Venezuela: l’anno della verità per la revolucion bonita

Caracas
Come fossimo in Apocalypse Now, dal vicino orizzonte di palme vediamo arrivarci addosso i due elicotteri. È la lunga attesa ad esaltare l’impatto dell’avvenimento e la folla assiepata dietro ai cancelli del minuscolo aeroporto lo recepisce con un’esplosione sonora che fa vibrare vetri e polsi: “Chavez-Chavez!”. L’elicottero civetta fa un giro stretto e poi atterra su una pista lontana: giorni fa la Guardia Nazionale, il corpo militare più fedele a Chavez e alla rivoluzione bolivariana, quello che sventò il golpe dell’11 aprile e poi, un anno fa, rimise in carreggiata una nazione bloccata dalla serrata padronale, aveva scoperto un paio di missili nascosti in un altro aeroporto dove il “comandante” stava per atterrare. La guida del riscatto di tutto un popolo, a cui il 10% di 25 milioni di venezuelani aveva sottratto l’80% della ricchezza nazionale, è sotto tiro più che mai, specie ora che il movimento di emancipazione latinoamericano ha visto schierarsi accanto a Cuba e Venezuela l’immenso Brasile e la ricchissima Argentina, con Bolivia e Uruguay in dirittura d’arrivo.

INTERVISTA A CHAVEZ
L’elicottero di colui che nemici e spocchiosi scettici continuano a chiamare “il colonnello populista”, o “l’ex-golpista” (falsando quello che, nel 1992, fu un autentico sollevamento di settori democratici dell’esercito che, con Chavez, si rifiutarono di sparare su una folla di affamati inermi) si posa vicino allo schieramento d’onore e alla fila di “personalità” che avranno il privilegio di un saluto personale: sono i locali amministratori, dirigenti della riforma agraria, attivisti del Movimento V Repubblica, il partito della rivoluzione, dirigenti dei Circoli bolivariani, struttura di formazione ideologica capillarmente diffusa nel paese, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, negli istituti di studio. Per tutti, il massiccio ed esuberante Chavez ha un sorriso, spesso una risatona, un abbraccio, particolarmente affettuoso per gli anziani, due domande, due parole. Con la telecamera puntata in pieno viso da due metri, rallentato dalla morsa degli entusiasti, il presidente del Venezuela (quattro votazioni dal 1998 ad oggi, quattro conferme, compresa quella della nuova Costituzione, sicuramente la più “socialista” del mondo) riesce a concedermi un’intervista. Siamo a San Carlos, stato di Portoguesa, nel cuore dei llanos (la pianura alluvionale che si estende da nord a sud e da est a ovest del paese grande come Francia e Regno Unito insieme), cuore agricolo in pieno fermento per l’attuazione della ley de tierras, la grande riforma agraria che è stata il primo dei grandi passi del processo bolivariano. Gli sono venute dietro leggi a cascata come 800 milioni di latinoamericani le avevano sempre sognate: leggi su sicurezza sociale integrale, protezione dell’infanzia, salvaguardia del patrimonio pubblico, pianificazione e coordinamento delle politiche statali, esproprio per ragioni di pubblica e sociale utilità, previdenza per gli anziani, legge organica del lavoro, legge per la protezione ambientale, diritti e poteri di cittadinanza, forze armate, associazioni e cooperative, legge organica della proprietà orizzontale, regime penitenziario, università, spazi acquatici e pesca, idrocarburi, legge organica dei diritti della donna, dell’istruzione pubblica, per citarne solo pochissime. A San Carlos, come ogni anno, Hugo Chavez viene a celebrare Ezechiele Zamora che, seguace del libertador dell’America Latina, Simon Bolivar, primo nemico del latifondo, tradì la sua classe di provenienza e, a metà dell’800, condusse battaglie vittoriose contro il feudalesimo e per i diritti dei campesinos. Fu ucciso nel 1861 da un sicario della coalizione fra grandi proprietari e gerarchia ecclesiastica, tutt’oggi punta di lancia della reazione, con una fucilata dal campanile della cattedrale di San Carlos. L’ambiente, l’occasione impongono una domanda a Chavez sul significato della presenza qui del presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela. San Carlos è uno dei centri della rivoluzione. Oggi celebreremo la ricorrenza dell’uccisione di Zamora facendo fare un altro passo a quella che è la legge fondamentale, per noi come per miliardi di contadini in tutto il mondo. Qui, come nella Cina di Mao, la rivoluzione o è dei contadini, o non è. Da secoli sentiamo parlare di riforma agraria, solo parlare. Qui la facciamo. Perché proprio a San Carlos? Mi risponde Chavez: San Carlos è la prima grande città dei llanos, è il crocevia che uno incontra viaggiando da Nord a Sud e da Est a Ovest. Venendo in elicottero la si vede immersa in un’immensa savana, tutta terra coltivabile e in gran parte abbandonata. È dunque una terra che ha enormi potenzialità ed è qui che si può misurare il successo o l’insuccesso della nostra legge sulla terra. È una terra altamente simbolica per noi rivoluzionari del Venezuela, per noi zamoriani. E oggi rendiamo omaggio a questo grande venezuelano, il generale del popolo sovrano, come si definiva, Ezechiele Zamora. Fu il primo ad innalzare la bandiera bolivariana della rivolta contro i poteri tradizionali in questa terra e a lanciare la lotta contadina nel segno del suo canto “Terre e uomini liberi, elezioni popolari e morte all’oligarchia”. Quel canto è oggi nostro più che mai: terra e uomini liberi contro l’oppressione e lo sfruttamento degli oligarchi. Zamora cadde assassinato, in questo giorno del 1861, a pochi passi da qui. Quella rivoluzione che lui avrebbe voluto realizzare fallì, fu fermata dalle forze reazionarie che spadroneggiavano nella savana. Ma i semi di quella rivoluzione vennero custoditi dalla terra e dal popolo della savana, ne vennero nutriti, fino a quando non tornarono a germogliare. Cosa dirà oggi al suo popolo, anche sull’ennesimo tentativo delle forze della restaurazione, los escualidos, come li chiamate voi, di rovesciare il governo, distruggere la rivoluzione e tornare ai privilegi del passato? Diremo che siamo qui per portare alla vittoria la rivoluzione e lo dimostreremo consegnando ancora una volta ai contadini titoli di proprietà della terra e titoli di credito agevolato per intraprendere un’attività autonoma o, meglio, in cooperativa. È con questa distribuzione delle terre dei latifondisti, eccedenti i 5.000 ettari, come con l’assegnazione di titoli di proprietà urbana agli abitanti dei quartieri poveri, che avanzano le nostre riforme e che si compie una rivoluzione sociale vera. Noi abbiamo una priorità: insieme al pane vogliamo restituire la dignità. L’operazione alla quale lei assisterà oggi sarà un messaggio di fiducia a tutto il paese. Impossibile chiedere a Chavez, invocato a gran voce dalla coloratissima folla, altre cose, magari sulla congiuntura internazionale che vede all’opera ancora una volta i cospiratori di Washington, oppure sulla nuova minaccia eversiva della borghesia creola, quella che razzisticamente si vanta di non avere nulla a che fare con quei primitivi di meticci (80% della popolazione), neri (12%), indios (2%) e di essere investita da dio (e qui la soccorre la Chiesa, su posizioni ultrareazionarie, diversamente da altri paesi della regione), se non dai protettori yankee, del diritto a governare, reprimere, emarginare, rapinare, liquidare chi si oppone. Ma qualche risposta verrà dal lungo colloquio che il presidente avrà con una massa di popolo inebriato dalla sua identificazione con chi, per la prima volta dai tempi di Zamora e Bolivar, dopo decenni di dittatura (Jimenez) e di governi autoritari, mafiosi e corrotti (l’ultimo di Carlos Andres Peres, sconfitto da Chavez nel 1998), lo rappresenta davvero. Chavez parlerà a lungo dei nuovi tentativi della minoranza colonialista, dopo quelli falliti del golpe e del paro, la serrata, di arrestare la marcia di emancipazione del paese, dell’appoggio fornito ai sovversivi dal governo USA, delle provocazioni attuate tramite governi di paesi vicini, amici di Washington. Ribadirà la determinazione delle forze rivoluzionarie di stroncare golpisti, sabotatori, terroristi, fascisti, che si annidino nella polizia metropolitana, nei media, t ra i grassi capitali sti di Plaza Altamira (il centro geografico dei quartieri alti a Caracas). Ma insisterà con altrettanto vigore sull’urgenza dell’unità pat riottica, urgenza che adombra uno dei principali indirizzi della politica governativa, quello che punta al recupero dei ceti medi produttivi, danneggiati dalla morsa delle multinazionali statunitensi, e all’isolamento di una numericamente infima, ma finanziariamente forte e politicamente priva di scrupoli, borghesia compradora. Si tratta di una strategia di fondo per il “paese delle tre società”: la società disorganizzata, il proletariato urbano e agricolo, gli indios; la società organizzata, il ceto medio; la società degli affari, o business community, che alla seconda è alleata e ancora intimamente intrecciata. Le priorità della rivoluzione, come ci sono state ribadite da molti interlocutori al vertice dello Stato, sono l’organizzazione del popolo (e i Circoli bolivariani sono lo strumento per questa vera e propria formazione ideologico-pratica) e lo scioglimento del nodo che unisce i ceti medi, anch’essi rapinati dai poteri che si sono susseguiti per un secolo, ma avidi di promozione sociale, all’oligarchia latifondista e finanziaria, da sempre rompighiaccio della penetrazione di Washington.

GOLPISTI SCONFITTI
L’anno scorso di questi tempi avevo visto Chavez e il gruppo di suoi giovani collaboratori proiettati al contrattacco. Fallito il golpe e il successivo sequestro di Chavez, liberato da reparti lealisti delle forze armate e da una sterminata discesa di popolo dalle favelas (ranchos li chiamano qui) che pencolano dalle colline franose sulla metropoli dei grattacieli, l’oligarchia in corso di spodestamento aveva tentato la carta cilena: il blocco del paese a iniziare dalla serrata della PDVSA, la società di Stato degli idrocarburi che, nella gestione ladrona dei suoi antichi manager, era riuscita a ridurre gli introiti statali del quinto produttore di petrolio del mondo al 17%, rispetto al 60% – 70% dovuto (il resto finiva nelle tasche dei dirigenti, che lo investivano a titolo e profitto personale in società estere). Due mesi, fino al febbraio 2003, era durato il sabotaggio, coinvolgendo tutti i settori produttivi, privando il paese di carburante, viveri, farmaci, mobilità. Furono proprio i ceti medi, artigiani, commercianti, piccole imprese produttrici a restare disincantati per primi: la serrata li aveva privati dei guadagni del periodo Natale-befana e dei successivi saldi, voce cruciale del bilancio annuale. Intanto, con l’aiuto di tecnici algerini e di rifornimenti brasiliani, Chavez aveva parzialmente svuotato di forza il blocco della PDVSA, poi arrivato addirittura al sabotaggio criminale dei pozzi di Maracaibo, e pian piano ne aveva sostituito tutti i quadri con quella che venne definita “la seconda nazionalizzazione del petrolio venezuelano”. La Guardia Nacional, nei cui alti gradi, come in quelli del resto delle forze armate, il governo aveva inserito ufficiali indios e meticci, fino allora istituzionalmente subalterni, riapriva le stazioni di servizio e tornava a dar da bere a milioni di veicoli da settimane in fila, costringeva, a termini di legge, i proprietari dei depositi alimentari ad aprire e riattivare la distribuzione, proteggeva le manifestazioni popolari in appoggio alla rivoluzione contro le incursioni di teppisti agli ordini dell’oligarchia e della polizia metropolitana che, come quella di altri centri, non era che la milizia privata dell’oligarca sindaco, nel caso di Caracas il sindaco-boss Alfredo Pena (polizia metropolitana poi trovata in possesso di un arsenale di armi da guerra, fornite dagli USA, e disarmata dal governo, mentre una nuova legge prevede l’unificazione e “statalizzazione” di tutte le polizie. Come è noto, l’Italia, vessata da Bossi, marcia in senso contrario). I lavoratori della metropolitana, seguiti da quelli degli altri trasporti, in particolare da quelli della ferrovie, che ora il governo rilancia su vasta scala, rifiutarono il p a ro e diedero vita a un nuovo sindacato generale nazionale, l’Union Nacional de Trabajadores (UNT), che oggi si contrappone con forza ai residui della CTV, il corrotto sindacato del golpista Carlos Ortega (in fuga negli USA insieme ad altri protagonisti del golpe di aprile), alleato storico della Confindustria. Intanto la mobilitazione delle masse, con continui cortei e manifestazioni in tutto il paese, animate dai circoli bolivariani, dava all’azione del governo il necessario sostegno di massa. Successivamente fallì anche il tentativo di minare il potere rivoluzionario con un “referendum consultivo” che chiedeva la rimozione del presidente. Dei tre milioni di firme vantate dai promotori, il Comitato Elettorale Nazionale, ne trovò oltre due milioni scopertamente falsificate. Oggi, a un anno di distanza, l’oligarchia reazionaria ha abbassato i toni. Gli strepiti scomposti delle sei emittenti private, tutte in mano a oligopoli transnazionali come la Globo brasiliana e tutte ampiamente foraggiate dagli USA, che invitavano incessantemente alla defenestrazione violenta del presidente, sono stati ricondotti a toni più moderati da una legge che definisce “le responsabilità sociali” dei mezzi di comunicazione e punisce gli inviti aperti alla violenza. Contemporaneamente la rivoluzione, la cui voce si diffondeva soltanto attraverso modeste radio e televisioni di quartiere, come la gloriosa “Catia- TV” collocata in uno dei più poveri ranchos di Caracas, entrava nel mondo dei grandi media rafforzando l’unico canale pubblico e dandosi un quotidiano e alcuni periodici.
SUL MODELLO DI CUBA
Me ne capitano tra le mani alcuni, mentre, insieme a una folla sterminata, riunitasi da tutto il paese nell’ippodromo della capitale, assisto al coronamento dell’operazione “Robinson 2003”. Si chiamano Impacto, Viva Venezuela” o, pubblicazione dell’Istituto Nacional de Cooperaciòn Educativa, Robinson. Abbondano tra le pagine le immagini e le citazioni dei grandi delle rivoluzioni socialiste, da Lenin a Mao, da Gramsci a Marx, da Fidel e Che Guevara a Bolivar, a conferma delle radici ideologiche di una rivoluzione che si sforza di fondere le grandi teorie storiche della liberazione umana alle nuove elaborazioni dell’antagonismo sociale e politico contemporaneo. Non per nulla a Porto Alegre, l’anno scorso, il leader più acclamato fu proprio Hugo Chavez, a conferma dell’evoluzione di una cospicua parte dei movimenti, dal riformismo correttivo, ma compatibile, della cosiddetta “globalizzazione neoliberista”, a una prospettiva rivoluzionaria che da ben più senso allo slogan “un altro mondo è possibile” con la prospettiva socialista. “Non per nulla”, come mi spiega Rodrigo Chavez, coordinatore nazionale dei Circoli bolivariani e vero ideologo della trasformazione venezuelana, “qui da noi la democrazia partecipativa non è limitata al ruolo consultivo della cittadinanza su una percentuale insignificante del bilancio, mentre tutto il resto rimane in mano al capitale, ma comporta la partecipazione assembleare della popolazione a tutti i momenti della vita sociale e del relativo processo decisionale”. E allora eccoli, nelle parole del loro responsabile, i compiti di questi circoli, organismi che sono i segni di un disegno di costruzione di democrazia popolare: “In Venezuela abbiamo avuto molte rivolte popolari. Penso al famoso caracazo del 1909. La gente ne aveva troppo delle angherie dell’oligarchia, dello sfruttamento, della fame. Quella violenza fu una valvola di sfogo di infinite sofferenze e frustrazioni represse. Ma dopo tornò l’apatia, la rassegnazione. Noi, con i circoli, non ci limitiamo a rivitalizzare la memoria storica del nostro popolo, ma prepariamo la coscienza dei cittadini alla completa trasformazione dello Stato. Curiamo quattro aree di sviluppo: politica, sociale, economica, internazionale-antimperialista. L’obiettivo è di formare nuovi soggetti protagonisti a tutti i livelli, dal barrio al municipio, dalla provincia (così qui chiamano i 23 Stati, più il distretto federale di Caracas, in cui è suddivisa la repubblica federale. n.d.r.) al governo centrale, in modo che si possa costituire gradualmente un autentico potere popolare con un’economia sociale solidale, lo sviluppo delle capacità produttive nazionali finalizzate ai consumi interni, che ci porti all’autosufficienza, contro il 65% di generi alimentari che questo paese agricolo importava dall’est ero. Stiamo creando nuove reti di distribuzione e commercializzazione legate a realtà organizzate locali, associazioni, cooperative, assistite dalla legge sul microcredito, nel quadro delle leggi sulla terra e sulla pesca. È un processo inevitabilmente rivoluzionario, perché non si accontenta di aggiustamenti riformatori, ma modifica la società nel profondo. Non vogliamo un assistenzialismo di Stato, che è stato il massimo che regimi socialdemocratici hanno osato in questo continente, ma una società di uguali e protagonisti. Se si pensa che in un paese di 25 milioni di abitanti, 10.000 persone avevano la proprietà dell’80% delle terre coltivabili, si ha l’idea delle dimensioni del problema che la rivoluzione sta affrontando. In tutto questo non c’è bisogno di violenza, o di rotture democratiche. Noi ci atteniamo rigorosamente alla costituzione bolivariana e alla legge e seguiamo un processo pacifico e democratico. L’articolo 13 della Costituzione ci dà lo strumento per lottare contro l’abuso delle posizioni dominanti. Altri articoli ci autorizzano a una salvaguardia dell’ambiente che nessun interesse particolare può violare. L’ a r t i c o l o 158 prevede un decentramento, ma non una devolution all’italiana: il potere va alle masse nel quadro della pianificazione generale, non ai pochi arrivati a ruoli di rappresentanza e alla delega mediante la manipolazione del consenso. A livello internazionale, non possiamo certo vincere da soli la globalizzazione, ma possiamo rivendicare con forza e fino all’ultimo uomo il rispetto della nostra autodeterrminazione e della nostra sovranità. È una sovranità tutta da ricostruire sull’identità latinoamericana e contro i continui ritorni neocolonialisti dell’imperialismo. Sappiamo che qui abbiamo una responsabilità che va molto al di là delle nostre frontiere”.

CON CUBA E CONTRO GLI YANKEES
Nell’ippodromo che tracima di comitive bolivariane scese dalle Ande e venute fin dai llanos e dalle remote foreste tropicali dell’Amazzonia e dell’Orinoco, piovono paracadutisti, quell’arma che, insieme alla Guardia Nacional e all’aviazione, contribuì a sventare il tentativo golpista. E fanno riflettere, nell’entusiasmo che la folla tributa alle esibizioni dei parà, come in America Latina non valga sempre il sospetto ontologico nei confronti delle forze armate. Un minimo di contestualizzazione fa capire che la conquista del controllo sui militari da parte della sinistra rivoluzionaria, non meno che nella Rivoluzione d’ottobre, è un lavoro politico imprescindibile se ci si vuole proteggere dai ritorni della reazione e dai colpi di stato fomentati dall’imperialismo statunitense. Il solito boato saluta la comparsa di Hugo Chavez, venuto a premiare il milionesimo alfabetizzato nel corso del 2003 della Mision Robinson, la grande campagna di alfabetizzazione lanciata dal governo e che si è avvalsa, come analoghe operazioni per il recupero dei maturandi e dei laureandi usciti dalla scolarizzazione per insufficienza di mezzi finanziari, della partecipazione di centinaia di insegnanti e studenti volontari di Cuba. E Cuba ha anche fornito un buon numero di medici che, entro il 2003, hanno assicurato a 12 milioni di venezuelani un presidio sanitario. È stato questo strettissimo legame con Cuba, forte anche dei rifornimenti di petrolio che Caracas fornisce all’isola sotto embargo a prezzo politico, che ha dato la spinta ai maggiori paesi latinoamericani a guadagnare una politica di dignità e di fermezza nei confronti dell’arroganza annessionista statunitense. Si è visto nel vertice delle Americhe a Monterrey, dove Bush si riprometteva di richiamare all’ordine messicano, o cileno, o ecuadoregno, o peruviano, i paesi che davano segni di crescente insubordinazione, anche attraverso il rafforzamento dei legami con Cuba. Argentina, Brasile e, più energico di tutti, Venezuela hanno difeso con forza la proprie posizioni e il proprio diritto a una politica estera autonoma, a cont rastare con l’alleanza economica del Mercosud, unito all’Alleanza delle Ande, i tentativi annessionistici degli USA portati con l’Area di Libero Scambio delle Americhe, il famigerato ALCA (cui Chavez ha opposto un diniego totale, mentre Lula si è mostrato disponibile a una “rinegoziazione”, e l’argentino Kirchner pare muoversi piuttosto sulla linea venezuelana, anche per quanto riguarda il rifiuto dei ricatti dell’FMI, che Lula, condizionato dall’alleanza con i partiti di destra, ha invece in parte dovuto subire).

USA E OLIGARCHI CONTRO LA RIVOLUZIONE
Washington è perfettamente consapevole che se il Brasile di Lula e l’Argentina di Kirchner presentano opzioni socialdemocratiche venate di nazionalismo anticoloniale, ancora recuperabili agli obiettivi dell’espansionismo USA, tali opzioni minacciano di rafforzarsi e radicalizzarsi nelle frequentazioni con Cuba e con il Venezuela, prospettando un asse antimperialista che dalla Terra del Fuoco arriva fin nel cortile di casa. Le forze che rappresentano gli interessi nordamericani in Venezuela sono dunque incoraggiate a riprendere l’offensiva dopo la sconfitta dei due tentativi precedenti. Un’offensiva che non viene sottovalutata da Chavez e dai suoi e che si articola su due fronti, uno interno e l’altro esterno. Quello interno è il famoso referendum revocatorio che l’oligarchia vuole imporre, dopo aver fallito il bersaglio del referendum consultivo. Previsto dalla Costituzione alla metà del mandato di qualsiasi rappresentante eletto, il revocatorio del presidente ha registrato, secondo gli organizzatori, la raccolta di oltre tre milioni di firme. Cifra che viene duramente contestata dal governo, ma anche da molti osservatori neutrali, perché di nuovo raggiunta con brogli e falsificazioni di ogni genere. Si sono viste carte d’identità riprodotte in centinaia di fotocopie, che hanno permesso agli stessi cittadini di firmare più e più volte. Numerosissime sono state le denunce di lavoratori cui si è imposto di firmare con il ricatto del licenziamento. Esiste dunque il rischio che il Comitato Elettorale Nazionale (CNE) invalidi buona parte delle firme, cancellando un referendum che richiede lo stesso numero di firme dei voti con cui il revocando è stato eletto. Dal canto suo, il Movimento V Repubblica ha raccolto le firme per un referendum revocatorio contro 26 parlament ari della Camera unica, alcuni dei quali sono passati dalla maggioranza all’opposizione e hanno sistematicamente sabotato il lavoro legislativo. Già los escualidos stanno esercitando pressioni enormi sul CNE e sull’opinione pubblica, anche internazionale, in ciò assistiti dai media e dai politici occidentali (un esempio per tutti, Massimo D’Alema, convinto sostenitore delle ragioni degli oligarchi spodestati sul quotidiano degli italiani del Venezuela La voce d’Italia) e minacciano sfracelli qualora “Chavez dovesse impedire al popolo di manifestare democraticamente la sua volontà”. Di fronte al rischio di essere accusato di rottura della legalità democratica, con conseguenti manifestazioni sediziose in tutto il paese nel caso che il CNE proclamasse la invalidità di un numero sufficiente di firme (la pronuncia dovrebbe avvenire nei prossimi giorni), il governo potrebbe accettare che lo stesso CNE, di non provata fede istituzionale, chiuda un occhio sui brogli. O che lo faccia la Corte Suprema di Giustizia, che l’opposizione investirà della faccenda qualora il responso del CNE fosse negativo. Gli indicatori attuali, del resto, puntano tutti in direzione di una vittoria di Chavez. Se, peraltro, il CNE dovesse accertare la dimensione di brogli denunciata e tener duro, si può essere certi che seguirebbero vaste manovre di destabilizzazione del paese, con l’accusa che il “tiranno” avrebbe imposto quel verdetto agli esaminatori. Che la longa manus USA non rinunci a pescare nel torbido veniva confermato intorno a Natale dalla scoperta di tre spedizioni clandestine di dollari dalla Bank of America (la stessa del Parmacrack) di Miami a un’agenzia di Caracas, denominata “Italcambio” e appartenente a un potente oligarca, tale Carlos Dorado, finanziatore dell’opposizione e collaboratore del foglio di estrema destra El Universal. I dollari, per complessivi 18 milioni di dollari e che dovevano passare illegalmente la dogana aeroportuale in pacchi da 45 chili, erano, secondo gli inquirenti, destinati agli ambienti golpisti. Che quest’estate si svolgano o meno i referendum revocatori, un’altra occasione di scontro duro con l’opposizione verrà al governo dalle imminenti elezioni per il rinnovo dei governatori dei 24 Stat i della Federazione, per i quali competono contro il Movimento V Repubblica, sostenuto dal Partito Comunista Venezuelano e dalla formazione di sinistra Patria para todos, gli screditati partiti cattolico e socialdemocratico, più un gruppuscolo trotzkista chiamato Bandera Roja, riuniti ora nella Coordinadora Democratica, che avevano prodotto le direzioni politiche nei decenni della corruzione e della svendita del paese agli interessi statunitensi. La maggioranza, che finora ne controllava 13, spera di poter neutralizzare i numerosi focolai eversivi che, anche a livello armato, i governatori legati al golpismo alimentavano in alcuni dei restanti 11.

VERSO UN CONFLITTO CON LA COLOMBIA AMERICANA?
A livello internazionale, gli USA appaiono ancora più visibili. Agiscono su due fronti. Da un lato cercano di costituire alleanze anti-Chavez, ricorrendo a pressioni sui governi più allineati, Cile, Colombia, Perù, e accusando il Venezuela, come recentemente hanno fatto Bush e Colin Powell, di lavorare alla destabilizzazione di “regimi democratici”, soprattutto in Bolivia e Colombia. Per quanto riguarda la Bolivia, viene criminalizzata l’amicizia che Chavez ha instaurato con il leader dell’opposizione di sinistra, Evo Morales, di cui ha condiviso il “sogno di poter fare il bagno in una spiaggia boliviana” (riferimento alla rivendicazione della Bolivia dell’accesso al mare sottrattogli dal Cile oltre un secolo fa). Il gioco si fa più duro con la Colombia, il cui presidente Uribe, partorito dagli ambienti del narcotraffico e massimo collaborazionista della penetrazione statunitense in America Latina, da qualche tempo intensifica le accuse al Venezuela di dare rifugio e sostenere i guerriglieri delle FARC e di effettuare incursioni nel proprio territorio. La verità è un’altra: sono i paramilitari venezuelani, negli ultimi mesi, ad essere entrati in territorio venezuelano attaccando villaggi e guarnigioni dell’esercito e uccidendo, in occasioni diverse, mezza dozzina di militari del Venezuela. Non è affatto escluso che la Colombia, già zeppa di “consiglieri” statunitensi in virtù del famigerato Plan Colombia, sia sollecitata da Washington a intensificare queste provocazioni armate, fino ad arrivare, nel caso della probabile sconfitta referendaria ed elettorale dei golpisti d’aprile, a una vera e propria resa dei conti militare con Chavez, alla quale non mancherebbe di certo la partecipazione “umanitaria” dei guerrafondai di Washington. La Resistenza irachena ha finora imposto un alt ai fremiti aggressivi USA. Se la resistenza irachena durerà, come è sperabile, alla rivoluzione bolivariana sarà concesso altro respiro e altro spazio di manovra per superare le prossime scadenze e rafforzarsi. In quel caso, un anno pieno di insidie sarà stato superato.