Trovo piuttosto paradossale che per raccontare le vicende di ordinaria lotta di classe dei senza terra nell’ex-colonia britannica, un tempo chiamata Rhodesia in omaggio al suo conquistatore, Cecil Rhoses, un redattore di Liberazione (10 agosto 2002) abbia accreditato la versione del giornale londinese The Times, cioè del più antico e cinico quotidiano che ha accompagnato e sostenuto, per oltre un secolo, i fasti ed i nefasti dell’impero di Sua Maestà britannica, dall’epoca dei suoi trionfi a quella del suo declino.
Il Times ha smesso ormai da tempo la deplorevole consuetudine del giornalismo coloniale ottocentesco, ispirato da R. Kipling, di raccontarci la “selvaggia barbarie” degli africani neri, brutti e cattivi, half demon and half child (mezzi diavoli e mezzi bambini). Il giornale londinese bada oggi al sodo: l’unità di misura dei suoi indignati servizi sullo Zimbabwe è rappresentata dalle quotazioni di borsa delle grandi società agricole operanti nell’antica colonia e dall’incerto futuro espansivo dei capitali messi al sicuro negli ultimi due decenni, nelle banche della City, dai pronipoti di Cecil Rhodes.
Non a caso lo spettro che s’aggira oggi per l’Africa e crea il terrore panico in quel di Londra sono i capitali libici di Gheddafi ed il suo sostegno alle cause antimperialiste.
Tuttavia, siccome un pizzico di cronaca nera non guasta mai, ecco rispuntare l’ “agghiacciante” notizia (ripresa da Liberazione) che in due anni di aspri conflitti tra i senza terra e i coloni bianchi, dodici di questi ultimi avrebbero perso la vita. Fatto certamente deplorevole ed ancor più condannabile se fosse accompagnato dalle cifre ben più consistenti dei militanti neri massacrati dal piombo dei farmers. Ma questi rientrano in un’altra contabilità: quella, di proporzioni bibliche, della demografia africana, con i suoi milioni di neri uccisi dalla carestia, dalle malattie e dalle guerre, dei quali non frega niente a nessuno. Lo stesso presidente sudafricano, Thabo Mbeki, ha dichiarato indignato: “Il vecchio regime segregazionista rhodesiano di Ian Smith ha massacrato migliaia di neri, ciò viene considerato meno nefasto e più accettabile che non la rielezione democratica di Mugabe. Sono i ragionamenti gretti ed arroganti di chi rimane convinto che il mondo deve essere diretto e gestito, sempre e dovunque, dai bianchi” (ANC-Today, 14/3/2002).
Allora, che cosa sta succedendo realmente nello Zimbabwe? Perché il conflitto che oppone sei milioni di contadini affamati di terra a tremila (dei seimila)coloni bianchi, ricchi sfondati (ed armati), anziché in un festoso pranzo di gala con la regia di Tony Blair è sfociato invece in uno scontro di classe durissimo, dalle conseguenze internazionali impreviste?
Siccità, fame, carestia: tutta colpa di Mugabe, il nuovo demone africano
Sono ormai due anni che la stampa britannica pubblica regolarmente le “indignate” testimonianze dei coloni bianchi che si lamentano delle terribili ingiustizie patite per opera del selvaggio Mugabe. Gi stregoni insediati sulle rive del Tamigi alludono anche alla possibilità che la stessa siccità, concausa della catastrofica carestia che ha investito lo Zimbabwe e i paesi contigui, sia conseguenza della riforma agraria: “Nel momento in cui tredici milioni di persone stanno morendo di fame in Africa australe, economisti e diplomatici occidentali sostengono che sia a causa della riforma agraria che lo Ziimbabwe non sia autosufficiente sul piano alimentare” (Boston Gobe138/02).
È la solita vecchia e premiata strategia mediatica, ed una perfetta tecnica di diversione ispirata dai farmers che, non paghi della ricchezza accumulata in un secolo di dominio coloniale, vorrebbero essere indennizzati a spese di milioni di contadini neri che continuano a vegetare, poveri ed affamati, sui loro microappezzamenti di terra arida ai margini della savana.
Di veramente scandaloso c’è che fino ad oggi un pugno di coloni bianchi, ossia lo 0,6% della popolazione possieda 11 milioni di ettari, ossia il 70% della terra coltivabile del paese, mentre 6 milioni di contadini neri si devono accontentare di ciò che resta. La vera grave colpa di Mugabe è quella di voler compiere una riforma agraria che rompa definitivamente con la pesante eredità coloniale.
Il maldestro tentativo di attribuire alla riforma agraria di Mugabe la gravissima crisi sociale, economica ed alimentare che ha colpito con la forza di un ciclone i paesi dell’Africa australe, è stata duramente contestata persino dal giornale britannico The Guardian:“Sostenere che la riforma agraria sia la principale responsabile della carestia è pura fantascienza. Non è forse vero che 4500 coloni possiedono i due terzi delle migliori terre? Ciononostante moltissimi di loro, noncuranti della carestia, non producono alimentari, ma tabacco. Il 70% del raccolto di mais viene invece prodotto dalle piccole unità agricole dei contadini indigeni, che lavorano duro per sopravvivere sulle terre più aride e meno fertili che i bianchi hanno avuto la compiacenza di lasciare loro”(The Guardian 13/8/2002)
E’ il caso di ricordare che, dopo due decenni dalla raggiunta indipendenza, gli assetti proprietari tra neri e bianchi (cioè tra poveri e ricchi) sono rimasti sostanzialmente invariati, o appena scalfiti dal formarsi di un’esigua borghesia di colore subalterna ai bianchi. Rispetto al periodo coloniale e a quello dell’apartheid, l’agricoltura africana continua ad esser sfruttata e saccheggiata dalle multinazionali. Gran parte di ciò che viene prodotto è destinato ai più ricchi mercati delle cittadelle bianche. In cambio vengono offerti agli africani tonnellate di alimenti-spazzatura, a cominciare dal mais transgenico americano, che se venisse accettato senza preventiva macinazione, oltre alle incognite già denunziate, distruggerebbe il sistema eco-biologico della già fragile agricoltura africana.
Perché solo ora la riforma agraria?
Si rimprovera a Mugabe e al suo partito di aver aspettato vent’anni prima di avviare la riforma agraria e le procedure di esproprio dei grandi farmers. È bene non dimenticare che il 18 aprile 1980, quando fu ammainata la bandiera inglese (Union Jack) ad Harare, tutte le strutture economiche, private e statali, erano totalmente controllate e gestite dai bianchi, che si erano ben guardati dal formare una classe dirigente endogena in grado di assumere senza traumi le redini del potere. Se i guerriglieri dello Zanu PF, vincitori del confronto militare, avessero decretato allora l’esproprio e l’espulsione immediata dei coloni bianchi, avrebbero come minimo rischiato il caos ed il collasso del paese. Un compromesso fu all’epoca una scelta inevitabile e forse anche lungimirante. Ed è curioso che il frate comboniano Giulio Albanese, grande amico degli africani oltre che nostro, rimproveri a Mugabe di non aver operato subito come Lenin quando, dopo l’Ottobre 1917, decise di affidare all’esterrefatto operaio Maxim, tornitore delle officine Putilov di Pietrogrado, la direzione della Banca di Stato di tutte le Russie.
Non è stato facile gestire il paese in quelle condizioni, circondato dai sudditi di Sua Maestà in cerca di rivincita. Durante 20 anni Mugabe ha tentato, attraverso graduali riforme, di rompere le vecchie strutture di potere economico coloniale, ma ha finito per perdere il sostegno dei contadini poveri. Ma nell’anno 2000 il continuo peggioramento della situazione socio-economica ha fatto riesplodere il tema della terra, che era stato troppo a lungo accantonato. La messa a punto di un programma avanzato di riforma agraria ha consentito al governo di ristabilire un consenso di massa che si era gravemente deteriorato.
Ma quella che dai contadini neri viene intesa come una radicale riforma democratica, viene ovviamente considerata un intollerabile attentato al diritto di proprietà ed un’inaccettabile offesa per i vecchi signori della terra bianchi, che si sentono, nonostante la doppia cittadinanza, fedeli sudditi di Sua Maestà britannica.
La vittoria elettorale di Mugabe scatena la rabbiosa reazione imperialista
E così, come era prevedibile, anche questo ventennale eccesso di prudenza riformatrice non ha impedito lo scatenarsi di una violenta campagna contro Mugabe, che ricalca il copione balcanico e quello iracheno.
Il legittimo presidente dello Zimbabwe viene dipinto come un dittatore corrotto e sanguinario, ed associato, con il nomignolo di Bobodan (Bob, diminutivo di Robert), all’aberrante immagine di un nemico da schiacciare, costruita negli uffici marketing della NATO per Slobodan Milosevic. Non sorprende perciò che la causa di Mugabe sia stata definita da Liberazione del 10/8/2002 come “la guerra del presidente dello Zimbabwe contro i bianchi”.
Ma le ultime elezioni presidenziali hanno prodotto esiti diversi da quelli attesi da Londra e Washington: il presidente Mugabe ha ottenuto il 66% dei voti, il suo antagonista Tsvangirai il 42%. Per la seconda volta in un anno, l’Africa si ribella apertamente alle imposizioni dell’Occidente: dopo la dirompente querelle antirazzista di Durban sulle responsabilità euro-americane nella tratta degli schiavi, lo scontro è esploso sulla contestata regolarità delle elezioni
Presidenziali di marzo nello Zimbabwe
Gli osservatori africani di Nigeria, Namibia, Sudafrica, Kenya, Tanzania ecc., insieme con quelli dell’Organizzazione Unità Africana (OUA) e della Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe, le hanno controllate e giudicate del tutto libere e democratiche, mentre Europa e Stati Uniti (e chi ne dubitava?) ne hanno contestato la validità.
Il presidente Bush, nella sua febbrile ricerca di “Stati canaglia” (Rogue States) da annientare, ha dichiarato: “Non riconosciamo i risultati, in quanto falsificati dai brogli. Insieme con i nostri amici, la mia amministrazione deciderà quali provvedimenti adottare”.
Gli sforzi compiuti da Tony Blair per rovesciare Robert Mugabe sono stati apertamente denunciati dal ministro degli Esteri zimbabwese, Mudenge: “Che l’establishment britannico si sia unito contro lo Zimbabwe lo si può leggere nel programma della Westminster Foundation, che mira a destabilizzare il nostro Paese finanziando l’opposizione. Questa fondazione è finanziata per il 5% dal governo britannico. Possediamo un dettagliato rapporto sul denaro che il partito di opposizione MDC ha ricevuto dai tre maggiori partiti inglesi. Si tratta di un’ingerenza inammissibile nei nostri affari interni e, né più né meno, di un tentativo di ricolonizzare lo Zimbabwe”.
Una dichiarazione che dovrebbe far meditare gli ipocriti moralisti che impugnano la pretesa corruzione di Mugabe e del suo governo come motivo di condanna della sua politica.
La lotta dei senza terra dilaga oltre i confini dello Zimbabwe
Mugabe resta tuttavia molto determinato, e non ha alcuna intenzione di cedere alle pressioni (e alle minacce) di Blair e Bush: “Noi condurremo a termine il programma di distribuzione delle terre a profitto della maggioranza di neri emarginati. Abbiamo fissato una data limite e la manterremo. Mon tollereremo alcuna resistenza e non accorderemo tempi supplementari. Coloro che soffiano sul fuoco di una nuova guerra faranno bene a riflettere, finché sono in tempo.
Tutti i coloni bianchi ed onesti che vogliono proseguire le loro attività agricole e rispettano le leggi di questo Paese, riceveranno la terra che loro spetta. Non una sola famiglia di coltivatori sarà lasciata senza terra.
A coloro che si comportano da padroni e pretendono di gestire questo Paese per conto della Gran Bretagna, noi diciamo: i giochi sono finiti, l’epoca di Cecil Rhodes e di Ian Smith si è conclusa. Non c’è più posto per la cupidigia degli antichi dominatori. Né l’oro né l’argento,tanto meno i dollari e le sterline, potranno comprare la nostra sovranità. Lo Zimbabwe non è in vendita! Lo Zimbabwe è dei suoi cittadini, e non lo cederemo al miglior offerente. Il nostro popolo è il solo a cui appartiene questo Paese. Non ci lasceremo fuorviare da quella che oggi è la nostra questione vitale, la terra. La terra è nostra!”.
Queste parole devono esser suonate come musica alle orecchie dei senza terra di tutta l’Africa.
L’intervento di Robert Mugabe al vertice mondiale di Johannesburg è stato accolto da applausi scroscianti. Nessun altro leader ha ricevuto una simile accoglienza dai Paesi del terzo mondo presenti. E quando Colin Powell l’ha accusato, dalla stessa tribuna, di avere portato alla fame milioni di persone, l’Assemblea Mondiale lo ha sommerso con un boato di protesta.
Dunque la lotta per la terra in atto nello Zimbabwe non è un ordinario conflitto di classe, ma qualcosa di molto più ampio che dilaga, contagia e risveglia la coscienza di milioni di senza terra dei Paesi confinanti, Sudafrica incluso, e raccoglie solidarietà in molte zone del pianeta.
La sfida è temeraria: se Mugabe tiene duro ed espropria i coloni bianchi recalcitranti, la comunità imperialista si riempie nuovamente la bocca con il magico slogan dei “diritti umani violati”. FMI e WTO stanno mettendo a punto alcune contromisure per bloccare le ambizioni riformatrici dei leaders africani ribelli.
Nel gennaio 2002 è stato firmato, da qualche dirigente moderato africano, sotto l’occhio vigile del FMI, un documento intitolato NEPAD (Nuovo Partneriato per lo sviluppo dell’ Africa). Le reazioni furiose dell’Occidente contro Mugabe mostrano chiaramente le finalità del NEPAD. Il ministro britannico degli Esteri, Peter Haine, ha scritto: “Il NEPAD apre una prospettiva sull’avvenire dell’Africa. La comunità donatrice ha ragione di legare l’aiuto al rispetto dei diritti umani e della democrazia. Regimi come quello dello Zimbabwe non potranno contare sull’aiuto dei Paesi sviluppati.
Il messaggio che mandiamo ai vicini dello Zimbabwe è che gli affamati, i contadini, sono tutti vittime della pessima gestione di Mugabe, neri e bianchi, ricchi e poveri” (The Times, 13/8/2002).
In altre parole, i governi che non sottostanno alla volontà dei governi imperialisti e delle multinazionali saranno boicottati dal NEPAD, e dovranno attendersi grandi campagne invitanti le loro popolazioni a rovesciare con ogni mezzo i rispettivi governi.
Ci auguriamo che di fronte ad uno scontro di classe di queste dimensioni, la stampa di sinistra ed i comunisti non abbiano esitazioni sulla causa da sostenere. Senza equidistanza.