Verso una “Bolognina” del PCF?

Puntuali come sempre i risultati delle elezioni francesi hanno riaperto sulla stampa di destra e di sinistra la stagione della caccia. La preda è sempre la stessa: i comunisti. Dati ripetutamente per spacciati riappaiono negli incubi onirici di molti gazzettieri che, senza un minimo di pudore autocensorio, ci ripropongono gli stessi titoli e gli stessi scenari usati senza esito da oltre un decennio. La Stampa di Torino del 20/3 titolava a tutta pagina: Disfatta dei comunisti nei feudi operai. All’ ultimo atto il declino del PCF. Sembra ormai inevitabile il cambio di nome e di leadership. El Pais del 21/3: Disastro dei comunisti francesi. Sulla stessa linea Liberation e molti altri giornali francesi, italiani e spagnoli. Dunque le reiterate operazioni di restauro compiute dal PCF e la “mutation” decisa al congresso di Martigues del marzo 2.000 non sono bastate: esso viene ancora e sempre percepito e descritto come un reperto preistorico mummificato, vissuto in epoca remota e barbara, nel 1900 d.C., tuttora in attesa che i suoi lontanissimi discendenti ricoprano con una pesante lastra tombale le sue misere spoglie.
Sul versante opposto la stampa di sinistra – Manifesto in prima fila – (ma anche Liberazione con alcuni dei suoi commenti, non tutti) mentre mostrano un sottinteso compiacimento per la sconfitta degli eredi di Marchais, noncuranti del significato dei numeri, non risparmiano i toni trionfalistici e gli eccessi apologetici verso coloro che vengono considerati i vincitori della competizione: i verdi di Cohn-Bendit, l’estrema sinistra di LCR e Lutte Ouvrière (LO) e le liste alternative Motivèes. Lascio immaginare i salti di gioia se il nostro PRC ottenesse alle elezioni del 13 maggio lo stesso 10% ottenuto dal PCF alla cantonali francesi.
Ritornando con i piedi per terra si può cominciare col dire che il voto del 13 marzo vede sfumare l’illusione diffusa dai sondaggi che la Francia di Lionel Jospin fosse ormai diventata l’esempio europeo e mondiale di buona amministrazione, di equità sociale, di grande laboratorio politico della sinistra, e di avamposto contro le tentazioni nazional-populiste e xenofobe della nuova destra europea. La sofisticata macchina francese dei sondaggi è incappata in un flop clamoroso. La prevista “grande onda australiana” della gauche plurielle non si è vista. Le cifre parlano chiaro. Nelle elezioni municipali a doppio turno la destra chirachiana, sebbene litigiosa e divisa, non solo ha tenuto ma é riuscita a progredire riportandosi a casa molti dei voti che in elezioni precedenti erano diventati appannaggio del Fronte Nazionale di Le Pen. Il quale, invece, perde parecchi punti percentuali subendo un pesante rovescio nel suo santuario più esclusivo, Tolone, dove il sindaco lepenista Chevalier è crollato dal 30 al 7 % scomparendo nel nulla.
Sebbene un raffronto tra i singoli partiti, in termini di voti assoluti, sia difficile da compiere sui risultati delle municipali, nelle quali prevalgono schieramenti compositi di coalizione, è tuttavia possibile individuare vincitori e perdenti conteggiando le poltrone di sindaco assegnate nei comuni con più di 15 mila abitanti, dopo il secondo turno. Rispetto ai risultati precedenti la sinistra plurale passa da 301 sindaci a 259 (-42), la destra da 278 a 318 (+40), Le Pen da 4 a 3 (-1). La distribuzione dei sindaci all’interno della coalizione di sinistra presenta invece queste differenze: il PCF passa da 74 a 51 (-23), ì socialisti da 177 a 170 (-7), altre liste varie di sinistra da 49 a 36 (-13), i verdi da 1 a 3 (+2), l’estrema sinistra resta a zero
Interessante osservare che nella regione del Pas de Calaís, considerata la roccaforte rossa dei comunisti non pentiti, oppositori della “mutation”, si manifesta una tendenza diversa: il PCF tiene sostanzialmente, passando da 14 a 13 sindaci (-1), i socialisti conservano i loro 36, la destra passa da 27 a 28 (+1).
L’insieme dei dati delle municipali mostra una sostanziale tenuta dei socialisti, un arretramento non catastrofico dei comunisti e un tendenziale aumento della destra dovuto al rientro a casa di ex elettori di Le Pen sensibili al richiamo chirachiano del voto utile. La novità più importante per la sinistra di governo, almeno sul piano dell’immagine, è stata la conquista della prestigiosa poltrona di sindaco di Parigi (e quella di Lione) dopo decenni di dominio incontrastato delle destre. Il quadro complessivo presenta tuttavia una destra in fase di crescita unificante, con i socialisti sostanzialmente fermi, mentre il PCF risulta essere il più penalizzato dei partiti di governo. Un quadro poco rassicurante per la gauche plurielle in vista delle elezioni presidenziali e politiche del 2002.
Più difficile valutare i risultati ottenuti alle municipali dalle liste di estrema sinistra (LCR e LO) che pur avendo ottenuto risultati importanti sono riuscite a presentarsi solo in poche municipalità con più di 3500 abitanti: su un totale di 2600 comuni andati alle urne, la LCR è riuscita a presentarsi in 75, LO in 128. Il che segnala una notevole difficoltà a radicarsi nel territorio. Il solo dato di raffronto nazionale disponibile è quello proposto dai sondaggi relativi alle prossime presidenziali, che attribuiscono alle due liste congiunte un confortante 6% (+0,8% rispetto alle europee del 99). Ancora più difficile il giudizio sulle liste alternative Motivées che, al di là dei buoni risultati ottenuti a Tolosa, Rennes e Bordeaux, risultano insignificanti sul piano elettorale complessivo.

Diversamente dalle municipali, le elezioni cantonali svoltesi nel 50% dei collegi (metà del territorio francese), con un sistema prevalentemente proporzionale, su liste di partito, consentono invece un raffronto più agevole con analoghi risultati procedenti. La sinistra plurale esce rafforzata nel suo complesso aumentando dal 40,4% al 45,8% (+5,4%).
Il PCF raccoglie poco più del 10% con un calo del 1,5%. I socialisti rimangono sostanzialmente stabili passando dal 23,3% al 22,4%.
I verdi, presentatisi da soli in 776 cantoni su 1932, raccolgono il 6% contro il precedente 2,6%. L’estrema sinistra (LO, LCR) raccoglie lo 0,6% contro lo 0,1 precedente.
Da questi dati risulta del tutto arbitrario presentare come un “crollo” la flessione del PCF, ma anche del tutto prematuro promuovere i verdi come secondo partito della coalizione dietro i socialisti.
Parimenti ingannevole enfatizzare contro misura il pur apprezzabile risultato ottenuto dalla liste della sinistra estrema, nelle poche situazioni in cui si sono presentate.
Visti in dettaglio i risultati numerici delle cantonali presentano un quadro analitico della sinistra di classe più attendibile.
Il PCF ottiene 1.800.000 voti con una perdita di circa 200 mila voti (-1,5%) rispetto al 1994. L’estrema sinistra, LCR e LO, presentata in alcuni audaci commenti come la grande beneficiaria di questa perdita, raccoglie 60 mila voti che ovviamente includono anche il suo elettorato di sempre. Essa dunque intercetta solo una minima parte dei 200 mila voti persi dal PCF (alcuni studi indicano che solo un elettore su cinque dell’estrema sinistra proviene dal PCF).
Sebbene a risultato acquisito si tenti di ridimensionarne la valenza politica generale, è fuori di dubbio che la colazione di governo, incoraggiata da sondaggi compiacenti, si è convinta che queste elezioni fossero il banco di prova del possibile sfondamento alle presidenziali e alle politiche del 2002.
Non a caso ben tre ministri in carica, più un quarto dimissionario, si sono presentati candidati alla carica di sindaco: Jean-Claude Gayssot, del PCF, nella città di Bezier; la verde Dominique Voynet a Dole, la socialista Elizabeth Guigon nella città di Avignone e, infine, Martine Aubry in quel di Lilla.
I primi tre sono stati nettamente battuti dai canditati di centro destra, mentre la quarta, Martine Aubry, pur essendo candidata in una roccaforte storica della sinistra, e pur rimanendo in netto vantaggio, ha perso sei punti percentuali rispetto a sei anni fa. A questi vanno aggiunti i rovesci inattesi subiti dalla sinistra plurale a Rouen, Tours, Orleans e Strasburgo nonché la sconfitta di un altro candidato socialista eccellente, Pierre Moscovici, ministro degli affari europei, nel collegio di Monbeliard.
Il responso emerso da questi test che hanno visto impegnati in prima persona i ministri di Jospin lascia pochi dubbi sul malcontento espresso contro il suo governo. La polemica interna alla coalizione è pertanto divampata: “La gauche -plurielle ha fatto il suo tempo” dichiara l’ex ministro degli interni di Jospin, Chevennement, che rivolto ai comunisti chiede “se non sia giunta l’ora di cambiare strada dal momento che la politica del governo è visibilmente dettata da un asse privilegiato socialisti-verdi”.
Gli fa eco Alain Bocquet, presidente dei deputati comunisti all’ Assemblea Nazionale e autorevole dirigente dal partito: “Le municipali costituiscono un serio allarme per la sinistra” … “l’azione del governo è troppo debole e reticente verso le attese del mondo del lavoro e dei quartieri popolari”…”il PCF non può più :rinchiudersi dentro l’orizzonte della gauche plurielle”.
L’esito di queste elezioni merita una riflessione attenta di tutta la sinistra europea. Appare più che evidente il divario tra il giudizio ottimistico, espresso a volte con enfasi eccessiva al dì quà delle Alpi, sulle politiche e sul programma sociale del governo di Lionel Jospin (assunto a volte come modello contrapposto a Prodi e D’Alema), e quello dei suoi compatrioti che, benché potenziali beneficiari di quel programma lo hanno invece pesantemente bocciato votando per altre liste critiche, ma sopratutto astenendosi. La troppo conclamata diversità tra il “socialista” Jospin e il “neoliberista” D’Alema si è rivelata una bolla di sapone. Pur con differenze che vanno colte, entrambi hanno operato su un progetto di ristrutturazione capitalistica con un approccio che presenta molte analogie. La privatizzazione delle aziende di Stato iniziata in Francia da Juppé è stata proseguita da Jospin che, a differenza di D’Alema e Amato ha saputo gestirla con maggiore acume e delicatezza spennando l’oca senza farla troppo strillare, ma con risultati tendenzialmente simili: nuova occupazione (poca), precarietà (tanta), salari (fermi), 35 ore annualizzate a misura di Medef (la Confindustria francese) gestite per lo più dalle imprese come strumento di maggiore flessibilità nell’uso della forza lavoro. E per giunta una sporca guerra contro la Jugoslavia, dove in alcuni momenti la Francia è apparsa su posizioni più oltranziste rispetto ad es. al governo italiano.
La delusione è dilagata e l’astensionismo ha raggiunto in Francia il suo livello più alto (33%), Nei quartieri operai e nelle periferie urbane raggiunge il 50%. Ancora più alta l’astensione tra i giovani: il 53% nella fascia tra 18 e 24 anni. Raggiunge il 40% tra gli operai dell’industria mentre cala al 20% tra gli anziani di 60/70 anni e tra gli agricoltori, gli artigiani e i commercianti.
Il PCF riconosce apertamente che, più che lo spostamento dei suoi elettori verso altre liste (trascurabile percentualmente), è stato l’astensionismo a incidere pesantemente sul suo elettorato. Solo una esigua minoranza (0,3%) ha espresso la sua protesta “contro” votando per le liste di estrema sinistra o per i verdi.
Il segretario del PCF Robert Hue ha giudicato questo risultato “molto deludente”. Le elezioni sono state in effetti un test preoccupante perché arriva dopo il cogresso di Martigues che ha visto la maggioranza del gruppo dirigente schierata su posizioni sempre più moderate e su una prospettiva di “mutation” delle proprie radici di classe e internazionaliste che lo hanno trascinato in una profonda crisi di identià, senza peraltro procurare consensi tra gli elettori moderati che hanno invece preferito votare per i verdi di Cohn Bendit, giudicati più coerenti con il revisioniamo di destra del suo leader voltagabbanna.
Sintomatico invece che i migliori risultati il PCF li abbia ottenuti proprio nella banlieu operaia di Parigi, nella regione del Pas de Calais (la cui federazione aveva respinto le tesi congressuali sulla “mutation” con uno schiacciante 80%) e nella federazione di Val de Marne, storica roccaforte di Marchais. Il che conferma che la svolta mutante decisa dalla maggioranza al Congresso di Martigues ( con una opposizione interna valutabile attorno al 20-30% e una dialettica irrisolta all’interno della maggioranza, tutt’altro che omogenea) si è rivelata un inquietante boomerang.
La rottura con la propria storia e la cancellazione della storica identità sta spegnendo i grandi ideali che hanno alimentato per un secolo le grandi battaglie politiche e sociali del movimento operaio francese. Il PCF rischia di rendersi irriconoscibile agli occhi della propria base sociale. Le continue autoflagellazioni e i troppi passaggi in lavatrice della tradizionale linea classista e internazionalista, anziché convincere nuovi elettori, hanno trascinato il partito in una profonda crisi di militanza con il conseguente calo, oltre che dei voti, anche degli iscritti, scesi dai 500 mila della gestione Marchais ai 120 mila attuali. I cardini di questo processo involutivo, che in Francia si chiama “mutation”, si presenta anche altrove con motivazioni molto simili: fine della centralità operaia, superamento della forma partito, esaurimento della funzione storica del movimento comunista. Chi ha letto il libro di Marco Revelli sa di cosa stiamo parlando (agli altri suggeriamo letture più incoraggianti).

Il congresso straordinario del PCF, convocato per il 26-28 ottobre prossimi, sarà un passaggio cruciale per i comunisti francesi. Il confronto fra le tre tendenze principali non sarà un pranzo di gala.
Un saggio del tasso di conflittualità interna viene offerto da due inconsueti episodi elettorali. Nel comune di Aubervilliers (Ile de France) il Pcf si é presentato agli elettori con due liste distinte e contrapposte: quella guidata da Jack Ralite (rifondateur “di destra”) che ha ottenuto il 37,7%, e quella guidata da Jean-Jaques Karman (oppositore della “mutation”) che ha ottenuto il 23,5%.
Il secondo episodio indicativo quello accaduto ad Avion (Pas de Calais), comune di 20 mila abitanti. Il PCF locale benchè si opponga con una maggioranza schiacciante alla “mutation” si è presentato con due liste separate: una guidata da compagni contrari, ma più dialoganti, ottiene il 34,1%; l’altra guidata da compagni più arrabbiati contro la svolta moderata ottiene il 45,5%. Entrambe le liste vanno al ballottaggio e vince la seconda col 51% del voti.
La maggioranza del gruppo dirigente del partito sembra comunque determinata a proseguire per la sua strada. Nella lunga intervista rilasciata all’Humanitè il 23 marzo scorso, il segretario Robert Hue, benché preoccupato, sembra deciso a spingere fino in fondo la “mutation” quando dichiara “non dobbiamo sopratutto fermarci a metà del guado”. Parole già sentite in Italia nella fase precedente la Bolognina. C’è chi parla di cambiare nome al partito, con la denominazione di Nuovo Partito Comunista: una formulazione che evoca il “nuovo Pci “occhettiano del 18° congresso del 1989. Speriamo bene.
Ancora più liquidatoria la tesi proposta dai “refondateurs”, la tendenza “di destra” che vuole sciogliere il partito per fondarne uno nuovo che sia poco comunista e molto “alternativo”, radicale, deideologizzato, interclassista, imperniato più sui nuovi soggetti e movimenti (modello Seattle) che sulla classe operaia. E che considera superata la stessa “forma partito”.
Radicalmente diversa la posizione della sinistra (interna ed esterna alla maggioranza) che ha animato, guidato e vinto la riscossa elettorale dei comunisti nelle roccaforti rosse del nord e in alcune periferie operaie della banlieu parigina, manifestando apertamente un atteggiamento critico verso il governo Jospin, rivendicando una maggiore autonomia dei comunisti, ed anche il possibile ritiro dei ministri del Pcf dal governo se la sua politica non dovesse cambiare. Invitano il partito ad invertire la tendenza, a rendersi più sensibile ai bisogni e alle speranze della classe che rappresenta, meno liquidatorio del bilancio storico dentro il quale è nato e cresciuto diventando uno dei grandi partiti comunisti in questa parte del mondo. Pur sensibili ai risultati non banali conseguiti dall’estrema sinistra, dalle liste alternative Motiveés e dalle frange di sinistra dei verdi, i comunisti restano convinti che il PCF, con il suo 10% di consensi elettorali e l’esperienza storica di cui dispone, possa ridiventare il motore aggregante di una ricomposizione comunista su basi classiste, internazionaliste e antimperialiste. Capace di rinnovarsi e aprirsi alle nuove problematiche del 21° secolo, senza rinnegare se stesso.