Verso il XVI° Congresso del Partito Comunista Cinese

1. Il Partito Comunista Cinese (PCC) si avvia a celebrare il suo XVI congresso. In termini politici generali, almeno nel breve periodo, pochi si aspettano grandi sorprese: con ogni probabilità, il congresso si svolgerà all’insegna della continuità, confermerà la linea pragmatica post-dengista portata avanti finora dal gruppo dirigente guidato dal segretario generale Jiang Zemin, e sancirà il passaggio di consegne dalla “terza generazione” attualmente al potere alla “quarta generazione”, costituita da quadri formatisi all’epoca della rivoluzione culturale. Le maggiori incognite riguardano, da una parte, l’esito delle rivalità personali tra i vari dirigenti dell’una e dell’altra generazione, e dall’altra la valenza politica sostanziale della teoria delle “Tre Rappresentanze” che Jiang Zemin sta propugnando come bandiera ideologica del Partito all’inizio del XXI secolo. Considerando le tradizioni del PCC e tenendo conto che – pur senza affatto voler minimizzare la vastità delle sfide che il paese si trova ad affrontare – la Cina non attraversa attualmente un’epoca di crisi, è facile prevedere che il congresso sancirà formalmente la teoria delle “Tre Rappresentanze”, ma l’impatto effettivo di quest’ultima dipenderà in modo decisivo dai rapporti di forza che verranno a crearsi tra i gruppi di quadri che aspirano alle più alte cariche del Partito e dello Stato. In questo articolo, evitando ogni tentativo di giocare al “toto-dirigenti” (esercizio che è preferibile lasciare ai numerosi sinologi occidentali), si cerca di interpretare il reale significato politico della teoria delle “Tre Rappresentanze” e di quello che sembra essere il suo nocciolo duro più controverso, cioè la possibilità per gli imprenditori privati di essere ammessi come membri del Partito.
Secondo la teoria delle “Tre Rappresentanze”, “il Partito Comunista deve rappresentare le forze d’avanguardia della produzione, la cultura più avanzata e i più ampi interessi delle masse, incoraggiando la partecipazione popolare a partire da tutti i livelli della società per trasformare la Cina in un moderno paese socialista” (China Daily 07/12/2002). Coerentemente al carattere ecumenico che il Partito dovrebbe assumere, il segretario generale Jiang Zemin, in un discorso tenuto il 1 luglio 2001, ha sostenuto che il PCC dovrà accettare tra le sue fila anche gli imprenditori privati. Ma questa proposta ha suscitato la dura opposizione di un settore significativo – anche se difficile da quantificare – del Partito, culminata nella circolazione della “Lettera dei Quattordici”, indirizzata al Comitato Centrale e firmata da 14 membri anziani. Data l’importanza della lettera, vale la pena di citarne le parti essenziali1.

«La proposta che i capitalisti, che personificano il Capitale, siano accettati nel Partito, ha immediatamente causato enorme confusione tra i membri del Partito… Su una così importante questione di principio che riguarda…il destino stesso del Partito e dello Stato, il Compagno Jiang Zemin ha proclamato in gran fretta …una posizione che non era stata considerata e adottata dal Congresso del Partito… Questo è un tentativo smaccato di manipolare le opinioni dei membri del Partito… Noi, un gruppo di vecchi membri del Partito, abbiamo il dovere di dichiarare chiaramente la nostra posizione e di proporla al Comitato Centrale, esercitando i nostri diritti in conformità con lo Statuto Basico del Partito. Dichiariamo solennemente che ci opponiamo con fermezza e senza riserve alla proposta che i proprietari di aziende private siano ammessi come membri del Partito. Crediamo che la posizione del Compagno Jiang Zemin su questa questione sia completamenente sbagliata, per le ragioni seguenti:
Primo, contraddice la teoria marxista del partito proletario… il Compagno Jiang tenta di offuscare la natura sfruttatrice dei proprietari di aziende private mischiandoli insieme con vari segmenti della classe operaia, con il pretesto di “approfondire” la comprensione della teoria del valore. Questo non è affatto un “rinnovamento creativo” del marxismo, ma piuttosto una chiara negazione dei suoi principi fondamentali…
Secondo, (la proposta) contraddice i programmi del nostro Partito e il suo Statuto Basico…
Terzo, il Compagno Jiang ha agito in violazione della disciplina di partito…
Quarto, ha agito contro la volontà del Partito e dello Stato… (I proprietari di aziende private)… possono candidarsi a diventare membri di altri partiti democratici… possono essere scelti come membri del Comitato Politico Consultivo del Popolo Cinese o come deputati del Congresso del Popolo Cinese, che rientrano tutti nell’ambito del lavoro del Fronte Unito. Se degradiamo il nostro partito al livello delle organizzazioni del Fronte Unito, indeboliamo non solo il Partito ma anche il Fronte Unito.»2 (Monthly Review, 2002, b).

2.Queste drastiche critiche, definite dalla Monthly Review come rappresentative della “opposizione interna al PCC a una ulteriore estensione di rapporti sociali capitalistici in Cina” (Monthly Review 2002, a), furono ribadite poco dopo in una lettera di carattere più teorico, indirizzata “al Compagno Jiang Zemin e al Comitato Centrale del Partito” da Ma Bin e Han Yaxi, due dei firmatari della prima lettera (Monthly Review, May 2002, c). Secondo indiscrezioni filtrate sulla stampa internazionale, a questa manifestazione di dissenso è seguita una complessa lotta politica interna, dall’esito ancora incerto3. Tenendo evidentemente conto delle resistenze emerse all’interno del Comitato Centrale, Jiang Zemin ha ulteriormente elaborato la ” Teoria delle “Tre Rappresentanze” in un discorso ricco di riferimenti al socialismo e alla necessità di sviluppare creativamente il marxismo, tenuto alla Scuola Quadri del Partito il 31 maggio 2002. Secondo Jiang, la Cina è ormai «entrata in una nuova era di sviluppo nella costruzione di una società del benessere… per costruire il socialismo con caratteristiche cinesi… Per il sistema economico socialista è fondamentale avere come nucleo la proprietà pubblica, sviluppandola insieme a varie altre forme di proprietà… il PCC è arrivato a questo sistema dopo un lungo periodo di costruzione del socialismo, e vi rimarrà fedele… La promozione di politiche socialiste democratiche è un importante obbiettivo del cammino della Cina verso la modernizzazione socialista… mentre continua ad aderire ai Quattro Principi Cardinali4… la Cina non copierà mai il sistema politico occidentale…
La Cina deve… accelerare il passo dello sviluppo della modernizzazione socialista… il Partito (deve) unire tutto il popolo di tutte le nazionalità… Il Partito deve tener conto dei profondi cambiamenti (verificatisi) dall’epoca della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista scritto da K. Marx e F. Engels circa 150 anni fa, come pure dei fondamentali cambiamenti nella costruzione socialista della Cina… è sbagliato e dannoso negare la natura del Marxismo ma il PCC deve sviluppare il Marxismo e applicarlo alla pratica… la natura del Partito può essere confermata solo dalla storia…» (China Daily 05/31/2002)5.
Un altro interessante documento accessibile agli osservatori occidentali è costituito da un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista teorica del PCC Qiu Shi (La ricerca della verità), i cui contenuti sono stati significativamente anticipati in luglio dal China Daily (China Daily 12/07/2002). L’articolo afferma che gli imprenditori privati, molti dei quali hanno creato posti di lavoro e contribuito allo sviluppo del paese, «non diventeranno una nuova classe sociale”. Essi appartengono a “un nuovo strato sociale, ma non a una nuova classe indipendente… I lavoratori mantengono la loro posizione come classe dirigente della Cina. Il numero crescente di imprenditori privati e piccoli commercianti… non costituirà una nuova classe per conto suo, perché, in una economia socialista, lo stato controlla le strutture vitali dell’economia. Nella Cina moderna i conflitti di classe sono obsoleti, perchè tutte le classi sociali condividono gli stessi interessi… Nel quadro della teoria delle “Tre Rappresentanze”…il Partito deve incoraggiare la partecipazione da tutti i livelli della società per trasformare la Cina in un moderno Paese socialista»6.

3. In un recente articolo, il Financial Times, dopo aver definito la teoria delle “Tre Rappresentanze” “fumosa” e di difficile comprensione per la maggior parte dei cinesi, offre una facile spiegazione: secondo l’illustre giornale britannico, infatti, gli esperti di scienze politiche dicono che “eliminando ogni riferimento alla dittatura del proletariato, (la teoria) indica che la ragion d’essere del Partito, d’ora in poi, sarà quella di servire coloro che hanno successo” (Kinge 2002). Ho citato integralmente questo paragrafo perchè mi sembra rappresentare un’ottima sintesi dell’interpretazione più diffusa della teoria delle “Tre Rappresentanze”, sia in Occidente, dove viene accolta per lo più con ironica soddisfazione dai commentatori borghesi, sia in alcuni settori critici dello stesso PCC, che al contrario l’avversano con grande determinazione.

I nuovi imprenditori rappresentano una nuova classe in senso classico?

In realtà, in ogni vicenda politica e sociale nella quale sia coinvolto qualcosa di più del semplice opportunismo dei politici di mestiere, il rapporto tra teoria e prassi non è mai semplice e lineare. Con un termine spesso abusato si può continuare a definirlo dialettico, per sottolineare soprattutto che non vi è un rapporto logico e gerarchico univoco tra l’una e l’altra, con la teoria, prodotto della pura analisi razionale e scientifica della realtà, che comanda alla prassi come un generale ai suoi soldati. Al contrario, la teoria costituisce una visione parziale, limitata e mutevole della realtà, e deve continuamente rigenerarsi e adattarsi al nuovo attraraverso la miriade di informazioni e di segnali provenienti dalla prassi. Il carattere dialettico del rapporto tra teoria e prassi deve essere tanto più forte in un partito rivoluzionario, o comunque in una organizzazione il cui scopo non è la conservazione dello status quo, ma la trasformazione della società. Tale trasformazione, idealmente, dovrebbe essere guidata da principi etici e criteri di desiderabilità e sostenibilità sociali, economici ed ambientali, che non possono non essere continuamente rivisitati e rielaborati alla luce delle concrete lezioni provenienti dalla realtà. Questo, naturalmente, nel mondo del dover essere: nel mondo reale il rapporto tra teoria e prassi non è mai perfetto, e oscilla continuamente tra gli eccessi opposti consistenti l’uno nell’attribuzione di un’eccessiva preminenza al polo della teoria (con i rischi concomitanti di dogmatismo, ideologismo, etc.) e l’altro nell’asservimento più o meno sfacciato della teoria alla prassi, che costituisce l’essenza dell’ opportunismo e delle forme più strumentali di revisionismo7.
Tenendo conto di queste osservazioni generali, una rilevante innovazione teorica proveniente dai vertici di un partito come il PCC, quali che siano le critiche che possono essergli legittimamente rivolte, non può certo essere paragonata ai miserabili farfugliamenti pseudo-teorici di un Blair o di un D’Alema. Un corretto approccio “scientifico”, al contrario, deve porsi innanzitutto e prioritariamente sul piano proprio della teoria stessa, discutendo apertamente la sua correttezza nell’interpretazione della realtà e nell’indicazione degli obbiettivi politici, economici e sociali da perseguire. Nel futuro non mancheranno certo le occasioni per verificare criticamente8 la coerenza della teoria con la prassi concreta del PCC e con l’evoluzione effettiva della società cinese.

4.Dopo questa premessa, lunga ma a mio parere necesaria data la delicatezza e la complessità del tema, propongo un’ipotesi interpretativa basata su due proposizioni che forse non tutti i compagni condivideranno, ma che a me sembrano dimostrate in modo evidente dall’esperienza storica.
Innanzitutto è indispensabile riconoscere che la famosa teoria di Mao secondo cui le contraddizioni di classe erano destinate ad acuirsi sempre di più dopo il trionfo della rivoluzione socialista – che costituì la principale giustificazione per il lancio della Rivoluzione Culturale – oltre ad essersi rivelata foriera di disastri, era semplicemente sbagliata, e anzi logicamente assurda. Grazie al completo9 successo della rivoluzione stessa (intesa, in questa sede, come “il rovesciamento violento di una classe da parte di un’altra classe”, e quindi come evento puntuale nel tempo, collocabile in Cina tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, e non come la totalità di un lungo e, al limite, infinito processo politico e sociale che dovrebbe portare una società a costruire forme sempre più avanzate di socialismo10) non esistevano nella Cina maoista classi sociali antagoniste in senso classico. Non esisteva una borghesia, spazzata via e privata dei mezzi di produzione. E quindi, necessariamente, non esisteva neanche un “proletariato” inteso in senso classico marxiano, poichè tale “proletariato” può esistere solo in quanto esiste una borghesia che lo sfrutta. Questo non significa che gli operai e i contadini fossero diventati ricchi, ma che si erano trasformati in due “strati” (o categorie, o gruppi sociali) che insieme costituivano la grandissima maggioranza della popolazione cinese. È necessario aggiungere inoltre che, malgrado lo straordinario livello di uguaglianza sociale raggiunto dalla Cina maoista, le differenze di condizione materiale tra operai e contadini erano molto rilevanti, tali da rendere la condizione degli operai più simile a quella dei (pochi) impiegati, intellettuali e quadri urbani di livello medio-basso che a quella dei contadini11. Ma interpretare i rapporti tra i gruppi sociali esistenti nella Cina maoista con le categorie elaborate da Marx per analizzare il capitalismo europeo del XIX secolo non avrebbe più senso scientifico che usare termini come casta, plebeo, ilota, che si riferiscono a formazioni economico-sociali del tutto differenti.

La seconda proposizione riguarda l’intuizione del gruppo dirigente “dengista”, secondo la quale il modello economico socialista tradizionale era in via di esaurimento (peraltro meno evidente in Cina che in altri paesi del “socialismo reale”), e che si rendevano quindi necessarie riforme radicali volte al passaggio graduale ad una “economia socialista di mercato”. Questa intuizione12 ebbe un evidente valore pragmatico, salvando la Cina (e gran parte delle residue speranze del movimento socialista mondiale ) dal caos della rivoluzione culturale, e avviandola verso una fase di straordinario sviluppo. A mio parere, tuttavia, essa costituisce anche una fondamentale e corretta innovazione teorica nella storia del movimento comunista internazionale, e come tale viene sempre più riconfermata dall’analisi scientifica della realtà economico-sociale, sia in Cina che in altri paesi socialisti.

5. è evidente, in modo solo apparementemente paradossale, che se queste due proposizioni sono vere, la loro inevitabile conseguenza è di entrare in contraddizione tendenziale l’una con l’altra, proponendo alla società postrivoluzionaria un cammino tutt’altro che lineare in cui, come scriveva Machado, “non c’è strada, la strada la si fa strada facendo”, e il futuro non è scritto una volta per tutte nei testi dei padri fondatori, ma deve continuamente essere rifondato secondo le lezioni sempre nuove dell’esperienza. Pur nel mantenimento di un quadro in cui la proprietà dei principali mezzi di produzione rimane pubblica, anche se prende forme sempre più varie, le riforme orientate alla ricostituzione di relazioni economiche di mercato e lo sviluppo sociale stesso della società postrivoluzionaria – in cui un accesso sempre più vasto e relativamente ugualitario all’educazione risulta in una acquisizione stratificata di sapere da parte di diversi individui e gruppi – creano forme nuove di reale differenziazione sociale. Le antiche masse di contadini analfabeti, protagoniste della Rivoluzione, si trasformano progressivamente in operai specializzati, tecnici, ingegneri, intellettuali, la cui produttività reale è sempre più disomogenea (e quindi, in base al principio socialista “a ciascuno secondo il suo lavoro”, dovrebbero essere remunerate in modo crescentemente diseguale)13. Le riforme orientate alla trasformazione della proprietà pubblica e alla creazione di mercati, incluso quello della forza lavoro, liberano un enorme potenziale produttivo, ma ricreano in parte relazioni economico-sociali di tipo capitalistico. Come risultato, parallelamente ad uno straordinario sviluppo delle forze produttive e ad un enorme miglioramento di lungo periodo del tenore di vita del popolo nel suo insieme (al di là dei gravi problemi sociali congiunturali, provocati dalla rapidità stessa dei cambiamenti), si assiste a un aggravarsi delle disuguaglianze, e al formarsi e cristallizzarsi di gruppi sociali che traggono significativi vantaggi economici dal controllo dei mezzi di produzione. Tale controllo è per lo più indiretto (mediante una posizione gerarchica elevata, o il dominio di competenze scarse, all’interno di strutture a proprietà pubblica o semi-pubblica, ma sempre più orientate e disciplinate dal mercato e dalle sue “leggi”14), ma in altri casi è anche diretto, e si esercita attraverso la proprietà privata. Non è quindi del tutto privo di fondamento (come lo sarebbe stato nell’epoca maoista), anche se a mio parere pur sempre non corretto, parlare del riformarsi di una vera e propria borghesia, a cui si contrapporrebbero masse lavoratrici alienate e in via di progressiva proletarizzazione.
Pur non palesemente infondata, tuttavia, tale conclusione è a mio parere esagerata e non corretta, tenuto conto di alcuni elementi chiave del quadro complessivo. L’intervento dello Stato nell’economia mantiene un carattere centrale e strategico. Le principali strutture produttive sono gestite attraverso imprese pubbliche e semipubbliche (in un quadro di rapporti di proprietà molto complesso e in via di continua trasformazione). Permangono barriere severe – anche se non assolutamente impermeabili – contro la concentrazione della terra e il diffondersi nelle campagne di rapporti sociali capitalistici. E il potere politico resta in mano al Partito Comunista.

6. E qui ritorno al tema centrale di questo articolo: quale ruolo per il Partito Comunista? Se l’analisi precedente è corretta, si deve riconoscere alla teoria delle “Tre Rappresentanze” una dignità, appunto, teorica, che troppi commentatori sembrano volerle sbrigativamente negare.

Partito “di classe” o partito “di tutto il popolo”?

Si prende atto, a più di cinquant’anni dalla Rivoluzione, che proprio in virtù di questo evento epocale in Cina non ci sono più classi sociali antagoniste in senso marxiano. Non ha quindi ragion d’essere una dittatura del proletariato – ormai inesistente come tale – ma solo la riconferma del potere di una grande forza nazionale che continua legittimamente a chiamarsi Partito Comunista, perchè continua ad essere fedele, pur nelle mutate circostanze, agli ideali di liberazione umana e di giustizia della Lunga Marcia, e che persegue il bene comune in cooperazione e armonia con le forze produttive e culturali più avanzate. E, naturalmente, solo un inguaribile luddista o roussoviano potrebbe sostenere che il “bene comune” possa ricercarsi senza promuovere lo sviluppo della cultura , della conoscenza scientifica e delle forze produttive più avanzate (identificabili, in buona misura, con i gruppi sociali minoritari dotati appunto di conoscenze specifiche atte ad accelerare il progresso tecnico). Queste considerazioni, inoltre, mi sembrano tanto più vere in un paese fino a ieri poverissimo e con un reddito pro capite che è ancora una frazione di quello dei paesi più avanzati, e in un quadro internazionale in cui l’estrema aggressività dell’imperialismo americano rende un rapido sviluppo economico e tecnologico non solo un fine in sè, ma un mezzo necessario per conservare margini di esistenza e sostenibilità come potere statuale indipendente. Le recenti affermazioni di Jiang nel discorso alla Scuola Quadri, e specialmente quelle sul valore centrale della proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla necessità di un suo continuo perfezionamento, oltre che la ribadita fedeltà agli ideali del socialismo e ai quattro principi cardinali, sembrano rafforzare l’interpretazione sopra delineata. In questo quadro, anche alla eventuale ammissione nel partito di imprenditori privati (peraltro già non rara nella pratica del PCC e ammessa nel passato da altri partiti comunisti, tra cui ad esempio quello italiano, in tempi non sospetti molto anteriori alla successiva degenerazione diessina) non dovrebbe essere attribuita tutto sommato troppa importanza. Invece di stracciarsi le vesti in nome di una presunta verginità politica e morale ormai fuori luogo, è meglio accettare questi signori (che spesso sono effettivamente rappresentanti delle forze produttive e scientifiche più avanzate) all’interno del Partito, in modo da potenziare il loro apporto allo sviluppo del paese ma anche, e forse soprattutto, per tenerli d’occhio, onde evitare che possano in un futuro ergersi veramente come “classe per conto suo” contro lo Stato socialista, le masse lavoratrici e il Partito stesso, facendosi forza del loro potere economico e dell’appoggio “democratico” della “comunità internazionale” preoccupata del “rispetto dei diritti umani “(leggi imperialismo).
7. Ho cercato di argomentare che sarebbe scorretto liquidare la teoria delle “Tre Rappresentanze” come un mero artificio retorico dell’attuale gruppo dirigente: al contrario, essa è basata su fondamenti teorici che hanno una loro legittimità, anche se discutibili, oltre a rispondere in modo pragmatico a varie sfide che il PCC si trova ad affrontare in questa fase storica. Va dunque tutto per il meglio nel migliore dei mondi possibili? No. Le dure critiche portate avanti con grande coraggio politico dal “gruppo dei 14″(molti dei quali sono entrati nel Partito sin dagli anni ’30 e hanno dedicato tutta la vita alla rivoluzione e alla costruzione del socialismo) contengono due importanti lezioni, una di metodo e una di merito, anche se a mio parere fanno riferimento a categorie teoriche ormai inadeguate ad interpretare compiutamente la realtà sociale della Cina contemporanea.
Entrambe queste lezioni sono legate al tema della democrazia socialista. Quanto al metodo, anche se per certi versi la vicenda delle lettere al Comitato Centrale potrebbe considerarsi un progresso rispetto a quanto avveniva nel passato nel PCC e in altri partiti comunisti al potere, e se gli esiti finali non possono darsi del tutto per scontati, è evidente che la preparazione del XVI Congresso ha evidenziato forti limiti di forma e di sostanza, che si sono manifestati sia per quanto riguarda il diritto, per alcuni compagni, di esprimere apertamente e pubblicamente (non si ha notizia del contrario) posizioni critiche (in particolare, critiche “da sinistra”), sia per quanto riguarda la possibilità, per il Partito nel suo insieme, di discuterle liberamente. Quanto al merito delle critiche dei 14, esse sollevano una questione cruciale. Nel corso di questo articolo (sia pure con un pizzico di ottimismo della volontà) ho sostenuto che la tesi secondo cui le riforme hanno ormai prodotto, o sono sul punto di produrre, una piena restaurazione dei rapporti sociali di produzione capitalistici, e quindi la ricostituzione di una vera e propria borghesia contrapposta a un nuovo proletariato, è catastrofista ed esagerata. Credo piuttosto che sia sostanzialmente corretto parlare di diversi “strati” sociali, i cui interessi divergono in una certa misura ma non al punto di porre lo sfruttamento al centro del processo produttivo, causando la drastica contrapposizione di classe tipica della società capitalistica. La società cinese contemporanea costituisce una formazione economico-sociale specifica, diversa dal capitalismo da un lato e dal “socialismo reale” tradizionale dall’altro, che unisce una forte mobilità economica e sociale ad elementi di stabilità sistemica di lungo periodo. Nella misura in cui il controllo sociale dei principali mezzi di produzione rimarrà il perno centrale dell’accumulazione, la proprietà privata manterrà un carattere subordinato alle priorità di sviluppo stabilite dallo Stato e dall’industria pubblica, la distribuzione dei redditi monetari resterà fondata sul principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”, e verrà integrata da un forte intervento pubblico volto a provvedere universalmente servizi fondamentali in modo sostanzialmente egualitario15, potrà anche a buon diritto continuare a chiamarsi socialista. Ma questo esito non può darsi per scontato. La stessa dinamica dello sviluppo e del cambiamento della società socialista (che è necessaria e inevitabile, pena l’esaurimento e la sclerosi) crea e ricrea continuamente nuove contraddizioni sociali. Come la rivoluzione non è un pranzo di gala, anche la cucina dell’avvenire è un posto abbastanza incasinato, le ricette possibili sono tante e probabilmente non tutte di facile digestione. In questa realtà sociale complessa, e tenendo conto che l’arretratezza relativa della Cina ha solo cominciato ad essere superata, è comprensibile e probabilmente necessario che il PCC voglia continuare a considerarsi rappresentante di tutto il popolo e a porre lo sviluppo economico come priorità assoluta del paese. Ma è anche giusto riconoscere che la questione dell’uguaglianza, valore fondante di qualsiasi movimento socialista e comunista, è ormai all’ordine del giorno, e che in una società post-rivoluzionaria può essere affrontata adeguatamente solo ampliando gli spazi dell’autonomia sociale e del dibattito democratico. Un’evoluzione16 in questa direzione, tra l’altro, sarebbe del tutto coerente con l’approfondimento delle politiche socialiste democratiche auspicate da Jiang nel discorso alla Scuola quadri.

Riferimenti

China Daily 05/31/ 2002, President Jiang makes important speech in Party School,

China Daily 7/12/2002, Party magazine: Private entrepreneurs will not constitute new class,.

Kinge J., 2002, “Chinàs capitalists get a party invitation”, Financial Times, August 16

Monthly Review 2002a, “A Struggle Within the Chinese Communist Party” – Introduction, in Monthly Review 2002, May.

Monthly Review 2002b, “Letter of the Fourteen” (English translation), in Monthly Review 2002, May.

Monthly Review 2002c, “Letter to the Central Committee by Ma Bin and Han Yaxi” (English translation),in Monthly Review 2002.

Xu Yufang 2001, “Party slams its door on Jiang’s plan”, Asia Times online, October 23.

Note

1 La traduzione inglese del testo integrale della Lettera dei Quattordici e della lettera di Ma Bin e Han Yaxi è stata pubblicata dall’autorevole rivista marxista americana Monthly Review nel numero di maggio 2002. L’editoriale della rivista, dedicato a questo tema, e i testi integrali della discussione sono reperibili su : www.monthlyreview.org
2 Pur nel massimo rispetto del loro diritto di critica e della loro lunga esperienza di rivoluzionari, questo articolo, come si vedrà nelle conclusioni, condivide solo in piccola parte l’allarme e il pessimismo di questi compagni. Tuttavia, in un ben diverso contesto, l’ultimo ammonimento citato potrebbe applicarsi efficacemente al rapporto tra partiti comunisti e movimenti in paesi capitalistici in cui la rivoluzione socialista è ancora ben lontana dall’essersi compiuta.
3 Uno dei piccoli giornali marxisti portavoce dell’opposizione di sinistra ( La Ricerca della Verità) sarebbe stato chiuso nell’ estate del 2001 (Monthly Review 2002a). Ma l’opposizione si sarebbe presa una rivincita nella sessione plenaria del Comitato Centrale del 24-26 Settembre, che pure confermò formalmente la “teoria delle Tre Rappresentanze”, riuscendo a bloccare la proposta di Jiang sull’accesso al Partito dei proprietari di aziende private (Xu Yufang 2001).
4 I Quattro Principi Cardinali sono : il mantenimento del cammino socialista, la dittatura democratica del popolo, il Marxismo-Leninismo e il Pensiero di Mao Zedong, e il ruolo guida del Partito Comunista Cinese.
5 Jiang ha anche sottolineato “l’importanza … di una strategia di sviluppo sostenibile … (e) della protezione ambientale ed ecologica…” (ibidem)
6 È probabile che non sia dovuto al caso il fatto che l’articolo del Qiu Shi, pur interamente volto a sostenere la teoria delle “Tre Rappresentanze” e il ruolo degli imprenditori privati nella società cinese, eviti di menzionare explicitamente la controversa questione della loro iscrizione al partito comunista.
7 Al di là dell’accezione negativa spesso attribuitagli in vari campi delle scienze politiche e sociali (tra le quali quella attualmente più diffusa si riferisce agli storici reazionari che tentano di negare la gravità del genocidio compiuto dai nazifascisti), il termine “revisionista” , di per sé, indica il propugnatore di una radicale revisione di una teoria precedentemente accettata. Tale revisione può effettivamente rendersi necessaria alla luce dell’esperienza storica e dell’emergere di nuovi elementi di giudizio.
8 Con “verificare criticamente” mi riferisco, come è ovvio, al diritto-dovere di ogni osservatore, e a maggior ragione di ogni comunista, in ogni parte del globo, di studiare e di interpretare liberamente la realtà, per contribuire ad informare e guidare l’azione politica collettiva. Al contrario, sarebbe ridicolo rivendicare un qualche diritto a salire in cattedra per redarguire il PCC e bacchettarlo se per caso dovesse sgarrare dalla “retta via” (quale?).
9 Metto l’accento sull’aggettivo “completo”. In molti altri casi una rivoluzione sociale può ottenere un successo parziale, in seguito al quale le classi sfruttatrici continuano a disporre, almeno in parte, di un certo controllo sui mezzi di produzione, e quindi anche sugli strumenti di formazione del consenso e sulla forza militare, anche grazie all’intervento effettivo o potenziale di potenze straniere. In questi casi, naturalmente, è vero che la lotta di classe, lungi dall’affievolirsi, si intensifica. Si veda, ad esempio, quel che succede in Venezuela.
10 Questo secondo significato, anche se più vago, è di uso frequente e del tutto legittimo.
11 Come è evidente, esistevano anche i quadri di livello alto, che godevano di una situazione materiale relativamente privilegiata ( giustificata in generale, peraltro, dai meriti acquisiti durante la Rivoluzione).
12 “Intuizione” in quanto tesi non del tutto esplicitata formalmente e non sostenuta da un corpus corrispondente di elaborazione teorica.
13 Questa tendenza, certo presente nella Cina contemporanea, non costituisce di per sè una fatalità. Una volta assicurata l’universalità dell’istruzione di base, e un accesso realmente ugualitario (perchè indipendente dal reddito della famiglia di provenienza) all’istruzione superiore, il sapere produttivo stesso diventa molto meno raro, e quindi la “retribuzione secondo il lavoro” è compatibile con alti gradi sia di efficienza che di uguaglianza. Queste conquiste sono state realizzate in parte nel passato dalle democrazie occidentali e in particolare dalle socialdemocrazie europee, ma sono sottoposte ormai da decenni agli assalti della controrivoluzione neoliberale.
14 Sono convinto che nelle scienze sociali le vere “leggi” eterne siano inesistenti. Per leggi intendo determinate regole di compatibilità e sostenibilità economico-sociali, valide in un preciso contesto storico.
15 A mio parere nella fase attuale, questo tipo di interventi pubblico è particolarmente carente, e quindi al suo rafforzamento dovrebbe essere accordato un alto grado di priorità.
16 Come è evidente si sta facendo riferimento ad una evoluzione nel quadro di una continuità sistemica, che escluda qualsiasi velleità di rottura “rivoluzionaria” (che si rivelerebbe immediatamente come il suo esatto contrario, un puro espediente controrivoluzionario).