piano dei diritti del lavoro e dei lavoratori e chiudere la partita della stagione delle lotte e delle conquiste del movimento operaio: in poche parole significa mostrare chiaramente e plasticamente chi vince (le imprese, i padroni) e chi perde (i lavoratori) nella dialettica tra capitale e lavoro. Ecco perché questa battaglia è così importante.

E significherebbe inoltre riscrivere la cultura giuridica del lavoro di questo paese. Infatti, nonostante i dati della tabella di cui parlavamo poc’anzi, è diffusa nella cultura di questo paese la consapevolezza che il lavoro sia un diritto (tra le altre cose fondante la Repubblica stessa: art.1 della Costituzione) e che quindi vada fatto di tutto per tutelarlo. Sebbene già oggi le eccezioni all’art.18 siano tantissime, al punto che le aziende non hanno problemi a licenziare (come si vede, drammaticamente, in questi mesi), il nostro ordinamento permette di dare al lavoro ed al lavoratore licenziato senza giusta causa i diritti e la forza di pretendere il reintegro. Togliere tutto questo significa rimuovere quel magnete che fin’ora ha orientato la disciplina in materia ad aprire la strada ai licenziamenti selvaggi, alle rappresaglie, al ricatto permanente dei lavoratori (che non saranno più così tutelati in caso di sciopero, attività sindacale, indisponibilità a forme ed orari di lavoro fuori contratto …), alla messa in naftalina dello spirito fondante della Costituzione repubblicana, agitata retoricamente nelle celebrazioni ed orazioni ufficiali e tradita nello spirito (e nella forma) della prassi quotidiana. In fondo, attaccare l’art.18 è propedeutico per attaccare il lavoro a tempo indeterminato ed i diritti, propedeutico a sua volta per attaccare la Costituzione.
 

Con questa riforma uno dei punti decisivi della lettera della Bce al Governo italiano del 4 agosto scorso, diventa legge dello stato. Anche questo è un aspetto centrale che non deve sfuggirci in questo passaggio di fase: la centralità del parlamento va in soffitta, sostituito da un governo tecnocratico la cui mission ideologica risponde ai poteri forti dell’Ue, in nome dei quali si può cancellare la sovranità nazionale a la difesa dei propri interessi. A dirlo chiaramente è Giuliano Ferrara, il cui profilo ideologico è a tutti noto ed acceso sostenitore di questo governo che, in un editoriale a tutta pagina, dopo il mancato accordo sul testo della Fornero tuona: «Addomesticati, ma non fino al punto di mandare in vacca una delle più radicali riforme di struttura, insieme a quella delle pensioni, che sono nella missione ideologica (sì, ideologica) di questo governo tecnocratico (…)» [Estremo tentativo di non rompere. Ma passa la facoltà di licenziare i dipendenti, Il Foglio, 21 Marzo 2012, pag.1]. “Missione ideologica (sì, ideologica) di questo governo tecnocratico”: non poteva essere più chiaro.

Ma questo editoriale, merita di essere letto fino in fondo, dove chiosa: «metti però a capo dell’esecutivo della gente tecnicamente competente, che non risponde a nessuno ma che è legittimata dalla Banca centrale europea, dalla Germania, da un capo dello stato energico nel fronteggiare l’emergenza, e sostenuta da partiti sconfitti sia nel governo sia nella costruzione dell’alternativa al governo, e in campo resta una sfilza di riforme che evocano gli spiriti animali del capitalismo (…)». E questo è un punto dirimente: siamo alla vittoria del capitale contro il lavoro (vengono addirittura evocati gli spiriti animali del capitalismo) portata avanti da un governo “che non risponde a nessuno” (leggi: il Parlamento ed il popolo) ma che è legittimato da “Bce, Germania e Capo dello Stato”. Siamo alla democrazia autoritaria. Nel senso che le forme con le quali viene esercitato il governo del paese rispettano formalmente le leggi dello Stato, ma nei fatti si configura una forma autoritaria delle democrazia: il Capo dello Stato assurge sempre più (e a marce spedite) al ruolo che gli spetterebbe in una Repubblica Presidenziale, non parlamentare; ed il governo (giustamente definito tecnocratico) in cui il Presidente del Consiglio viene prima scelto dal Capo dello Stato e solo dopo questa investitura dall’alto viene votato dai rappresentanti del popolo (il parlamento), si configura come la longa manus di poteri che hanno il proprio baricentro a Berlino e Bruxelles a non a Roma.
 

Se a tutto questo aggiungiamo non solo le altre riforme (come quella delle pensioni) ma anche il dibattito sull’introduzione del vincolo di pareggio in Costituzione, che metterà una pietra tombale a qualsiasi ipotesi di politiche redistributive o neo-keynesiane per i prossimi decenni, il quadro che ci troviamo dinnanzi assume contorni drammatici.

Ecco perché la battaglia per l’art.18 ed il lavoro assumono una valenza strategica: in ballo c’è la democrazia tout court del nostro paese. E, come sempre, l’attacco alla Costituzione procede di pari passo con l’attacco ai diritti dei lavoratori.

La decisione della Cgil di indire 8 ore di mobilitazione attraverso assemblee nei luoghi di lavoro ed 8 ore di sciopero generale, rappresenta quindi, a dieci anni esatti dalla grande manifestazione nazionale di 3 milioni di cittadini al Circo Massimo a Roma in difesa anche allora dell’art.18, il primo passo per la ricostruzione di una forte opposizione a questo governo, alle sue politiche e di difesa dei diritti dei lavoratori. In Europa, dove è più forte il movimento dei lavoratori e più organizzata la presenza dei comunisti e delle forze di sinistra, si sono già prodotti importanti momenti di lotta e diversi scioperi generali. L’ultimo in ordine di tempo, venerdì scorso in Portogallo, che ha paralizzato il paese. È giunto il tempo che anche in Italia si alzi il livello di lotta e consapevolezza politica. È su questo terreno che potremo dare corpo, in modo prioritario ed appropriato, all’esigenza di unità delle forze della sinistra e delle forze democratiche contro le politiche neoliberiste e tecnocratiche volute dall’Ue e dal Governo Monti. Ed è sempre su questo terreno che avanza e si rafforza l’esigenza dell’unità dei comunisti e della ricostruzione del partito comunista.

In ballo, come abbiamo cercato di dire, c’è la democrazia nel nostro paese ed il suo nuovo assetto istituzionale. Per questo è necessario che i comunisti svolgano un’azione essenziale (all’interno del posto di lavoro, nel sindacato, nelle associazioni di massa, nei momenti di lotta e mobilitazione) di orientamento e lotta, affinché anche quest’ultima diga (l’equilibrio costituzionale basato sulla centralità del parlamento e del popolo e la difesa dei diritti dei lavoratori) non venga rotta.