Voto utile: Rifondazione Comunista

Le prossime elezioni politiche sono nuovamente decisive per Rifondazione comunista. Dopo l’arretramento alle elezioni europee il partito ha registrato una lieve – ma importante – ripresa nelle elezioni regionali. Dobbiamo consolidare e migliorare questo risultato, il che comporta raccogliere almeno 2 milioni di voti. Il nostro messaggio deve arrivare a convincere larghe masse. Deve parlare innanzitutto a milioni di lavoratori che rappresentano – ovviamente – i nostri interlocutori prioritari. In secondo luogo è necessario guadagnare consensi in più direzioni: verso l’astensione, verso un vasto popolo di sinistra insoddisfatto dell’Ulivo, verso il voto ambientalista.

L’unico partito che si è schierato contro la guerra

Dobbiamo dimostrare che il voto a Rifondazione comunista è un voto utile. Questo problema viene prima della tattica elettorale. Quali sono gli argomenti più forti da utilizzare?
In primo luogo, rispetto ad altre forze politiche possiamo vantare un elemento fondamentale: la coerenza. Siamo infatti il partito – l’unico – che si è schierato contro la guerra. Abbiamo sempre detto che la guerra non poteva – non può – essere “umanitaria”. L’uso dell’uranio impoverito nei bombardamenti di allora e anche quanto sta accadendo ora in Macedonia evidenziano anche ai più riluttanti la validità delle nostre tesi. Una sinistra che sostiene di avere dato maggior prestigio al proprio paese partecipando all’aggressione militare alla Jugoslavia non può essere sostenuta e votata da chi si richiama ai valori autentici della sinistra. Per chi quindi ritiene che con la guerra non si risolvono le controversie internazionali – e che non esistono guerre umanitarie – l’unico voto utile è quello dato a Rifondazione comunista.
Un secondo argomento concerne la distribuzione della ricchezza. I profitti dei padroni sono aumentati del 78%, mentre salari e stipendi sono diminuiti in media del 5%; contemporaneamente il tasso di disoccupazione è rimasto attorno al 10%. Sono questi gli effetti della politica dell’Ulivo, basata sull’accettazione delle esigenze delle imprese e sulla concertazione con i sindacati: scelte fallimentari per il nostro paese, come è stato recentemente riconosciuto anche da alcuni economisti liberali (Alvi, Corriere della Sera, 15 gennaio 2001). Bisogna cambiare rotta e ripartire dai bisogni dei lavoratori: sviluppare una politica in grado di colpire rendite e profitti, e di favorire il salario. Si può, basta volerlo. Il voto a Rifondazione è utile per invertire questa linea.
La terza questione riguarda la politica centrista dell’Ulivo. Il centrosinistra ha continuato a sostenere che solo una politica moderata, in grado di conquistare i voti del centro, è decisiva per battere le destre. Quale risultato si è raggiunto? Che il centro si è via via sgretolato e staccato dal centrosinistra (si pensi a Di Pietro, D’Antoni e Zecchino) mentre oltre 4 milioni di elettori di sinistra, delusi per la politica dell’Ulivo, sono confluiti nella variegata area dell’astensionismo. Sono risultati che dimostrano come sia urgente una svolta politica a sinistra. Un voto a Rifondazione comunista non è solo una garanzia in questo senso, ma può indurre le componenti di sinistra del centrosinistra a far sentire di più la loro voce.
Quarto: le grandi questioni ambientali. La presenza dei Verdi al governo non ha impedito che si continuasse nella politica di sempre: grandi opere, cementificazione ecc. Due esempi. L’Alta velocità: si sopprimono le linee utilizzate dai pendolari mentre si investono 50 mila miliardi per ridurre di 15 minuti i tempi di percorrenza Milano-Roma. Il Ponte sullo Stretto di Messina: costa decine di migliaia di miliardi mentre Calabria e Sicilia hanno ancora importanti linee a binario unico e non elettrificate.
Contro queste scelte si può sviluppare, in particolare in alcune regioni, una forte campagna elettorale. Rifondazione è ed è stata in questi anni alla testa di questa battaglia: le elezioni sono un’occasione per valorizzare il lavoro politico sin qui svolto. Per farlo, è necessario programmare l’iniziativa di tutto il partito, con una presenza visibile in mezzo alla gente tesa a far conoscere le nostre proposte. Almeno in questo periodo è importante dedicare le riunioni di partito all’organizzazione efficace dell’iniziativa esterna (presìdi nelle piazze e davanti ai luoghi di lavoro e alle scuole; grande attenzione agli spazi pubblicitari per la propaganda diretta e indiretta; impegno dei nostri eletti a tutti i livelli per rendersi particolarmente visibili su giornali e televisioni locali; presenza capillare ai seggi dei nostri rappresentanti di lista). Dobbiamo respingere il fatalismo che dilaga e rischia di paralizzarci: essere consapevoli che il risultato elettorale dipenderà molto anche dall’impegno e dalla cura che metteremo nell’affrontare i complessi aspetti organizzativi di questa difficile campagna.

Sulla tattica elettorale

In questo contesto – e quindi senza contropartite significative – se noi accettassimo la linea che ci viene proposta, e cioè non presentare i nostri candidati anche al Senato, verrebbe minata la nostra autonomia di forza politica. Non è un caso che l’”offensiva” nei nostri confronti avvenga con argomenti e modalità identici a quelli impiegati all’epoca della rottura con il governo Dini prima, con il governo Prodi poi. E cioè: «è vero, non c’è stata la svolta, ma non potete favorire le destre». Rispetto a tali attacchi – che ci saranno in ogni caso – anziché assumere un atteggiamento rinunciatario dobbiamo passare all’offensiva. Gli argomenti non ci mancano.
Se volessimo far vincere le destre, perché ci saremmo ritirati unilateralmente nei seggi della Camera favorendo l’elezione di 50 deputati nei seggi marginali? Se fossimo davvero insensibili rispetto a possibili intese contro le destre, perché le forze del centrosinistra avrebbero concluso accordi con noi per sostenere Veltroni a Roma, Russo Jervolino a Napoli e Antoniazzi a Milano? E perché in molte regioni, province e comuni il centrosinistra governa da tempo insieme a noi? Perché i partiti di governo non se la prendono con Di Pietro e Zecchino, eletti nel loro schieramento da cui poi sono usciti per presentarsi oggi autonomamente? Perché non hanno ascoltato l’appello del Capo dello Stato e accettano di ricorrere alle liste civetta che, oltre ad essere un ignobile furto di voti, rappresentano una scelta di guerra dichiarata nei nostri confronti?

Al centro la lotta per il lavoro

A fine gennaio Rifondazione comunista ha tenuto a Treviso una importante Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori. In quell’occasione abbiamo ascoltato un partito che è in prima fila in tante battaglie, là dove lottare è sempre più difficile e può anche significare perdere il posto. Luoghi di lavoro in cui, tramite parole più o meno nuove – flessibilità, competitività, compatibilità – tornano vecchie condizioni conosciute in passato, come supersfruttamento, precarietà, alienazione, nocività, ritmi e orari massacranti, insicurezza e morti bianche. Ma può ritornare – la lotta alla Fiat lo dimostra – una ripresa del conflitto di classe a cui noi dobbiamo guardare con particolare attenzione perché sappiamo che da lì possono partire i primi passi di una reale controffensiva. Così come è incoraggiante sapere che alla Zanussi la Fiom, che si era opposta all’accordo, ha vinto le elezioni e che tutti gli 11 delegati eletti delle Rsu fanno parte della componente di sinistra Lavoro e società. A proposito di questo intreccio tra vecchio e nuovo, di nuove forme in cui si presentano vecchie questioni, è utile spendere qualche parola sulle origini dalle quali proveniamo. In queste settimane stiamo festeggiando i 10 anni di Rifondazione comunista. A Livorno, in gennaio, abbiamo ricordato l’importanza della nascita, nel ’21, del Partito Comunista d’Italia e abbiamo avviato un ragionamento sulla nostra storia per cercare di capire come oggi possiamo meglio riattualizzare il comunismo, superando gli errori compiuti in passato.
Non crediamo che, per fare questo, siano necessarie abiure. A Veltroni che sostiene che il comunismo è incompatibile con la libertà, rispondiamo ricordandogli che il tribunale speciale fascista ha comminato 27 mila anni di carcere e di questi 24 mila a carico di militanti e dirigenti comunisti. 24 mila anni di carcere per riconquistare la libertà. E a Marco Revelli, che nel suo ultimo libro – pur da una angolazione diversa – arriva alle stesse conclusioni di Veltroni sostenendo che nel Novecento i fascisti e i comunisti, pur partendo da motivazioni opposte, sono giunti a comportamenti analoghi, occorre ricordare che in Italia e nel mondo, senza quel moto di liberazione iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre, e senza le innumerevoli battaglie dei comunisti, non ci sarebbero state né la vittoria sul nazifascismo né le lotte di liberazione dal colonialismo di popoli di interi continenti. E anche tutte le conquiste sociali, in Italia e in Europa, che oggi – anche in conseguenza della sconfitta di quella rivoluzione – i padroni cercano di riprendersi.
Anche per questo è importante ragionare ancora – considerando il dibattito che si è sviluppato – sull’ultimo libro di Revelli, Oltre il Novecento. Se vi ritorniamo su, non è per rinfocolare la polemica, ma per fare emergere con chiarezza le diverse posizioni, offuscate dall’intensità del contrasto e dal tumultuoso andamento della discussione. In un momento come questo, di confusione e disorientamento, ci sembra necessario soprattutto disporre di quadri limpidi, in base ai quali potere giudicare a ragion veduta.
A questo scopo, sembra utile ripercorrere la discussione sul libro di Revelli ordinandola intorno a due nuclei problematici, tra loro connessi ma logicamente indipendenti: il giudizio sul comunismo (storico e teorico); e l’interpretazione del Novecento e della modernità.
Cominciamo dalla prima questione, sulla quale la polemica si è subito infuocata.

“Revisionismo storico”?

In verità, stando almeno alle apparenze, non ci si è scontrati, come sarebbe stato logico e utile, intorno al giudizio storico e politico sul “comunismo novecentesco”. A prima vista, il cuore della contrapposizione è consistito nella critica di “revisionismo storico” formulata da taluni (Burgio, Grassi, Negri) e respinta con forza da Revelli, che l’ha variamente definita una «vera e propria mascalzonata» e una «falsificazione consapevole» delle sue tesi (Liberazione, 27 febbraio 2001; il manifesto, 2 marzo 2001). Diciamo che questo è stato apparentemente il nodo della polemica perché, se a dar fuoco alle polveri è stato il ricorso a una categoria (quella, appunto, di «revisionismo storico») interpretata diversamente da Revelli e dai suoi critici, alle spalle di tale difformità interpretativa si celano in realtà divergenze ben più concrete, relative al giudizio storico e politico sul comunismo, divergenze che è opportuno emergano in tutta la loro portata.
Revelli rifiuta l’etichetta di «revisionista» sottolineando di avere accuratamente distinto fascismo e comunismo sulla base del diverso rapporto tra mezzi e fini che, a suo giudizio, ha caratterizzato i due fenomeni: «l’uno (il fascismo, in particolare la sua versione nazional-socialista) ha incarnato una forma di “male assoluto” in cui mezzi distruttivi e fini abominevoli hanno coinciso perfettamente, mentre l’altro (il comunismo nella sua forma novecentesca) ha prodotto una tragedia storica in cui fini nobili ed emancipatori sono stati negati e rovesciati dal predominio di mezzi inumani» (il manifesto, 2 marzo 2001). Tralasciamo qui di considerare che non si comprende come si possa definire «nobili ed emancipatori» i fini del comunismo e al tempo stesso sottoscrivere l’idea che il comunismo intrattenga «un rapporto fondante, non episodico, sistematico e intrinseco con l’uso (e l’abuso) della violenza», ragion per cui, perduta «ogni credibilità», il comunismo si ritroverebbe «nel campo dei progetti non solo praticamente non realizzabili, ma neppure teoricamente auspicabili» (Oltre il Novecento, pp. 16-7).
Restiamo al tema del «revisionismo storico» e della relazione mezzi–fini.
Revelli non è il solo a ritenere dirimente il modo in cui tale relazione si configura, agli occhi degli storici, nei diversi regimi politici. Il punto è che alla base di questa argomentazione sta un’accezione molto ristretta e tutt’altro che scontata di «revisionismo storico», secondo la quale «revisionista» sarebbe soltanto lo storico che sostenesse che il fascismo e il comunismo hanno fatto uso degli stessi mezzi per perseguire gli stessi fini, cioè solo uno storico che affermasse la totale identità dei due fenomeni e delle rispettive ideologie. Forse sulla base di questa definizione nemmeno Nolte incapperebbe nella taccia di «revisionismo».
Quanti hanno ritenuto di cogliere nel libro di Revelli una consonanza con il «revisionismo storico» hanno di quest’ultimo una diversa nozione. Essi hanno dichiarato di scorgere «la tesi fondamentale del revisionismo storico» nell’affermazione secondo cui «tra comunismo e fascismo sussist[erebbero] essenziali analogie» (Grassi, Liberazione, 27 febbraio 2001), e non già soltanto nella improbabile (e palesemente inconsistente) tesi della loro assoluta identità. L’idea è che, con l’ausilio della celebre teoria del totalitarismo, il «revisionismo storico» miri a proiettare sul «comunismo novecentesco» ombre non meno cupe di quelle che gravano sulla memoria del nazifascismo, e ciò precisamente al fine di costruire un’immagine del Novecento come secolo delle «idee assassine», per riprendere il titolo dell’edizione italiana di un recente libro di Robert Conquest, che traccia un bilancio del secolo fondato, appunto, sulla teoria degli opposti totalitarismi.

Revelli, Bobbio e Bellinazzi

Chi abbia ragione in questa disputa terminologica non è certo agevole stabilirlo. Può essere forse utile, però, esaminare due recenti prese di posizione di Norberto Bobbio in merito a un libro di Paolo Bellinazzi, L’utopia reazionaria, la cui tesi di fondo è – per riprendere lo stesso Bobbio – che «nazismo e comunismo sono due ideologie […] omogenee e hanno matrici comuni» (la Repubblica, 15 marzo 2001). Nell’articolo dal quale sono tratte queste parole, Bobbio sottolinea i «limiti del libro e della tesi sostenuta» da Bellinazzi, ponendo anch’egli l’accento sulla «differenza tra un’ideologia perversa non solo nei mezzi ma anche nei fini e una perversa nei mezzi e salvifica nei fini». Bobbio assume cioè il criterio analitico di Revelli, al quale, del resto, espressamente rinvia: egli concede che il libro di Bellinazzi contiene «argomenti che non si possono in alcun modo trascurare», ma giudica la conclusione della sua analisi «drastica e semplicistica» e in definitiva inaccettabile proprio in quanto trascura la questione della relazione mezzi–fini, «come è già stato fatto notare, per esempio, da Marco Revelli».
Sembrerebbe dunque che il riferimento al rapporto tra fini e mezzi serva a criticare efficacemente tesi storiografiche strumentali, fondate su forzature e analogie esteriori. Ma le cose si rivelano più complicate alla luce di quanto Bobbio afferma in una precedente intervista, apparsa su la Repubblica del 25 gennaio 2001. Intanto, in questa prima esternazione il giudizio sul libro di Bellinazzi appare alquanto diverso. Bobbio afferma di averlo «molto apprezzato»; alla domanda se sia «d’accordo con le tesi di Bellinazzi» risponde: «Il libro è molto ben documentato dal punto di vista storico e filosofico e mi ha colpito anche per una certa assonanza di idee» con le posizioni che lui stesso ha «sempre sostenuto»; e poco dopo così conclude: «di fronte alla prova di fatto che il comunismo era intrinsecamente antidemocratico e totalitario, bisogna ammettere che la tesi del Bellinazzi è giusta» oltre che «molto bene» argomentata. Un ripensamento non costituisce certo motivo di scalpore. Dopo questa intervista Bobbio avrà riletto il libro con maggiore attenzione, traendone giudizi più sfumati e impressioni meno favorevoli: nessun problema. Problematico appare tuttavia l’argomento in base al quale, nell’intervista, Bobbio motiva il proprio consenso con le tesi di Bellinazzi.
Ciò che egli dichiara di condividere è proprio l’idea che comunismo e nazismo abbiano «matrici comuni» e un comune nemico («il libero mondo borghese del mercato e degli stati parlamentari»): che essi siano «ugualmente reazionari» e accomunati dal fatto di essere entrambi «utopie perfezionistiche» (ragion per cui Bobbio «accett[a] l’espressione del titolo del libro di Bellinazzi»). Quando poi l’intervistatore gli rammenta le accuse di «condiscendenza» verso i comunisti rivolte in passato a lui e a «tutti gli azionisti», Bobbio dapprima richiama gli sforzi compiuti per giustificare l’alleanza antinazista tra «comunismo e democrazia» («Noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati dei comunisti […] abbiamo sempre cercato di legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti. Era comprensibile che cercassimo di rappresentarlo come un fenomeno progressivo e non regressivo. Eravamo alleati in una guerra mortale, capite?»), quindi così conclude: «È evidente che abbiamo sempre mantenuto una certa diffidenza nel giudizio critico su nazismo e comunismo e che non abbiamo mai pensato di identificarli. Ma una volta caduto il Muro di Berlino, i fatti ci hanno costretto a cambiare idea».
Ecco dunque il punto: cade il Muro, scompaiono quegli «aspetti positivi» che prima si era ritenuto di scorgere nel comunismo, e questo si rivela allora identico al nazismo. Libero, Bobbio, di pensarla come crede. A noi qui interessano due cose: la prima è che difficilmente si potrebbe negare che giudizi come questi rientrino a pieno titolo nella prospettiva del «revisionismo storico». Se «revisionista» non è chi tra comunismo e nazismo istituisce analogie talmente strette da giungere ad «identificarli», davvero non si vede chi possa meritare questa etichetta. La seconda considerazione riguarda la questione dei mezzi e dei fini richiamata da Revelli. Come si è ricordato, anche Bobbio la considera cruciale. Senonché, alla luce delle sue posizioni, il minimo che si possa osservare è che assumerla a criterio dei propri giudizi non aiuta a tenersi lontani da analogie storiche alquanto temerarie. Al contrario: le due prese di posizione di Bobbio suscitano l’impressione che definire «revisionisti storici» solo gli studiosi che attribuiscono al comunismo gli stessi mezzi e gli stessi fini del nazismo serva proprio a poter dichiarare identici i due regimi sottraendosi all’accusa di «revisionismo». Come dire che questa della relazione mezzi–fini somiglia molto a una clausola restrittiva invocata a scopo liberatorio: accoltala, si potranno sviluppare le più stringenti comparazioni tra i «due totalitarismi» e al tempo stesso – purché si abbia l’accortezza di non pronunciare la parola «fini» – si potrà respingere sdegnosamente la taccia di «revisionismo».

Analogie e bilanci storici

Ma lasciamo andare tali questioni lessicali. Al di là della terminologia, l’importante è intendersi sulle cose. «Revisionismo» o meno, quel che conta è il modo in cui si imposta il bilancio storico del Novecento. Nel caso di Revelli, importa che il suo libro istituisca una costante comparazione tra fascismo e «comunismo novecentesco», una comparazione in base alla quale i due regimi avrebbero alle spalle la stessa causa (il trionfo della «weberiana razionalità strumentale»), si sarebbero serviti degli stessi mezzi (anzi i comunisti avrebbero usato «le armi degli altri (dei propri nemici […] per molti aspetti peggio degli altri») e avrebbero alla fine prodotto un «risultato non […] diverso» (Oltre il Novecento, pp. 13, 236, 20). Sta qui il nòcciolo della discussione, non in etichette più o meno appropriate. Lo stesso Revelli pare riconoscerlo, dal momento che si fa scrupolo di definire il comunismo e il fascismo «non solo non assimilabili ma neppure confrontabili» tra loro (il manifesto, 2 marzo 2001). Senonché – lo si è visto – le sue stesse parole sembrano smentirlo, per cui non sorprende che anche altri abbiano colto nel suo libro una «sorta di equiparazione nazismo–comunismo» (Barbarossa, Liberazione, 18 marzo 2001). E che persino una lettrice nei suoi confronti non certo pregiudizialmente maldisposta come Rossana Rossanda abbia individuato nella «tesi più recente di Marco Revelli» un tentativo di costituire una profonda analogia tra comunismo e nazifascismo, in base alla quale il primo si sarebbe risolto in «un totalitarismo del lavoro non meno devastante dei totalitarismi del superuomo o della razza» (la rivista del manifesto, marzo 2001, p. 4). Qui emerge il vero nòcciolo della disputa, occultato dal clamore della querelle sul «revisionismo».
Il libro di Revelli contiene una durissima requisitoria nei confronti dell’esperienza storica del movimento operaio e comunista. Ciò ha indotto Luigi Pintor a definirlo, com’è noto, «il libro più organicamente anticomunista che [egli] abbia letto» (il manifesto, 20 febbraio 2001). Ma la requisitoria di Revelli non prende corpo sulla base di un’analisi storica, dell’esame di fatti, processi, conflitti, ideologie. È un a priori, costituito sullo sfondo di una filosofia della storia nella quale il «comunismo novecentesco» ha una funzione paradigmatica. Posto che il Novecento ha visto il trionfo di una feroce e assurda violenza demiurgica, il comunismo sarebbe stato «il più clamoroso successo dell’homo faber», «la più drammatica conferma dei suoi deliri», «la replica estrema e totalizzata di ciò che aveva dichiarato di voler combattere» (Oltre il Novecento, pp. 269-70). Di qui l’esigenza di istituire parallelismi forzati e imbarazzanti per lo stesso autore. Ma di qui anche l’occasione perduta per un confronto serio su un passato pieno di luci e di ombre, con il quale i conti restano aperti. Non ci si è divisi, come pure si è cercato di far credere, tra implacabili critici dei crimini di Stalin e Pol Pot o della degenerazione burocratica delle «repubbliche socialiste» e nostalgici difensori di un’esperienza storica troppo grande e tragica per essere liquidata in poche sommarie battute. Si è parlato d’altro, ancora una volta, perché, ancora una volta, alla faticosa strada dell’analisi storica, si è preferita la scorciatoia della liquidazione e della sentenza sommaria: di una criminalizzazione certo più consona allo spirito dei tempi, probabilmente anche più utile a fini politici immediati, ma di sicuro sterile sul piano culturale e della rifondazione del movimento di classe nel nostro paese.
Una requisitoria
contro la modernità

L’accentrarsi della polemica sulla comparazione tra comunismo e fascismo ha sortito un secondo effetto negativo: come ha reso difficoltoso chiarire la natura ideologica piuttosto che analitica del giudizio di Revelli sul comunismo, così ha ostacolato il riconoscimento della tesi centrale del suo libro. Anche in questo caso, prima di giudicare sarebbe opportuno cercare di intendere. E per questo occorre sforzarsi, in primo luogo, di porre in risalto le rispettive posizioni, di descrivere i diversi quadri di riferimento.
Come suggerisce il suo stesso titolo, Oltre il Novecento non è un libro sul comunismo ma su tutto un secolo, del quale, come si è appena detto, il comunismo appare a Revelli emblema. La tesi, ormai stranota (e tutt’altro che inedita, se si pensa agli scritti di Adorno e Horkheimer, di Anders e dello stesso Heidegger), è enunciata con chiarezza già nelle prime pagine. Il Novecento è stato «il secolo più cruento della storia», l’epoca in cui ha dilagato l’inumana ferocia della «razionalità strumentale»; ne è risultata una “sistematica “eterogenesi dei fini”», per cui il dissennato sogno del pieno controllo dell’uomo sulla natura si è rovesciato nell’incubo dell’autonomia della Tecnica e della incontrollabilità dei suoi esiti; di tale atroce nemesi Auschwitz, Hiroshima e il comunismo (non il solo Gulag) costituiscono “tre casi esemplari” (Oltre il Novecento, pp. 8, 11-4). Per quale ragione? Perché in essi, e soprattutto nel «comunismo novecentesco», si condensa e manifesta nel modo più devastante la vera malattia della modernità: la «smisurata volontà di potenza» e l’«insaziabile libido di dominio» della Politica, che a sua volta si riflette nella pretesa di produrre «la Storia […] secondo gl’imperativi di un costruttivismo totale» e nel feticismo del Lavoro e dell’Or-ganizzazione, onde l’«estensione all’intero corpo della società del sistema di fabbrica» e la concezione del Partito come «luogo in cui il processo di produzione della società – il processo “rivoluzionario” – viene diretto, sorvegliato e garantito nel suo esito secondo criteri organizzativi del tutto simili […] a quelli del sistema di fabbrica» (ivi, pp. 38, 221, 262, 267).
Quale sia il vero bersaglio di questa complessa struttura inquisitoria non emerge tuttavia fino a quando Revelli non nomina gli eroi positivi della sua ricostruzione, quelle «ombre del futuro» che evocano ai suoi occhi una storia diversa, libera dal «segno del lavoro» e dal suo «volto ferrigno» (ivi, p. 278). A connotare tali «ombre» è un «intreccio di emotività e ragione, di corporeità investita e d’immaginazione mobilitata», una naturale «concretezza e “densità”» che sovverte l’astrattezza degli apparati, ne sconvolge la tendenza omologante e ad essa oppone l’autonomia delle identità e il loro «libero gioco»: di qui il ripudio della «retorica del “soggetto collettivo”» e della «vecchia, cara alla sinistra – a tutte le sinistre – “teoria del soggetto”»; di qui anche, in positivo, la trasfigurazione del passato: la celebrazione della «eterogeneità premoderna», il richiamo nostalgico alle «consolidate abitudini di auto-produzione e di consumo comunitario», l’evocazione di un’epoca mitica informata da «quei rapporti di reciprocità nei quali, ancora, dietro le cose si “vedevano” le persone» e nella quale «l’“intimità delle cose”» non era ancora andata «definitivamente perduta» (ivi, pp. 284-6, XIII, 48, 73-4, 76, 79).
Se si ripercorrono con la dovuta attenzione i passaggi che scandiscono questo attacco contro l’astratto nel nome del concreto (contro la superbia della ragione nel nome della tradizione e della coesione sociale), appare chiara l’alternativa ideologica e politica che essi implicano, un’alternativa del resto non nuova, che ha accompagnato l’intera storia del movimento operaio e ne ha puntualmente scandito le fasi di più acuta crisi. L’attacco sferrato oggi al Novecento utilizza le stesse armi ieri impiegate da anarchici e «socialisti reazionari» nella denuncia della violenza sradicante della modernità borghese e del capitalismo, letti univocamente come sinonimi di regresso e di una barbarie non suscettibile di trasformazione. E non è nuovo nemmeno il responso teologico che si oppone a tale presunta inemendabile violenza, quel «lungo esodo» verso isole sottratte «alla logica dell’utile» in cui oggi si scorge la via di fuga dal dominio borghese e che già un secolo e mezzo addietro parve a Proudhon l’unico possibile percorso salvifico. Tutto questo si può sintetizzare nell’idea che contro il capitale sia possibile combattere solo dagli «anfratti della società» nei quali le «grandi potenze economiche non riescono a penetrare», e che sia invece un errore letale credere ancora, secondo «la tradizione del comunismo novecentesco», che si tratti di «costruire una potenza eguale e contraria a quella dell’avversario» (Revelli, intervista a Liberazione, 2 luglio 2000).

Punti di vista

Questo è uno dei punti di vista nel campo della «sinistra critica» oggi. Non è certo obbligatorio criticarlo, ma è necessario almeno prenderne coscienza, senza agitazione. Di contro sta l’idea fondamentale di Marx e del movimento operaio moderno: che il lavoro vivo sia il motore della riproduzione, quindi costituisca (proprio perché le funzioni produttive vengono formalizzate, cioè rese sempre più omogenee e indipendenti dalla specificità dei settori produttivi) il soggetto potenziale della propria liberazione e della trasformazione progressiva della società; che il possibile superamento del capitalismo implichi il mutamento del modo di produzione oggi dominante, quindi richieda la capacità di organizzare il mondo del lavoro, di costruirvi coscienza, soggettività collettiva, strutture di rappresentanza e di lotta in vista della socializzazione dei mezzi di produzione e dell’autonomia dei produttori immediati.
Si obietterà: ma il lavoro è cambiato, il salariato classico deperisce e si deterritorializza, le contraddizioni si complicano, c’è l’ambiente, il genere, la globalizzazione, lo scontro tra culture. Chi lo nega? Ma se il capitalismo è capitalismo, tutto questo muta le forme del problema, non i suoi termini essenziali. E non è serio precipitarsi ad evocare il nuovo per non dovere dire se si ritiene che i rapporti sociali obbediscano o meno ancora alla legge del valore e che quindi il conflitto tra lavoro vivo e capitale – la lotta di classe – rimanga o meno ancora il terreno cruciale. A questo riguardo va riconosciuta a Revelli una indiscutibile onestà intellettuale. Da anni egli sostiene a viso aperto le proprie convinzioni, delle quali nessuno potrebbe contestare la legittimità. Quel che si vorrebbe è che quanti affermano di condividerle ne traggano a loro volta le conseguenze, dichiarando essi pure coraggiosamente di ritenere che la storia del movimento operaio è conclusa, che le sue organizzazioni (partito e sindacato) servono ormai soltanto a imprigionare i subalterni nella logica del dominante, che il lavoro è «finito», che le contraddizioni stanno altrove, che è possibile costruire un’altra società nelle pieghe di questa, sottrarsi con un atto di ribellione alla catena del valore, liberarsi qui e ora facendo leva sui nobili impulsi della gratuità e del solidarismo. Una simile presa di posizione farebbe fare a tutti, a sinistra, un passo avanti verso la costruzione di rapporti più lineari, improntati al reciproco rispetto, e consentirebbe di orientarsi a quanti stentano a decifrare i codici spesso criptati del dibattito politico.
Ma proprio per questo non c’è da essere ottimisti. La lotta politica si serve di stereotipi e di suggestioni, di simboli e di mode, mentre il discorso razionale rischia di sciogliere appartenenze e vincoli di fedeltà. Allora, piuttosto che parlare francamente e dichiarare senza remore le proprie convinzioni, meglio ripetere formule come dischi rotti e simulare scambi di idee praticando un dialogo tra sordi.
Questo andamento del dibattito a sinistra non coinvolge soltanto i pochi interlocutori che oggi vi partecipano. E’ urgente che ci si interroghi sul generale stato di salute di una sinistra in grado ormai di concepire solo due strade: o assumere senza remore l’ideologia dell’avversario, introiettandone i valori e schiacciandosi sulla difesa dei suoi interessi; o demonizzarlo, scorgendo nel mondo in cui esso è dominante un vero inferno (il luogo del trionfo della “barbarie”…) e precludendosi così ogni via di costruzione di una concreta lotta sociale e politica. Il capitale, insomma, come dio o come incarnazione del diavolo: mentre rifondare il movimento di classe implicherebbe, al contrario, non dimenticare che il capitalismo è una forma della modernità, che quest’ultima non appartiene al capitale, che essa racchiude in sé generali potenzialità emancipatorie, che va conquistata, liberata dal dominio particolaristico delle classi dominanti e restituita all’intera collettività che l’ha costruita nel corso del tempo con il proprio lavoro. A partire da qui soltanto si può rilanciare una cultura e, forse, una pratica di conflitto. Mentre non si costruisce nulla – se non subalternità e isolamento – continuando a scambiare questo mondo per il teatro di un Capitale Onnipotente.