Venezuela: sarà dura

Ci si è infondatamente scandalizzati per il sostegno offerto dall’Internazionale Socialista, nel suo fantasmatico vertice di gennaio, all’oligarchia di terratenientes, fascisti strutturali, mercenari a stelle e striscie che in Venezuela stanno cercando di sabotare la rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez Frias e del suo gruppo. Dopo l’esperienza di governo ultraliberista e di disciplina Nato (guerra alla Jugoslavia) fatta dai nostri rappresentanti nell’ I.S., pur discesi per molti rami dal grande albero del socialismo vero, dopo le prove fornite da falsari del logo come la stampella di Sharon, Peres, o il pacefobico e internatore senza processo Blair, ai “socialisti” internazionali non manca ormai che l’approdo a Uribe di Colombia, o a un qualche nuovo Bokassa.

È che Hugo Chavez e il totale rivolgimento della società venezuelana all’insegna di un progetto che unisce il libertarismo di Simon Bolivar all’analisi economica di Marx e all’organizzazione politico-sociale di Castro, rappresentano in America Latina e, a quanto ci dice un giro d’orizzonte, in tutto il Terzo Mondo, una rottura tanto insopportabile quanto – se è vero che la rivoluzione sta sconfiggendo il più duro sabotaggio di una democrazia attuato dal tempo del Cile – irrimediabile. Il superamento, non solo del nuovo colonialismo ALCA, di quel riformismo e di quelle compatibilità che la cosiddetta socialdemocrazia e addirittura gli elementi meno demenziali dell’imperialismo USA ritengono di poter condizionare e, alla lunga, riassorbire. Piuttosto una totale redistribuzione della ricchezza e un’organizzazione della società in cui già il cubano Josè Martì e Simon Bolivar seppero coniugare le innovazioni rivoluzionarie francesi e i prodromi del socialismo con il comunismo primitivo delle popolazioni originarie. Un processo ideologico, ma anche culturale, che Chavez sta approfondendo alla luce delle acquisizioni teoriche e pratiche successive e all’insegna della sovranità e unità nazionale antimperialista.

Sarà per questo che settori – seppur parziali – del movimento no o neoglobal (che per la verità non sorprendono, dopo certi connubi consumati con vandee della controrivoluzione in Jugoslavia e altrove) si sono rapidamente affiancati alla satanizzazione che i media capitalisti stanno operando nei confronti di Chavez, “populista, colonnello paracadutista, autocrate, demagogo, ex-golpista”, come del suo omologo Lucio Guiterrez (“Cambierò l’Ecuador di 180 gradi”), ma non di Lula e neppure tanto del movimento argentino. Beppe Caccia, assessore a Venezia e importante esponente dello zapatista Ya Basta, ha avuto modo di esternare: ”Lascia-mo perdere il giochino delle icone: dopotutto stiamo parlando di un ex-parà”, aggiungendo che “mai e poi mai” avrebbe sfilato in suo nome.

C’è un ulteriore, fortissimo movente per questa irritazione. A Belem, per il Forum Sociale Pana-mazzonico di gennaio, preludio a Porto Alegre, tra i 7000 delegati dei popoli indoamericani ho visto gli indios venezuelani esercitare la principale spinta per un salto di qualità politico delle comunità indigene. Indubbiamente favoriti dalla consistente quota numerica che rappresentano tra i 22 milioni di venezuelani, hanno saputo far prevalere la loro visione di una comunità nazionale, strettamente legata agli altri settori di popolazione oppressa, meticcia, mulatta, nera, creola, lavoratrice, diseredata, con i quali condividere un’idea di società (peraltro profondamente radicata nei valori comunitaristici degli indios) e la lotta per il potere. Una percezione assai diversa del proprio ruolo e destino da quella prettamente identitaria e sostanzialmente separatista, dichiaratamente disinteressata al potere nello Stato e ad altre categorie di oppressi (campesinos, operai della fascia maquilladora del Rio Bravo, altre realtà indigene guerrigliere messicane, o continentali) sostenuta da alcune forze chapaneche in Messico, del resto già prima di Belem diluitesi in un orizzonte di passività e silenzio.

A Porto Alegre 2002 la potenza di fuoco dei media amici (quasi tutti, escluso quelli dell’integralismo reazionario) aveva potuto dissimulare l’emergente contrasto tra settori rivoluzionari, antimperialisti di partiti, organizzazioni e movimenti e il riformismo correttivo tipo Attac o del bancamondialista Tarso Genro (si pensi alla porta sbattuta dalle Madri di Hebe de Bonafini, all’ostracismo a FARC e Fidel Castro). In questa edizione il radicalismo degli esponenti comunisti argentini, venezuelani, ecuadoregni, della sinistra Sem Terra e di Via Campesina, unito al sempre più consapevole antimperialismo ed anticapitalismo della maggioranza delle formazioni del Sud del mondo, ha profondamente alterato i precedenti equilibri. Simbolicamente questo risultava al primo impatto con l’evento nelle città del Rio Grande do Sul, dove le scritte e i manifesti che un po’ stancamente ribadivano la possibilità di un mondo “altro” erano subissate dai giganteschi pannelli e striscioni con falci e martello affissi dai comunisti del Continente e in particolare dal Partito Comunista del Brasile (PcdoB), nonché dall’onnipresente iconografia antimperialista e in difesa di palestinesi e iracheni, firmata spesso da mano bolivariana. Protagonisti della dialettica partecipativa, gli chavisti venezuelani battevano sulla differenza tra bilancio partecipativo e potere popolare, come me l’aveva illustrata Rodrigo Chavez, coordinatore nazionale del Circoli Bolivari-ani e vero ideologo della “nuova società orizzontale” venezuelana: ”Nel bilancio partecipativo che oggi viene sussunto benevolmente anche da molte amministrazioni capitaliste, la popolazione ha il diritto di esprimere pareri consultivi sulla destinazione dei fondi territoriali. La struttura decisionale verticale rimane inalterata. Da noi, laddove esistono amministrazioni comunali o provinciali (la “Provincia” corrisponde allo “Stato” nella federazione venezuelana) controllate dal Movimento V Repubblica (il partito di Chavez), la destinazione degli stanziamenti viene decisa dalla comunità e il sindaco o governatore vi si devono attenere indefettibilmente”.

Educazione popolare e circoli bolivariani

Di questa palingenesi della società da verticale in orizzontale, nella quale i Circoli Bolivariani svolgono una funzione non molto dissimile da quella dei primi Soviet, mi è stato dato di ammirare un esempio nella scuola “Armando Suloaga Blanco” di Caracas, dalla prescolare alle medie superiori, 950 alunni. Le icone alle pareti (Che Guevara, Simon Bolivar e Ezechiele Zamora su tutti, ma anche Fidel, Lenin, il Gramsci spesso citato da Chavez, Tupac Amaru) introducono alla “scuola orizzontale” dei tre pasti tra le 8 e le 16, inclusa la siesta di un’ora per i piccoli, dell’autogestione istituzionale, nella quale dirigenti e insegnanti svolgono sul piano didattico funzioni del tutto paritarie con i consigli degli allievi. Non esistono procedimenti punitivi, spazi privilegiati sono riservati all’iniziativa dei ragazzi e un peso preponderante è riservato all’attività creativa (musica, danza, tradizioni popolari, comunicazione, educazione civica). In uno studio televisivo con redazione giornalistica (un periodico stampato e un’ora di trasmissione giornaliera per i quartieri dell’area), ragazze dai 12 ai 16 anni mi domandano di Iraq, di scuola europea, programmi didattici, rivoluzione francese, socialismo e bolivarismo…Me ne vado con la certezza che girando per 40 anni paesi e scuole, mai avevo incontrato bambini e giovani così sicuri di sé, autonomi, disinibiti, festosi, privi della solitamente radicata e nevrotica subalternità all’adulto. Due mondi alla pari, che si sostengono.

Il “paro” ha superato i due mesi. Quanto avrebbe messo in ginocchio lo Stato più solido. E al Venezuela di Chavez le gambe si sono piegate, ma solo un po’ e in una fase ormai apparentemente superata: quando i golpisti della strage delle 19 vittime di provocatori addestrati dalla CIA, l’11 aprile 2002, all’inizio dell’anno lanciarono la parola d’ordine del “bloqueo”, cioè di un vero e proprio embargo interno: la paralisi delle forniture di energia e dei trasporti (alla cilena) e, quindi, di viveri, corrente e farmaci. Affamare il Venezuela, rendere la popolazione preda di epidemie, provocare una sollevazione contro il presunto responsabile, preparare la vittoria per disperazione al referendum “revocatorio” del 2 febbraio. Un po’ quanto si verificò in Jugoslavia alla vigilia delle elezioni presidenziali del 5 ottobre 2000. La PDVSA, compagnia petrolifera di Stato, ma da sempre feudo di speculatori e ladri, vena giugulare di un’economia venezuelana ridotta a monoculturale per volontà yankee e subalternità di dittatori e presidenti espressi dall’oligarchia borghese, era bloccata. Il Venezuela, quinto produttore mondiale di petrolio, si doveva affannare a cercare qualche barile all’estero. Gliene arrivarono da Brasile, Ecuador, Algeria. Ma in tutto il paese si allungavano file esasperate di automobilisti a secco, la corrente veniva a mancare, gli ospedali si fermavano, farina, mais, me-dicine, spesso imboscate dai grandi produttori nordamericani o dai distributori locali, restavano nei depositi o sgocciolavano a prezzi esorbitanti sul mercato nero.

Muovendosi rigorosamente nel quadro delle leggi e di una Costituzione democratica, giudicata tra le più avanzate del mondo, Hugo Chavez (personalizziamo, perché, nelle sue particolarissime condizioni storiche e culturali, il mondo latinoamericano personalizza, nel bene e nel male; ma c’è intorno a lui un’attrezzatissima e determinata squadra civile e militare ) seppe intervenire con incredibile tempestività ed efficacia. Per abbandono del posto del lavoro e sabotaggio dell’economia nazionale furono destituiti un migliaio di dirigenti e tecnici della PDVSA, sostituiti in parte da funzionari di rango inferiore e, in parte, da tecnici algerini (e il golpisti lanciarono granate contro l’ambasciata d’Algeria). Le stazioni di servizio, bloccate dai gestori, furono riaperte dalla Guardia Nazionale, un corpo rivoluzionato e rivoluzionario, fedele finora alla prospettiva bolivariana. Lo stesso accadde per i depositi di derrate e farmaci. Intanto il “paro”, la serrata commerciale andava lacerandosi. Già attuata solo nelle provincie governate da esponenti di Azione Democratica (il tradizionale partito della destra) e del COPEI (la socialdemocrazia cattolica) e nei quartieri dei ricchi, nostalgici della società coloniale, base sociale della Coordinadora Democratica messa in piedi dai golpisti Carlos Ortega (segretario del mafioso sindacato CVT) e Carlos Fernandez (presidente della confindustria “Federcameras”), la serrata dava segni di cedimento già alla fine di gennaio. Nonostante le robuste iniezioni di dollari provenienti dagli USA, documentate in particolare dagli investigatori del Partito Comunista Venezuelano (incondizionatamente a fianco di Chavez e dell’antimperialismo continentale), industriali e commercianti sentivano il morso delle mancate vendite, particolarmente doloroso durante le feste di fine anno.

Minato nel profondo, il processo di sabotaggio dell’economia nazionale lo fu quando fallirono clamorosamente la serrata dell’istruzione (seguita solo nelle scuole cattoliche, ma anche lì fortemente contestata dai genitori), respinta da una maggioranza di universitari e docenti, e quella dei trasporti urbani, rifiutata dalla maggioranza dei lavoratori, ormai riorganizzati, come parecchie altre categorie, in sindacati sottratti al controllo del clientelismo mafioso di Ortega. Nel paese sorgevano centinaia di Circoli bolivariani, compensando quello che in Venezuela e in Argentina era l’assenza di un partito rivoluzionario di massa, che si adoperavano in particolare per controllare la messa in atto delle leggi firmate da Chavez e che in moltissimi casi risultavano inedite per qualsiasi paese dell’ America latina, esclusa Cuba: legge quadro sui diritti dei lavoratori, su istruzione pubblica, sanità pubblica, terra, forze armate, parità dei generi, diritti dei minori, ambiente, biodiversità, diritti degli animali…

Il consenso dei contadini

Viaggio verso San Carlos, nell’entroterra centrale, attraverso Valencia, città industriale e grande centro di distribuzione di prodotti agricoli provenienti da tutta la regione. In quattro e quattr’otto, il ministro dell’Agricoltura Efren Andrade, che viaggia con me, ha sostituito la grande distribuzione dei monopoli dell’agrobusiness statunitense (in quei giorni, in un tripudio di folla, viene occupata anche la Coca Cola) con canali diretti tra piccoli produttori e piccoli distributori. Funziona: l’approvvigionamento è assicurato e, nei mercati generali, Andrade raccoglie saluti e consensi da una turba di campesinos tra stuoie, banchetti, autocarri, magazzini pervasi da profumi rurali. A San Carlos si festeggia il “General del pueblo sovrano” Ezechiele Zamora, eroe nazionale, primo nemico sudamericano del latifondismo e fautore del potere campesino, come Bolivar fu il primo liberatore di schiavi e propugnatore dell’eguaglianza degli uomini, ispirato dal Manifesto di Marx e Engels il primo, dalla Rivoluzione Francese il secondo. Zamora fu assassinato con uno sparo dalla chiesa della città, nel 1861. Hugo Chavez, accolto da una folla sterminata, sbarca dall’elicottero militare (in una precedente occasione la Guardia Nazionale scoprì due missili a lui destinati in un altro aeroporto) e celebra sotto un tendone Zamora e la ley de la terra. 40.000 contadini lo seguono con ovazioni dopo ognuna delle sue tonanti frasi. Anche per loro sono stati tirati su tendoni contro il sole rovente. Mentre il nome di Zamora ricorre e ricorre, si staglia su una collina lontana, tra barbagli di luce, la sagoma di un cavaliere con cappello campesino. Immobile, irreale. Poi lentamente scompare sul filo dell’orizzonte. Un finale degno dell’indimenticabile “Viva Zapata”. Sottolineato dalla chiusa di Chavez, contro i vari mediatori super partes : “Con los golpistas fascistas non hay negocio!”

La simbiosi Chavez-popolo si ripete prima all’università, nel palazzo dello sport, dove, davanti a 16000 studenti e docenti, viene ribadito contro il “paro” il diritto costituzionale all’istruzione (in un paese che prima dell’arrivo di Chavez nel 1998 e delle sue successive quattro vittorie elettorali o referendarie denunciava il 78% di analfabetismo e il controllo dell’80% della ricchezza nazionale da parte dell’1% della popolazione) e poi a La Vega, rancho (come qui chiamano le favelas) della miseria, tra i tanti abbarbicati su abissi franosi e frananti sopra le colline a capo della metropoli verticale megalomane, costruita dal dittatore Jimenez, prima, e poi dal presidente-ladro Carlos Perez. A San Carlos Chavez aveva distribuito duecento titoli di proprietà rurale, sottratti a un latifondo improduttivo che, per legge, non deve più eccedere i 5000 ettari. Qui, tra casupole tremolanti, baracche di lami-era, viuzze strepitanti di voci e immerse in fango o polvere, il presidente assegna a donne rugose in gonnoni, giovani con i jeans verniciati addosso, uomini rugati dagli stenti, “titoli di proprietà urbana”. Abusivi, questi sì sacrosanti, condonati e consegnati alla dignità.
In Argentina sono avanguardie a condurre il gioco contro i padroni interni ed esteri. Le masse appaiono osservanti, ma lontane. Qui è un popolo intero che si è messo in gioco contro una minoranza tanto mafiosa quanto spietata. Spazzata via dal Tribunal Supremo di Justicia la carta infingarda del “referendum revocatorio” del 2 febbraio, per manifesta illegalità (il referendum, come ha dovuto anche ammettere il “mediatore” Jimmy Carter, si svolgerà a termini di Costituzione a metà mandato, in agosto), l’oligarchia golpista ricorre al terrorismo: sabotaggi e attentati, soprattutto alle infrastrutture petrolifere; e all’assordante coro di quattro canali televisivi che alternano i più sanguinari filmacci nordamericani a martellanti diffamazioni e appelli anti-Chavez.
Amici dell’Internazionale Sociali-sta, marciano un giorno sì e un altro pure dalla loro piazza Altamira, sbattendo le casseruole: ringalluzzite carampane adorne di lacche e gioielli, strepitanti giovinastre di boutique, accigliati manageroni e bottegai appesantiti da lardi mentali e fisici, qualche generalone fellone, gonfio di panza e di lustrini. Strepitano “fuera Chavez” “Liber-tad, libertad” e sognano Pinochet. Poi tentano una sortita verso i quartieri popolari, dove sono le istituzioni. La Guardia Nazionale, che a gennaio ha disarmato la polizia metropolitana, polizia privata dell’oligarchia, armata e addestrata da uno sgherro di Rudolph Giuliani, gli tira quattro lacrimogeni. Per la prima volta in vita mia li vedo tirare dalla parte giusta. La partita non è chiu-sa e si riaprirà uno volta che la banda di Washington l’avrà fatta finita col Medio Oriente. Non con Saddam. Con gli arabi. Non è solo per il petrolio, che in USA sta per finire e che lì arriva per il 13% dal Vene-zuela. È per un modello sociale che pareva scomparso dal mondo e dalla storia e che torna ad agitare gli incubi di una borghesia che nel 1989 aveva pensato di avercela fatta una volta per tutte, e alla quale qualcuno aveva addirittura attribuito un tranquillo e omogeneo governo mondiale “imperiale”.In Venezuela sarà dura, molto dura.