Verbania, 28 Marzo – Intervento di Alexander Hobel

1. La crisi in corso

Quella che stiamo attraversando è una fase segnata da una gravissima crisi capitalistica: una crisi economica mondiale, di carattere strutturale (il che ovviamente non significa che preluda a un crollo). La tesi secondo cui si tratterebbe di una mera crisi finanziaria, dovuta alle speculazioni e all’avidità di qualche banchiere disonesto, e che poi si è ripercossa sull’economia reale, è falsa. Si tratta piuttosto di una crisi sistemica, che riguarda l’economia reale e la finanza, ormai difficilmente separabili. Un processo che, assieme alla crescente scarsità di risorse alimentari, idriche ed energetiche, e ai danni inferti in questi anni all’ecosistema e al clima, segnala l’emergere di una vera e propria “crisi di civiltà”[1].

Le cifre sono impressionanti. Per il 2009 era prevista una crescita del PIL mondiale di appena lo 0.5%. All’inizio dell’anno, però, gli organismi finanziari internazionali hanno dovuto ritoccare le stime al ribasso, prevedendo un -0.5%, ossia l’inizio di una vera e propria recessione. Peraltro, come ha rilevato Vladimiro Giacché, ad andare peggio sono proprio le economie più sviluppate, dagli USA (-1.6%) all’Europa (-2%) al Giappone (-2.6%). Le conseguenze sul piano sociale sono allarmanti. Si prevede un aumento di 50 milioni di disoccupati nel mondo, che porterebbe il totale a 230 milioni, oltre il 7% della forza-lavoro mondiale. In Europa si ipotizza un aumento di più del 9%, il che significa altri 3 milioni e mezzo di disoccupati[2]. Ma la prospettiva per il 2010 potrebbe essere quella di altri 6 milioni. Se poi allarghiamo lo sguardo al mondo intero, le cifre sono ancora più drammatiche. I disoccupati in più previsti per il 2009 sono circa 50 milioni. In un mondo in cui fame e sottosviluppo già uccidono milioni di esseri umani, si prevedono altri 150 milioni di poveri, nuove schiere di “dannati della terra” candidati a morti premature o a vite di stenti, innanzitutto in Africa[3].

La crisi, dunque, è globale e, come si diceva, strutturale. I mutui subprimes sono stati solo il detonatore, la miccia che ha provocato l’esplosione, ma non certo la causa della crisi. La sua origine – sottolinea ancora Giacché – sta nel fatto che, per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto (quante ironie inutili su questa categoria marxiana!), dopo la cosiddetta “età dell’oro” – i decenni postbellici in cui l’economia dei paesi sviluppati cresceva e i lavoratori (anche grazie all’esistenza del campo socialista e di forti partiti di massa in Occidente) strappavano conquiste sempre maggiori –, da circa 25 anni il capitale ha avviato una controffensiva volta a ridurre la quota di Prodotto Interno Lordo destinata ai salari e ad aumentare quella dei profitti. Nell’Europa centrale, la quota di PIL destinata ai profitti è passata infatti dal 23% del 1983 al 33% del 2007, con uno spostamento di ricchezza massiccio dal lavoro al capitale. Negli USA le cose sono andate anche peggio. Perciò, di fronte a una paurosa diminuzione dei salari reali, a un impoverimento crescente della classe lavoratrice, per far sì che comunque i lavoratori acquistassero le merci e il sistema marciasse, si è drogato il mercato, avviando una micidiale spirale di acquisti a credito. Spesso questi crediti, essendo il mercato immobiliare (e dunque il valore degli appartamenti) in crescita, venivano ricavati da mutui e ipoteche sulle case, i quali generavano prodotti finanziari derivati, che a loro volta diventavano oggetto di una compravendita frenetica di carattere speculativo e, ora sì, finanziario. Quando il mercato immobiliare si è fermato, questa costruzione di acquisti a credito è crollata come un castello di carte, e la gigantesca bolla finanziaria che ne era seguita è esplosa. Ma intanto i titoli-spazzatura, del tutto virtuali, avevano già invaso il mercato finanziario mondiale, cosicché la crisi ha assunto il carattere e la dimensione che abbiamo visto[4].

Se le cose stanno così, Giacché ha ragione anche nelle conclusioni. Alla radice della crisi, cioè, vi è la natura stessa del sistema, la sua tendenza alla polarizzazione economica e sociale, e nello specifico il pauroso aumento delle disuguaglianze di reddito che dura da un quarto di secolo, e che ha segnato tutta la fase neo-liberista di Reagan e della Tatcher, ma anche di Clinton e Blair; gli anni della deregulation e delle privatizzazioni, del ritiro dello Stato da un ruolo attivo nell’economia e della fede cieca nel Mercato, ossia nella vecchia illusione del capitalismo che si “autoregola”. Il crollo di questi miti – rispetto a cui anche tanta parte della “sinistra” è stata subalterna –, il fallimento di queste politiche, il fatto che si torni a parlare di un forte ruolo dello Stato nell’economia, di nazionalizzazioni e di programmazione, aprono ai comunisti un grande spazio per un’iniziativa politica forte e incisiva, per tornare a veicolare nel senso comune le nostre parole d’ordine. La disuguaglianza, oltre a essere ingiusta, non è neanche efficiente, non funziona; l’anarchia del mercato non è la fine della storia; un’altra organizzazione economica e sociale è possibile. E in questa direzione qualche passo si può fare fin d’ora, iniziando da una diversa distribuzione delle ricchezze. Ha scritto un economista di sinistra, ma non comunista:

Nel lungo periodo solo una distribuzione del reddito meno squilibrata sia all’interno dei paesi ricchi sia tra i paesi ricchi e i paesi poveri permetterà una sana crescita della domanda aggregata, cioè una crescita sospinta da fattori reali – aumento dei salari – e non da un’abnorme espansione del debito privato. […] Altre condizioni importanti […] sono legate al controllo politico e sociale del sistema bancario, alla regolamentazione dei mercati finanziari, allo sforzo che il pianeta farà per ridurre le dipendenza dai combustibili fossili […] e ad un più equilibrato rapporto commerciale e finanziario tra gli Stati Uniti e i paesi asiatici[5].

2. Un’altra Europa è necessaria

Tutto questo significa che anche un’altra Europa è possibile, e soprattutto è necessaria. Fin dall’inizio, noi comunisti ci siamo schierati contro l’Europa del capitale e dei grandi monopoli, e contro quel Trattato di Maastricht che coi suoi rigidi vincoli di bilancio, stabiliti dalle tecnocrazie sovranazionali, ha giustificato e per certi versi imposto politiche economiche antipopolari, tagli alla spesa pubblica e la devastazione dello stato sociale cui abbiamo assistito in questi anni.

Ora la situazione è ulteriormente peggiorata, grazie al Trattato di Lisbona e alla Direttiva Bolkestein. Il primo, che aggiorna e in sostanza sostituisce il Trattato di Maastricht, aumenta i poteri della Commissione, sottraendoli quindi al Parlamento Europeo e riducendo ancora la sovranità dei singoli paesi; nel campo della politica economica in particolare, l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea potranno bocciare misure prese dai singoli governi e renderle così inattuabili. Il Trattato, inoltre, prevede la possibilità di missioni militari offensive, in spregio all’articolo 11 della Costituzione italiana; a un gruppo ristretto di paesi sarebbero affidate le maggiori decisioni di carattere militare, rendendo così l’UE un partner della NATO. Infine, sul terreno della “sicurezza”, è prevista la possibilità di misure e interventi repressivi molto duri (compresi pena di morte e omicidi), in caso di pericolo di guerra o terrorismo, o per reprimere “sommosse”; non è chiaro, o forse lo è anche troppo, se tra le “sommosse” possono rientrare anche movimenti popolari e di protesta di massa[6].

La Direttiva Bolkestein, dal canto suo, completa l’opera, prevedendo la liberalizzazione – ossia la privatizzazione – di servizi essenziali quali l’erogazione di acqua, la sanità e così via. Ma essa ha anche delle gravi ripercussioni sul mercato del lavoro e sulle condizioni dei lavoratori: con la clausola del “paese d’origine”, infatti, si può impiantare un’azienda in uno Stato con poche garanzie sociali e avvalersi di quel sistema normativo anche nei confronti di lavoratori assunti in altri paesi, in sedi decentrate, succursali ecc. È facile pensare a quanto questa clausola sarà usata, stabilendo sedi legali fittizie per aziende e imprese, con la conseguenza di un’ulteriore corsa al ribasso delle condizioni di lavoro; una forma di dumping sociale, di cui le morti sul lavoro su cui poi si piange sono solo uno dei gravissimi effetti[7].

Sul piano politico e della tenuta democratica, infine, le norme approvate in sede europea, che mirano a criminalizzare le forze comuniste, mettendole sullo stesso piano di forze naziste e fasciste[8], che si aggiungono alle persecuzioni di cui i comunisti sono vittime in vari paesi membri (primi fra tutti la Repubblica Ceca, dove l’organizzazione giovanile è stata messa fuori legge, e la Lituania, in cui il segretario del Partito ha dovuto scontare ben 12 anni di carcere per le sue idee politiche), fanno pensare a un’Unione Europea che, col pretesto della lotta alle forze “totalitarie”, intenda colpire le forze anticapitaliste, col rischio di imporre essa stessa un totalitarismo morbido, quello del Mercato e del Pensiero Unico capitalistico.

Contro tutto ciò i comunisti hanno lottato e lottano, e occorre farlo senza timidezze, diffondendo informazione e coscienza critica, rilanciando la battaglia per i diritti sociali e facendo nostra anche quella lotta per i diritti civili e politici che troppe volte viene usata strumentalmente contro di noi. Occorre rilanciare, invece, la prospettiva di un’Europa dei popoli e dei lavoratori, un’Europa veramente democratica, in cui le decisioni sugli aspetti essenziali della vita di milioni di persone non passino solo per le mani di alcune decine di tecnocrati ma siano finalmente oggetto di dibattito, informazione e consultazione per i cittadini e i lavoratori europei; un’Europa che valorizzi il modello sociale di “capitalismo incivilito” che la ha caratterizzata nel dopoguerra, evitando scivolamenti nella barbarie, e miri piuttosto ad andare più avanti, verso un modello sociale e politico più avanzato, che superi l’anarchia del mercato e la democrazia dei pochi, per costruire una programmazione dell’economia e dello sviluppo, elaborata e controllata democraticamente e gestita socialmente, avendo per fine il benessere collettivo anziché l’arricchimento stratosferico dei pochi.

La crisi stessa apre nuove prospettive e impone un mutamento di rotta. I rapporti di forza su scala mondiale stanno cambiando in favore di Cina, Russia e potenze emergenti. Non a caso, Cina e Russia stanno iniziando a commerciare non più in dollari, ma in rubli e yuan, e recentemente i dirigenti cinesi hanno posto esplicitamente la prospettiva di un graduale superamento del dollaro come moneta di scambio mondiale[9].

D’altra parte, se è vero che la crisi apre nuove prospettive, sarebbe disastroso cadere nell’illusione “che la crisi stia vincendo per noi”[10]. I pericoli che essa comporta sono infatti notevoli, e storicamente i periodi di crisi capitalistica hanno visto più di una drammatica “uscita da destra”: il 1929 diede il “la” al New Deal di Roosevelt, ma anche al nazismo. Anche oggi, quindi, per le classi dominanti la crisi può essere l’occasione di un ulteriore attacco alla democrazia e di un ulteriore restringimento degli spazi democratici. Si profila cioè la possibilità concreta di una gestione autoritaria della crisi. Rispetto a ciò, non solo occorre intensificare quella che si chiamava la “vigilanza democratica” e diffondere tra le masse la consapevolezza di questo rischio. Ma soprattutto bisogna ricostruire un minimo di unità e coscienza di sé dei lavoratori salariati, un minimo di unità classe. Occorre quindi popolarizzare la nostra analisi della crisi, tornare a diffondere una coscienza anticapitalista, spiegare che la colpa della crisi è dei capitalisti e non degli immigrati, della Cina o dell’euro. Occorre – qui in Europa – evitare nuove guerre tra poveri, che sono il principale terreno di coltura delle destre, e iniziare a costruire una nuova alleanza, un nuovo blocco storico anticapitalista, che comprenda occupati e disoccupati, stabili e precari, lavoratori europei e immigrati; e per farlo bisogna trovare parola d’ordine unificanti, e in questo sta la sostanza del ruolo politico dei comunisti: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario che consenta di usare a fini sociali lo sviluppo tecnologico e di lavorare meno lavorando tutti, la difesa della contrattazione a livello nazionale e l’idea di un contratto collettivo europeo che porti verso l’alto e non verso il basso gli standard minimi (di salari, sicurezza e condizioni ambientali) consentiti, una serie di nazionalizzazioni che consentano non di addossare alla collettività i costi delle perdite capitalistiche ma di acquisire spezzoni significativi dell’apparato produttivo e dello stesso mercato finanziario, e infine la costruzione di un nuovo stato sociale europeo, anche qui partendo dal meglio e non dal peggio di quanto esiste nel Continente.

Ma vanno valorizzate anche esperienze di altri luoghi come l’America Latina, dove da Cuba al Venezuela di Chavez, si rilancia in termini concreti l’attualità del socialismo, mentre in Argentina alla crisi del 2001 molti lavoratori hanno risposto organizzandosi, occupando le fabbriche, avviando autogestioni e costituendo cooperative, che oggi sono riconosciute dallo Stato e hanno consentito al paese un’impressionante ripresa economica: i costi sono stati tagliati, ma dalla parte del capitale, non da quella dei salari[11].

3. L’Italia nella crisi

In questa crisi, che ha una dimensione mondiale, è indubbio che c’è una specificità italiana. I pericoli di gestione autoritaria della crisi sono particolarmente forti nel nostro paese. La debolezza strutturale del nostro capitalismo (che continua a basarsi molto sui bassi salari anziché sullo sviluppo tecnologico), e il fatto che il nostro paese sia tra i principali creditori di molti paesi dell’Est in grave difficoltà[12], fanno il resto. Dal 1980 in avanti in Italia, l’attacco ai lavoratori, che nel nostro paese avevano conquistato una grande forza sociale e politica, è stato particolarmente pesante, e oggi il calo del PIL è superiore alla media europea, e lo spostamento di risorse dai salari ai profitti, con conseguente aumento delle disuguaglianze, più ingente che altrove[13]: altro che le favole di Berlusconi sul “corpo sano” dell’economia italiana! Qui più che in altri paesi la polarizzazione economica e sociale è cresciuta, il che certo apre nuovi spazi ai comunisti, ma fa anche dell’Italia uno dei paesi europei in cui più gravi possono essere gli effetti della crisi.

Il rischio principale sta in quella involuzione autoritaria dello Stato e della stessa società italiana, che comincia non da oggi, e che sta rendendo il nostro paese molto simile a quello delineato dal “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli e della Loggia P2. Le destre sono forti nelle istituzioni e nella società, il Parlamento è sempre più messo in mora, con l’abuso dei decreti-legge, la riduzione del suo ruolo a quello di mera ratifica dei provvedimenti del governo, e l’assenza di un’opposizione degna di questo nome. Non possono stupire più di tanto, in questo contesto, la proposta-choc di Berlusconi di lasciare il diritto di voto ai soli capigruppo, oltre che le continue esternazioni sui parlamentari “fannulloni” ecc.

Ma è nella società che stanno passando i fenomeni più preoccupanti. Le “ronde”, questa ignominia parafascista, prima ancora di essere discusse in Parlamento, sono state già praticate in vari comuni; gli atti di aggressione xenofoba, gli episodi di sessismo e di violenza sulle donne, le violenze fasciste vera e propria, gli atti di repressione del dissenso (con la censura o col manganello), si stanno moltiplicando in modo preoccupante. La limitazione degli spazi di dissenso sociale e politico sta diventando grave. E la stessa nascita di un partito che si arroga il diritto di chiamarsi “partito del popolo italiano”, ossia di assumere la rappresentanza della totalità del Paese, non può non far riflettere[14]. Sul piano sociale, l’attacco alla contrattazione nazionale e dunque al ruolo del sindacato, l’attacco subdolo al diritto di sciopero a partire dai pubblici servizi, la precarizzazione diffusa, aggravano il quadro. E tutto questo per non parlare dell’egemonia delle destre nel senso comune, un’egemonia che ha avuto nelle TV berlusconiane e berlusconizzate un’arma micidiale, ma che si è giovata anche della progressiva ritirata, anche su questo terreno, di molte forze “di sinistra”.

Tutto ciò avviene con l’assenza dei comunisti e della sinistra dal Parlamento – un’assenza dovuta certo a errori nostri, ma anche al patto elettorale Berlusconi-Veltroni e all’appello al “voto utile” di quest’ultimo, che ha condizionato pesantemente l’elettorato di sinistra. Il “voto utile”, però, si è rivelato un voto a un PD che riesce solo a balbettare, perché continua a essere vittima di una subalternità culturale alle destre, a quella “narrazione” neoliberista, sul Mercato e le sue virtù taumaturgiche, che oggi sta facendo fallimento. E non a caso, bisogna ricordarlo, le maggiori ondate di privatizzazione del patrimonio pubblico, sono state fatte non da Berlusconi, ma dai governi Amato e Ciampi! Non solo. Il PD, e prima il PDS-DS, sono corresponsabili della crisi democratica del Paese. La loro infatuazione per il sistema maggioritario e il bipolarismo possono aver aumentato artificialmente la loro forza a qualche tornata elettorale, ma intanto hanno ridotto la rappresentanza democratica, ucciso il principio “una testa, un voto”, messo ai margini la sinistra e i comunisti, favorito – come noi difensori del sistema proporzionale dicemmo fin dal 1992 – la “corsa al centro”, l’assottigliarsi delle differenze, la marginalizzazione di chi quelle differenze intende rappresentare, la personalizzazione della politica, la sua riduzione a spettacolo e a chiacchiericcio televisivo. E tutto ciò, questo spostamento del confronto sul suo terreno, quello della potenza mediatica, ha favorito Berlusconi e la sua fazione, provocando un danno enorme alla democrazia nel nostro paese, sempre più ridotta a quella che Domenica Losurdo chiama “monopartitismo competitivo”: un bipolarismo più apparente che reale, in cui si cerca di escludere a priori le opzioni realmente alternative.

La situazione italiana, dunque, è particolarmente grave. Tuttavia la crisi apre anche nel nostro paese nuovi spazi all’iniziativa politica dei comunisti, proprio perché le disuguaglianze sono cresciute tanto, lo scontento aumenta, e le mobilitazioni di questi mesi (da quelle locali dei No-TAV e No-Dal Molin alle grandi manifestazioni sindacali e studentesche) hanno mostrato che non c’è solo una risposta di destra alla crisi, ma può esserci anche una seria risposta di sinistra e anticapitalista. Tra i lavoratori c’è una rabbia diffusa, che troppo spesso diventa disillusione, abbandono, caduta nell’“antipolitica”. Bisogna fare in modo, invece, che questa carica di protesta e di lotta si diriga nella direzione giusta, contro gli obiettivi giusti, costruendo gli strumenti e le alleanze adeguate.

4. Il ruolo della soggettività comunista e la scadenza delle elezioni europee

In una situazione come quella descritta, ricca di potenzialità ma anche di pericoli, è chiaro che diventa determinante l’elemento soggettivo, l’elemento politico, e in particolare sono determinanti il ruolo e la presenza organizzata dei comunisti.

Questa presenza, che pure nel nostro paese ha una storia di grande spessore, rappresentata in particolare dall’esperienza del PCI – il più forte partito comunista del mondo occidentale –, è oggi una presenza ancora troppo debole, non solo e non tanto sul piano istituzionale, ma soprattutto sul piano sociale, del radicamento tra le masse, nei territori e nei luoghi di lavoro. Bisogna quindi riavviare un lavoro di insediamento, elaborazione e organizzazione; questo grande lavoro politico che fece del PCI un grande partito di massa e un protagonista dell’Italia repubblicana.

Per farlo occorre costruire una piattaforma politica credibile, un programma minimo dotato di organicità; e al tempo stesso bisogna ricostruire una forza organizzata seria da cui ripartire, una massa critica, organizzata e riconoscibile, in modo tale che quando si va nei quartieri e nei luoghi di lavoro a parlare coi cittadini e i lavoratori lo si fa essendo credibili, parlando a nome di un partito che non è una forza residuale o un piccolo gruppo, e nemmeno un calderone privo di identità e di progetto, ma un nuovo partito comunista di massa e di quadri.

È per questo che, come compagni raccolti attorno alla rivista e all’area dell’Ernesto, abbiamo in questi mesi lottato con tenacia per affermare la prospettiva dell’unità dei comunisti nel nostro paese, della riorganizzazione dei comunisti in un solo partito, che sappia essere, appunto, di massa e di quadri; e in questa lotta abbiamo trovato un interlocutore fondamentale nel PdCI, e poi via via di settori sempre più larghi di Rifondazione Comunista, oltre che l’attenzione, l’interesse e la partecipazione di tanti altri compagni.

Porre l’obiettivo dell’unità dei comunisti ovviamente non vuol dire, come dice qualcuno, “chiudersi in un fortilizio identitario”, ma piuttosto rilanciare il problema di un’identità e di un progetto comunista adeguati al XXI secolo; non significa scegliere l’isolamento e abbandonare il problema della ricostruzione di una sinistra forte e unita nel nostro paese, ma al contrario vuol dire considerare la forza dei comunisti come il possibile nucleo portante di una nuova sinistra che voglia davvero svolgere il suo ruolo legato alla trasformazione sociale. Bisogna uscire cioè dalla morsa del bipolarismo apparente, e questo è possibile solo con un forte ruolo dei comunisti.

Dopo mesi di incertezze, abbiamo finalmente raggiunto l’obiettivo di una lista e un simbolo unitari. È un primo successo, un risultato che non era scontato e che occorre valorizzare al massimo, sapendo che è solo un punto di partenza per un processo politico più ambizioso.

Ora abbiamo davanti a noi il passaggio delle elezioni europee, che è un passaggio fondamentale: guai se dovesse andare male, tutto il processo rischierebbe di essere compromesso! Non raggiungere il 4% significherebbe la scomparsa dei comunisti italiani anche dal Parlamento europeo, questo darebbe ulteriore forza alle destre e sarebbe un colpo tremendo per la riaggregazione dei comunisti.

Bisogna quindi impegnarci al massimo. Abbiamo solo due mesi di campagna elettorale, e dobbiamo avere la capacità – come dicono alcuni compagni – di fare una campagna elettorale “all’antica”, una campagna di massa, tornando a fare caseggiati, volantinaggi nelle strade e nei mercati, propaganda nei luoghi di lavoro e di studio. Dobbiamo usare questa scadenza come un’occasione politica per far crescere di nuovo tra i lavoratori l’idea che il sistema capitalistico produce crisi inevitabilmente, e ad esso, alle sue dinamiche risale la crisi in corso; che occorre superare l’anarchia del mercato e programmare l’economia in modo democratico, con un nuovo ruolo della politica e sul piano europeo; e che al tempo stesso occorre ridare un forte ruolo allo Stato nell’economia, che bisogna ridurre gli orari di lavoro e programmare un nuovo modello di sviluppo che tenga conto dell’esigenza di modificare il modo di produzione e i rapporti di proprietà, che consenta di distribuire diversamente le risorse, di fare i conti con la loro finitezza e di non danneggiare ulteriormente l’ambiente e il clima.

E dobbiamo diffondere la consapevolezza che per fare tutto questo bisogna innanzitutto ricostruire la coscienza e l’unità di classe, dare ai lavoratori salariati, pur nella frammentazione esistente, la consapevolezza di essere un soggetto sociale unitario, e di esserlo a livello anche internazionale. Occorre quindi ridare al movimento dei lavoratori europei una prospettiva quantomeno continentale, una dimensione europea sul piano sindacale e politico; e in Italia occorre ricostruire un forte partito comunista, dotato di una chiara identità ma non settario, aperto, non residuale, un partito di quadri, militanti e simpatizzanti; un partito forte e unitario, che sia in grado di reggere l’urto della crisi, respingere l’offensiva delle destre, e portare di nuovo i lavoratori organizzati a contare, a decidere, a essere protagonisti consapevoli della vita del Paese!

Un grande passa in avanti è stato fatto con la lista unitaria. Dobbiamo andare avanti, e avanti ancora!

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[1] G. Saccoman, H. Buerbaum, Il labirinto della crisi e il filo d’Arianna per cercare la via d’uscita, http://news.cgil.it/News/NewsViewer.aspx?NewsID=390.

[2] V. Giacché, Le ragioni della crisi e le ragioni dei comunisti, in PdCI, Direzione nazionale di approfondimento sulla crisi economica e proposte del partito per uscirne a sinistra, Roma, 2009, p. 10. L’intervento, davvero esemplare per la chiarezza, è anche in http://www.comunisti-italiani.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=5228.

[3] F. Schettino, Capitalismo tossicodipendente, “La Contraddizione”, 2009, n. 126; Galapagos, La crisi si mangia l’Africa, “il manifesto”, 11 marzo 2009.

[4] Giacché, Le ragioni della crisi e le ragioni dei comunisti, cit., pp. 11-13.

[5] S. Sylos Labini, Considerazioni sulla crisi, 19 marzo 2009, http://www.economiaepolitica.it/?s=considerazioni+sulla+crisi&x=10&y=8.

[6] La traduzione italiana del Trattato è in http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/cg00014.it07.pdf.

[7] Il testo della Direttiva Bolkestein è in http://www.fpcgil.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2019.

[8] http://www.europarl.europa.eu:80/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P6-TA-2009-0213&language=IT&ring=B6-2009-0165. Ma cfr. anche la risoluzione 1481 del Parlamento Europeo del 26 gennaio 2006, relativa alla necessità di una condanna internazionale dei “crimini dei regimi totalitari comunisti”.

[9] V. Giacché, Euro contro dollaro. E oltre, in Noi la crisi non la paghiamo, “Quaderni CESTES”, n. 16, p. 25.

[10] M. d’Eramo, La crisi lavora contro. Di noi, “il manifesto”, 26 marzo 2009.

[11] G. Tognonato, Aperti per fallimento, “il manifesto”, 11 aprile 2009. Oggi il movimento delle autogestioni comprende migliaia di lavoratori e una rete di oltre 200 imprese; l’economia argentina ha ripreso a crescere a un ritmo di più dell’8% annuo.

[12] Giacché, Euro contro dollaro. E oltre, cit., p. 23.

[13] Giacché, Le ragioni della crisi e le ragioni dei comunisti, cit., p. 14.

[14] Cfr. I. Dominijanni, La storia siamo noi, e G. Santomassimo, Il fascismo rimesso in parentesi dal “Partito degli italiani”, entrambi in “il manifesto”, 22 marzo 2009.