A ottobre dello scorso anno, in pieno clima “post 11 settembre”, prima l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Avi Pazner, e poi il Segreterio alla Difesa americano Rumsfeld, dichiaravano esplicitamente che Israele e Stati Uniti erano pronti a ricorrere alle armi atomiche nel quadro della “guerra infinita” contro il terrorismo. A fine agosto di quest’anno, il premier israeliano Sharon ha dichiarato che “in caso di attacco Israele risponderebbe con le armi atomiche”. Con quale scenario dovremo fare i conti nel XXI Secolo?
La cornice strategica che rende più realistica la minaccia dell’uso delle armi atomiche è la “nuova dottrina nucleare” statunitense. La nuova dottrina americana prevede dei “bombardamenti nucleari chirurgici” contro i centri di comando nemici. Essa è stata elaborata specularmente ad un accordo sulla riduzione delle armi nucleari strategiche con la Russia, che in tre paginette sostituisce e liquida gli accordi Start e procede all’accantonamento di migliaia di testate atomiche ma non alla loro distruzione. In cambio di tale accordo, alla Russia, con il vertice di Roma, è stato consentito l’ingresso nel Consiglio della NATO ma “senza potere di veto”.
Una prima manifestazione di tale delirio di onnipotenza potrebbe venire tra breve contro l’Iraq. In questo caso, il rifiuto di accettare ispezioni dell’ONU – come del resto fatto da Israele nel caso del massacro di Jenin – verrebbe sanzionato con i bombardamenti ed una eventuale occupazione militare americana ed israeliana. Rumsfeld, in un discorso tenuto il 31 gennaio scorso, ha chiarito che gli “Stati Uniti devono avere una capacità di dissuasione su quattro importanti teatri di operazione” e devono essere in grado di “battere simultaneamente due aggressori mantenendo la capacità di una controffensiva di vasta portata e di occupare la capitale di un paese nemico per insediarvi un nuovo regime”.
Siamo di fronte ad un progetto di offensiva e di controllo militare e strategico del pianeta che rende vano qualsiasi confronto con il recente passato. Non è casuale che l’alleato strategico degli Stati Uniti in tale progetto sia uno Stato dotato di un establishment globale (Israele) molto integrato con quello statunitense e molto influente in tutt i principali paesi del mondo (dagli USA, alla Francia, alla Russia) attraverso la sua rete internazionale di lobby. Sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique, Geoffrey Aronson sottolinea chiaramente come “al pari di Tony Blair, Sharon è uno dei più fervidi paladini della “guerra contro il male”. Gli Stati Uniti hanno lanciato una corsa al riarmo e una escalation delle spese militari che sembra indicare piuttosto chiaramente quella bellica come la via d’uscita dalla crisi del sistema. Un professore dell’università di Harvard, Robert Barro, ha calcolato come, dal 1945 in poi, ogni dollaro di aumento nel budget della Difesa americana abbia un impatto tra i 60 e i 70 centesimi sull’economia. I “picchi” di questa ricaduta dell’economia di guerra sul complesso dell’economia statunitense, hanno coinciso con la guerra di Corea, la guerra in Vietnam, la seconda guerra fredda nell’epoca di Reagan, la prima guerra nel Golfo nel 1991.
La ripresa della competizione intercapitalista
Secondo l’economista statunitense Martin Feldstein (ex capo dello staff economico di Reagan e di Bush) l’introduzione dell’Euro avrebbe addirittura portato “alla guerra tra USA ed Europa”. È curioso sottolineare come anche l’ex cancelliere tedesco Khol, un anno prima di Feldstein (Conferenza a Lovanio nel 1996), avesse dichiarato che “L’integrazione economica europea è una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo” e che in tempi più recenti (1999) abbia ribadito tale concetto in una intervista al Corriere della Sera. Come dobbiamo leggere – alla luce della situazione di oggi – queste previsioni inquietanti? E quali connessioni dobbiamo rintracciare nella brusca accelerazione avvenuta in questi processi?
Il deflusso di capitali internazionali dagli Stati Uniti verso l’area dell’Euro (indicativo quello dei petrodollari sauditi), insieme alla stagnazione economica delle maggiori economie capitaliste, stanno ponendo problemi strategici rilevanti all’egemonia globale statunitense esercitata sul mondo dal dopoguerra a oggi.
In questi anni, il mito della globalizzazione sembra aver messo in ombra nelle analisi e nelle discussioni processi come la competizione intercapistalista. La stessa mitica Commissione Trilaterale è apparsa in seria difficoltà nel dare una visione organica di una nuova realtà che minerebbe alle fondamenta anche i progetti di una istituzione potente e parallela a quella delle maggiori potenze capitaliste del pianeta, una istituzione nata per fronteggiare con la concertazione trilaterale la minaccia comunista. “L’inarrestabile affermarsi della globalizzazione rischia di provocare almeno una vittima, quella logica tripolare che durante la guerra fredda vedeva USA, Europa occidentale e Giappone accesi concorrenti economici ma forti alleati politici”, sottolinea un membro della Trilateral riassumendo la discussione della riunione di Parigi nel marzo 1999, “Ora che la guerra fredda non c’è più, ciascuno si sente con le mani libere, mentre i nuovi soggetti che si affacciano sulla scena economica e strategica sparigliano gli scenari tradizionali delle alleanze, delle priorità e delle convenienze” .
Contrariamente al pessimismo realista manifestato dai precursori della Trilateral, il feticcio della globalizzazione sembra invece ormai soddisfacente anche a molti “neomarxisti” per spiegare il mondo attuale, le nuove relazioni internazionali e i nuovi rapporti di forza. Eppure la categoria della globalizzazione – calzante negli anni Novanta – si va rivelando ormai desueta, molto imperfetta e sotto certi aspetti deviante, sarebbe più appropriato parlare di “competizione globale”, perchè tale è la tendenza dell’epoca che stiamo vivendo, un’epoca in cui la competizione economica e quella politica tra le economie più forti e/o i poli imperialisti tenderà ad accentuarsi più che a comporsi.
Il rapporto tra il nascente polo imperialista europeo con gli altri poli (USA, Giappone, Cina) è sicuramente di competizione. I segnali in tal senso sono ormai sistematici e numerosi. Emblematici, in tal senso, sono il recente dibattito sulle pagine della Repubblica tra Sandro Viola e Giuliano Amato, o, ancora più chiaramente, le posizioni contro una nuova aggressione verso l’Iraq da parte della Germania e di gran parte dell’establishment europeo.
Una prima, vera e recente guerra competitiva tra due poli imperialisti c’è già stata: quella scatenata dagli Stati Uniti contro il Giappone nella seconda metà degli anni ’90, che si è conclusa con la vittoria degli USA, i quali hanno applicato nuovamente – con sistemi diversi – il metodo dell’ammiraglio Perry, costringendo così il Giappone ad aprire il suo mercato interno alla penetrazione delle multinazionali statunitensi (ed anche europee come nel caso della Renault-Nissan). Un secolo e mezzo fa questo risultato fu ottenuto con le cannonate delle navi americane giunte nella baia di Tokio, alla fine del XX Secolo è stata utilizzata la crisi finanziaria delle tigri asiatiche – dovuta al rastrellamento di capitali per convolgliarli nel mercato americano – e la sopravalutazione dello yen sul dollaro con il conseguente crollo delle esportazioni giapponesi sulle quali si reggeva gran parte della struttura del capitalismo giapponese.
Le ambizioni giapponesi manifestate negli anni ’90 da Akio Morita (“Il Giappone che sa dire NO”) o dalla dottrina Miyazawa, che voleva il Giappone al centro di un nuovo sistema di sicurezza in Asia, sono state frustrate da un conflitto giocato a tutto campo e che ha messo in ginocchio il polo giapponese.
Su un altro scenario, quello strategicamente più rilevante, le tensioni tra Europa e Stati Uniti sul rapporto di cambio tra dollaro ed euro (dal quale dipendono sia i nuovi equilibri sui mercati finanziari sia l’andamento delle rispettive bilance commerciali), il fallimento delle trattative dell’OMC a Seattle o l’uso sistematico delle crisi geopolitiche nei Balcani (fino ad arrivare alla guerra contro la Jugoslavia) e in Medio Oriente intese come contraddizioni gettate contro l’Europa, sono esempi concreti di una competizione ormai abbastanza evidente.
Un altro esempio di questa competizione globale comprensiva degli aspetti politici, tecnologici, economici e militari tra Europa e Stati Uniti, ci viene dal sistema satellitare europeo Galileo.
Galileo si appresta nei prossimi anni a sostituire il monopolio satellitare americano esercitato dal sistema GPS. E di ambizioni a fare di più e meglio degli Stati Uniti ce ne sono molte.
Se il GPS funziona con un sistema di 24 satelliti, Galileo ne avrà in orbita 30. Se il GPS è costato 20 miliardi di dollari, si prevede che Galileo ne costerà solo 3,9.
Un settimanale specializzato riferisce che negli Stati Uniti si guarda ormai all’Europa con molta ostilità, e non solo sul piano politico e diplomatico. “Dopo l’11 settembre è nato un movimento politico che intende rivedere le relazioni atlantiche anche alla luce di un’accresciuta competizione economica, industriale e politica con l’Europa. … contrariamente alle decadi precedenti, il trasferimento di tecnologie dagli USA all’Europa non è più garantito nè scontato” .
Tre anni fa, venne resa nota l’esistenza di un documento riservato del Pentagono che esclude molti paesi europei (in modo particolare la Francia) da ogni forma di cooperazione nelle tecnologie militari. È per questa ragione che l’avvio del progetto Galileo è piombato come un macigno sulle relazioni transatlantiche, un macigno assai più pesante dei dazi sull’acciaio o dei sussidi agli agricoltori.
E di riflesso, come dovremmo leggere l’escalation di fusioni tra le maggiori aziende europee di tecnologie avanzata per dare vita ad un polo aereospaziale e militare autonomo dagli USA? E ancora, come spiegarsi l’impressionante accelerazione con cui in meno di un anno si è arrivati alla costituzione dell’esercito europeo?
Uno scrupoloso studioso marxista dell’imperialismo USA come Malcom Sylvers ha avanzato in un suo libro una sintesi molto chiara “Si può senz’altro ipotizzare che sia la natura concorrenziale del capitalismo sia la struttura degli Stati tendono ad impedire il raggiungimento di accordi stabili tra le potenze che contano. Eppure, lo scenario della conflittualità con possibili forti aumenti della tensione internazionale non si dispiega come un’alternativa diretta al coordinamento; esistono elementi di entrambe le tendenze, anche se nel panorama contemporaneo ci sono ben più evidenze della prima”. Nelle pagine precedenti l’autore aveva messo bene in evidenza l’impressionante aumento delle spese militari statunitensi ma Sylvers aggiunge una considerazione che merita estrema attenzione quando nega qualsiasi tentazione “isolazionista” degli USA verso i partner europei e che – al contrario – “una lettura attenta delle pubblicazioni ufficiali del Pentagono e degli specialisti militari dà tutt’altra impressione: esse indicano come rivali potenziali in conflitti armati non solo la Cina e la Russia ma anche gli altri paesi appena nominati (gli europei, NdR): il mondo è sempre più turbolento e le minacce vanno al di là del tradizionale antagonismo est-ovest”.
Unificare
“I popoli di Seattle e di Durban” contro la guerra
Quando le dirette televisive o le agenzie di informazione hanno cominciato a rendere visibile quello che l’11 settembre dello scorso anno stava accadendo alle Torri Gemelle di New York o a Washington, è stato possibile verificare come il mondo in cui viviamo si sia spaccato in due. È probabile che da Bogotà a Jakarta si sia esultato, mentre da New York a Varsavia abbiano prevalso lo sgomento e la condanna (questa realtà era verificabile anche nella discussione sul capitolo sull’11 settembre da inserire nel documento del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre). Ma la divisione geografica, politica e morale del mondo non può essere liquidata sulla base del cinismo degli uni o dei valori morali degli altri.
È evidente come la percezione del fatto che il terrore abbia investito il cuore economico e militare degli Stati Uniti, sia stata molto diversa tra coloro che il terrorismo di Stato statunitense o israeliano lo sperimentano da anni sulla propria pelle e chi, anche opponendosi alla guerra, lo ha vissuto o lo combatte solo sugli schermi televisivi o nel fuoco della dialettica “politica” nelle democrazie occidentali..
Questa diversa percezione delle contraddizioni del mondo reale è rimbalzata e si è evidenziata anche nelle riunioni, nei documenti, nelle sensazioni e nella crisi del composito “popolo di Seattle” o movimento dei movimenti. Qua e là sono riemerse posizioni che hanno ribadito l’estraneità della cultura politica occidentale – anche di quella antagonista – alla logica che può portare al suicidio/omicidio, alla “morte di sé e degli altri”, come strumento di denuncia estrema di situazioni di oppressione insopportabile. Sono circolati luoghi comuni sul fondamentalismo islamico, distinguo sempre più profondi e un disagio diffuso a collocare la propria opposizione al modello capitalista e all’imperialismo oggi dominanti sul mondo. In alcuni casi abbiamo avuto l’impressione di una rivendicazione estrema della propria appartenza al modello occidentale come topos universale in grado di contenere comunque anche i germi di “un altro mondo possibile”.
Il disorientamento del popolo di Seattle non ci deve sorprendere più di tanto, perchè il segnale di questa possibile contraddizione o estraneità con i movimenti, i valori e le azioni estreme che emergono nel Sud del mondo si sono manifestati in questi ultimi mesi sia nella reticenza a mobilitarsi per la Palestina sia – prima ancora – in occasione della Conferenza mondiale dell’ONU sul razzismo svoltasi a Durban o in quella sullo “Sviluppo Sostenibile” a Johannesburg.
I documenti delle ONG africane, arabe e asiatiche che a Durban hanno condannato la politica israeliana come colonialismo ed il modello israeliano come razzismo, o che a Johannesburg hanno messo sulla graticola il programma liberista imboccato dal governo sudafricano, hanno rivelato anche l’estremo imbarazzo di molte ONG europee ed hanno scatenato la pesantissima offensiva mediatica dei commentatori e degli opinion maker occidentali. Non è stato estraneo a questa offensiva, che è pentrata anche in parte della sinistra e del movimento no global, il tentativo di affermare con forza che il modello israeliano o quello attuale sudafricano (in contrapposizione a quello di Mugabe in Zimbabwe) restano in fondo, e nonostante le loro contraddizioni, un esempio di democrazia e di civiltà occidentale piantato nel cuore della barbarie e dell’imperscrutabile mondo arabo e africano. Si è riproposto in sostanza quel “peccato originale del Novecento” efficacemente indagato e documentato da Domenico Losurdo.
Del resto la rimozione del colonialismo e della estraneità della cultura occidentale nel resto del mondo sembrano essere penetrati anche nella formazione culturale e politica di diverse generazioni della sinistra occidentale e il “popolo di Seattle” non poteva rimanerne immune. In Italia, per fare un esempio, è ancora praticamente impossibile aprire un dibattito sulle responsabilità e i crimini del colonialismo italiano in Libia, Etiopia, Balcani. Scattono automaticamente veti pesantissimi ed ostracismi di ogni tipo, che solo rari e coraggiosi storici come Del Boca hanno avuto il coraggio di denunciare. In queste condizioni, la formazione di una cultura internazionalista deve attraversare ostacoli spesso invisibili ma insormontabili.
Il “popolo di Durban” ha svelato il permanere di una contraddizione irrisolta tra i movimenti progressisti o antagonisti europei o americani con quelli dell’area Tricontentale (Asia, Africa e America Latina). Tale contraddizione era visibile anche ad occhio nudo nei seminari e nelle conferenze tenutesi al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre.
Con questa contraddizione il popolo di Seattle e il popolo di Durban dovranno fare i conti, e dovranno farli anche in tempi rapidi, perchè gli attentati di New York e Washington sono stati spudoratamente utilizzati (se non addirittura pianificati) non solo per ammutolire gli oppositori e contenere la crisi morale ed economica interna agli Stati Uniti, ma anche per allargare questa contraddizione dipingendola come uno scontro di civilità su cui schierarsi o appiattirsi. Chi rompe questo schema è praticamente un “disertore”, esattamente come vengono considerati quei pochi ma coraggiosissimi israeliani che si oppongono al colonialismo e all’oppressione contro i palestinesi.
Non sappiamo in quali occasioni o su quali ponti sarà possibile costruire l’alleanza tra i popoli di Seattle e i popoli di Durban. Una volta “l’internazionalismo proletario” aveva fatto sì che coloro che lottavano si trovassero dentro uno stesso fronte o addirittura dentro la stessa organizzazione internazionale. Al momento appare ancora difficile vedere nel Social Forum di Porto Alegre la stessa consapevolezza, la stessa sintonia e la stessa centralità degli interessi di classe. Serve ancora uno sforzo, grande e pervicace, per far guardare negli occhi i giovani arabi, africani, asiatici e i giovani occidentali e per riconoscersi seriamente sullo stesso fronte di lotta.
Il nemico principale
Governi come quello statunitense o quello israeliano stanno approfittando della situazione di unipolarismo mondiale, dovuta alla mancanza di un qualsiasi polo riequilibratore delle relazioni internazionali, per arraffare sul campo – con la diplomazia o i bombardamenti – tutto ciò che serve per consolidare la loro egemonia: dagli oleodotti a nuove basi militari, dalla supremazia bellica al monopolio delle risorse o delle tecnologie civili e militari.
Sotto alcuni aspetti le amministrazioni di Bush e Sharon sembrano aver ingaggiato una corsa contro il tempo. La prima per rinviare sine die il declino dell’egemonia americana sul mondo e scongiurare l’emergere di “rivali strategici”, la seconda per raggiungere definitivamente l’obiettivo storico della Grande Israele. Il ricorso alla guerra, in tal senso, non è più una eccezione ma la regola e per essere efficace tale regola, non deve più incontrare dei limiti nella legalità e nelle istituzioni internazionali come l’ONU e in Jugoslavia prima e in Palestina poi l’ONU è stata seppellita forse definitivamente.
La guerra contro il terrorismo è ormai lo scudo per arrivare a bombardare Bagdad come Teheran, Kabul come Ramallah, Damasco o le zone della Colombia controllate dalle FARC, per riportare i militari americani nelle Filippine e quelli israeliani in Libano o “per dare una lezione a Chavez”.
Nessuno oggi si siederebbe a discutere di metodi giusti o sbagliati con un nazista. Tantomeno si potrebbe discutere del merito. Nessuno, nella Seconda Guerra Mondiale, se l’è sentita di essere equidistante tra Stalin e Hitler nell’individuare il nemico principale. Chi accetterebbe di essere equidistante tra un adulto malintenzionato e un bambino cattivo? L’Unione Europea ancora non riesce a dimostrare la sua capacità di esprimersi come polo imperialista globale e competitivo in grado di riequilibrare le relazioni internazionali. Lo scenario di un esteso conflitto inter-imperialista non è ancora all’ordine del giorno (anche se la tendenza sembra muovere in questa direzione). Gli obiettivi di fase dell’offensiva strategica dell’asse USA-Israele-Gran Bretagna, contro i cosiddetti “Stati-canaglia” o i movimenti di resistenza popolare, non sempre rende questi ultimi “i compagni di strada” che possiamo sceglierci, ma al momento sono gli unici che abbiamo per cercare di fermare il nemico principale.