Zimbabwe: lotta dei senza terra

Il conflitto che sta divampando da mesi nello Zimbabwe tra i senza terra africani e i coloni bianchi titolari, oltre che delle più ricche proprietà terriere, anche di consistenti fortune ben custodite nella banche della City e (non si sa mai!) di un rassicurante passaporto britannico, ha assunto le dimensioni di un “international affair” da quando il laburista Tony Blair, nel suo discorso pronunciato alla Conferenza euro-africana del Cairo la scorsa primavera ha minacciato, con gli stessi toni della signora Thatcher all’epoca della guerra delle Maldive, prima l’embargo economico, poi l’intervento militare per difendere le proprietà dei suoi compatrioti minacciati – quale orrore! – di esproprio senza indennizzo delle terre sulle quali sir Cecil Rhodes aveva messo le mani un secolo prima, sommandole al ricco bottino coloniale del già allora globalizzato impero britannico. Le reazioni politiche delle nostre cittadelle imperialiste esprimono il minaccioso nervosismo di chi teme che questo scontro di classe ravvicinato tra senza terra e grandi proprietari possa dilagare e far perdere la pazienza ad altri milioni di disperati di altri paesi africani. Insomma, un periodo di contagio ben più preoccupante di quello dell’Aids. La risposta mediatica ricalca, da par suo, lo stile biecamente razzista della stampa coloniale ottocentesca: i veterani della guerra di liberazione dello Zimbabwe che, dopo 20 anni di attesa e di inutili trattative, hanno avviato un grande movimento di lotta con l’occupazione delle fattorie, vengono dipinti come ingrati selvaggi assetati del sangue dei coloni britannici. Il presidente Robert Mugabe e il suo partito (Zimbabwe African National Union, Patriotic Front ossia Zanu-Pf) vengono esibiti come espressione di un potere tribale, dispotico e corrotto, violatore dei diritti umani, nonostante abbiano ottenuto in tre elezioni legislative, le uniche a suffragio universale, la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.

Dalla Rhodesia allo Zimbabwe: una storia di conquista e saccheggio dell’imperialismo inglese

Una per breve incursione nella storia moderna dello Zimbabwe ci riconduce alle cause e agli effetti devastanti prodotti sul piano sociale, economico e culturale dalla spietata politica coloniale dell’imperialismo inglese. Svanito nella seconda metà dell’800 il progetto del Portogallo di costruire un grande impero transafricano che unisse le due sponde della regione australe, quella Atlantica dell’Angola a quella dell’oceano indiano del Mozam bico, fu il suddito di sua maestà britannica Cecil Rhodes, nel 1888, a mettere le mani sulle risorse minerarie e sul grande potenziale agricolo del territorio a sud dello Zambesi, iniziando, con la formazione della Compagnia Inglese del Sudafrica, il processo di colonizzazione delle ricche regioni interne dell’Africa australe e la loro successiva annessione, prima sotto forma di protettorato, poi, nel 1923, come vera e propria colonia dell’impero, suggellando l’ambizione di unire verticalmente i dominions africani di Londra da Alessandria d’Egitto a Città del Capo.

Analogamente ad altre indipendenze africane, lo Zimbabwe è diventato uno stato indipendente, nel 1980 nell’ambito del Com monwelth, dopo quattordici anni di lotta armata e dopo le prime elezioni generali libere che diedero la maggioranza assoluta allo Zanu-Pf, il movimento di orientamento marxista diretto da Robert Mugabe, leader della lotta di liberazione della Rhodesia contro lo spietato regime razzista di Ian Smith. Regime che, pur di evitare concessioni agli africani, proclamò nel 1965, con l’appoggio dei razzisti sudafricani, la secessione della Rhodesia dalla sovranità della corona britannica giudicata troppo aperta e incapace di resistere al vento impetuoso dei movimenti di liberazione africani.

Sebbene frutto di un laborioso e sofferto compromesso col governo di Londra l’indipendenza ha posto fine al secolo di dominazione coloniale consentendo al nuovo Stato di concorrere con la sua politica interna ed estera a modificare in misura sensibile i rapporti di forza con l’imperialismo in una regione di vitale importanza strategica quale è l’Africa australe.

Sarebbe scorretto e ingeneroso dimenticarlo. In campo internazionale lo Zimbabwe, che fa parte dei paesi non allineati, si è fatto carico dell’onere, sicuramente gravoso, di appoggiare sul piano politico e militare i movimenti antimperialisti dei paesi confinanti (Angola e Mozambico), ha sostenuto attivamente l’ANC nella sua lotta contro il regime segregazionista di Pretoria, il movimento di liberazione della Swampo in Namibia, ed appoggia tuttora la Repubblica Democratica del Congo di Laurent Kabila contro l’aggressione esterna fomentata dall’imperialismo e finanziata dalla potente mafia internazionale dei diamanti.

Il nuovo ordine mondiale e il FMI bloccano le speranze di progresso sociale degli africani

Vent’anni di indipendenza sono un periodo troppo breve per giudicare un paese spogliato, saccheggiato, privato della sua identità, con la sua gente degradata per quasi un secolo al rango di sottospecie priva di ogni diritto. È bene non dimenticare che, da quando il 18 aprile 1980, fu ammainata la bandiera della Union Jack, sono occorsi altri otto anni di lotta armata per consentire ai veterani dello Zanu di piegare i focolai di resistenza armata della minoranza bianca sostenuta militarmente dal contiguo regime razzista di Pretoria.

Occorrerà molto più tempo per superare le disastrose conseguenze della dominazione coloniale e il perdurante dualismo di potere tra bianchi e africani. Il rispetto dei patti sanciti col governo di Londra è stato particolarmente oneroso per la gente di colore. Non altrettanto si può dire per gli inglesi, che hanno via via dilazionato, ed infine cancellati, gli accordi sottoscritti di risarcire di tasca propria i coloni espropriati. Il nuovo assetto costituzionale non ha, né poteva produrre, risultati significativi a breve termine, in quanto basato su un gradualismo riformatore imposto dai rapporti di forza e dal ricatto della minoranza bianca di ritirare dal paese i propri quadri tecnici ed economici, con il conseguente collasso della macchina statale e produttiva.

Le proprietà e i privilegi della minoranza bianca non sono stati sostanzialmente scalfiti mentre è stata, giocoforza, di breve durata la boccata d’ossigeno sociale e civile, successiva all’indipendenza, che aveva raddoppiato l’accesso all’istruzione primaria, migliorata la sanità e aumentata la speranza di vita da 55 a 64 anni. Una parentesi stroncata dal nuovo ordine mondiale imperialista e dalle micidiali ricette imposte dal Fondo Monetario, a partire dagli anni ’90. Che hanno gettato il paese in una crisi economica e sociale molto seria. Prima della liberazione l’agricoltura della Rhodesia era quotata alla City di Londra come la migliore di tutta l’Africa ed un sicuro investimento per le multinazionali del settore: 5.200 farmers bianchi controllavano, con il sostegno dei fucili del potere, il 47% delle terre (ovviamente le più fertili) e l’86% della produzione agricola commerciabile. Una ricchezza enorme accumulata con brutale violenza: intere comunità tribali sono state decimate e scacciate dai loro territori, gli Shona e i Matabele, due gruppi etnici sopravvissuti, hanno pagato con un pesante tributo di sofferenze e di sfruttamento i processi espansivi dei coloni bianchi giunti al loro apice dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Due decenni dopo la liberazione il governo del paese denuncia che 6.000 proprietari terrieri bianchi possiedono tanta terra quanta ne possiedono 6 milioni di africani che vivono di agricoltura, di cui 3,5 milioni sono ancora relegati, in condizioni arcaiche, nelle vecchie riserve situate in terre marginali, sassose, povere d’acqua, ai bordi della savana, appena sufficienti all’autoconsumo delle famiglie.

Il dualismo di potere e i nuovi conflitti tra minoranza bianca e africani

Il potere effettivo è rimasto in gran parte nelle mani dei coloni britannici che, con il controllo pressoché totale del processo di accumulazione, hanno tutta la convenienza di considerare lo Zimbabwe come la “loro” patria. Privati del potere politico (e dei fucili) hanno dovuto, bongré malgré, modernizzare la loro politica: anziché la rigida segregazione razziale è stata praticata una politica di selezione paternalistica che ha promosso ai livelli di comando intermedi e a status sociali più elevati gli africani più docili e disponibili. La cosiddetta opposizione democratica e il suo partito Mdc (Movimento per il cambiamento democratico) non sarebbe mai nata senza il sostegno finanziario della Union of Commercial Farmers, la potente organizzazione dei coloni bianchi. Il processo di corruzione è dilagato intaccando, in una certa misura, anche le strutture dello stato. La campagna acquisti si è svolta soprattutto tra i nuovi soggetti emergenti usciti dallo Zimbabwe Congress of Trade Unions, il nuovo sindacato costruito sul modello e col concorso diretto delle Trade Unions britanniche, i cui gruppi dirigenti sono scivolati sempre più su posizioni di compromesso col grande padronato industriale ed agricolo. Dalle sue file è uscito il leader di colore dell’opposizione moderata, Morgan Tsvangirai, attuale presidente del Movimento per il cambiamento democratico. Il tema di corruzione lo Zimbabwe non fa purtroppo eccezione. Il moralismo ipocrita, o ingenuo, di chi mostra di indignarsi che in tali condizioni siano apparsi fenomeni speculari di corruzione e di burocratizzazione anche negli apparati dallo stato e tra gli uomini del partito al potere esprime il solito e illusorio assioma idealistico che solo chi sta all’opposizione non può che essere un incorruttibile per antonomasia.

La lotta per la terra, problema centrale dei contadini africani

La lotta per la terra è stata per più di un secolo, e lo è tuttora in grandi paesi come il Brasile e l’India, uno degli obiettivi strategici delle rivoluzioni democratiche e dei movimenti progressisti. Noi comunisti ricordiamo bene quante lacrime, sangue e piombo sia costata ai nostri braccianti meridionali e al movimento operaio del nord la lotta per l’occupazione delle terre negli anni ’50, e non saremo certo noi a stupirci dell’asprezza di un conflitto come quello in atto nello Zimbabwe. Benché rimasto sopito nei 20 anni successivi all’indipendenza il problema della terra è, storicamente, una bomba a tempo con il timer ormai alla fine del suo conto alla rovescia. Con il particolare non trascurabile, che i fucili non sono più nelle mani di un potere obbediente ai coloni bianchi, ma hanno, per così dire, cambiato di spalla. Il problema richiede dunque, da parte nostra, anziché una equidistante condanna della violenza, una capacità di riflessione storica e politica per capire le cause che la provocano. Ciò che occorre non è dunque di salire in cattedra ad elargire lezioni, non richieste, sul tema dei diritti umani ma di cogliere l’essenziale di quel conflitto e di decidere con chi stare. Il che non è poi tanto difficile. Basta leggere e rileggere una testimonianza riportata con grande onestà dal giornale inglese The Indipendent 1): Febiano Muvonzi, 38 anni, è uno dei tanti cittadini dello Zimbabwe che ogni giorno occupano nuove fattorie di proprietà dei bianchi. Muvonzi dice di farlo in onore di suo nonno: durante la seconda guerra mondiale combatté con gli inglesi e, tornato a casa, ricevette un premio di duecento sterline. Anche Tom Houston, un soldato bianco che combatté insieme a lui, tornò a casa dalla guerra ma ricevette un cavallo con cui gli fu detto di cavalcare finché non fosse stanco, e poi di piantare un picchetto nel terreno. Cavalcò per circa 20 chilometri al giorno lungo i quattro lati di un quadrato. Fu così che Houston ottenne la sua terra mentre tutti i neri che abitavano lì furono trasferiti in zone sassose, chiamate riserve indigene (…). Noi abbiamo fatto la guerra (di liberazione, ndr) per ottenere questa terra, poi da bravi soldati disciplinati abbiamo aspettato per vent’anni. Ora ne abbiamo abbastanza. Dopo la guerra di liberazione abbiamo visto i proprietari bianchi dar via solo i terreni sassosi tenendosi le aree fertili (…). Nel partito di governo ci sono mele marce e siamo arrabbiati con loro. Abbiamo occupato le fattorie di otto ministri. Ma credo ancora che Mugabe sia l’unico in grado di governarci. Morgan Tsvangirai, il capo della cosiddetta opposizione, è solo un fantoccio nelle mani dei bianchi.

1) Riportato da Internazionale, 14 aprile 2000.