Venezuela, la dittatura che non c’è

I risultati ufficiali resi noti stanotte a Caracas, dicono che i NO alla trasformazione in senso socialista della Costituzione bolivariana del 1999, voluta dal presidente Hugo Chávez, avrebbero vinto con una differenza di appena 124.962 voti su quasi nove milioni, ottenendo il 50.7% di voti contro il 49,3% di Sì. Dato decisivo è stato la crescita dell’astensione, al 45% contro il 30% circa di tutte le consultazioni importanti degli ultimi anni.

Il presidente Chávez ha riconosciuto la sconfitta, ma non ha avuto bisogno di invitare alla calma i suoi giacché anche quella di ieri è stata una giornata elettorale tranquilla a Caracas, e un esercizio di democrazia piena, inclusiva, alla quale da meno di un decennio a questa parte partecipano anche gli esclusi di sempre.

IL 51% NON BASTA Il risultato del referendum induce a due riflessioni importanti, la prima politica, la seconda mediatica. Il voto di ieri ha detto che la proposta integrazionista bolivariana, sia sociale che regionale latinoamericana, raccoglie il consenso dei due terzi dei venezuelani, mentre la trasformazione in uno stato socialista perde spezzoni di consenso soprattutto nell’ala socialdemocratica del movimento. E’ come se il progetto bolivariano avesse ieri segnato il suo confine massimo, la sua linea di massima espansione.

Le prossime settimane diranno se sarà più forte la possibilità di riassorbimento dell’ala socialdemocratica nel movimento bolivariano, o se premierà l’avanguardismo dell’ala rivoluzionaria, che sostiene che non c’è rivoluzione per via elettorale. Tale ala è stata finora sempre controllata dai ripetuti successi e dagli evidenti miglioramenti materiali nelle condizioni di vita delle classi popolari in questi anni di governo bolivariano.

Il dato politico più significativo è stato allora rilevato dallo stesso presidente nel suo discorso di stanotte: “in una situazione di sostanziale pareggio è preferibile aver perso piuttosto che aver dovuto sostenere e gestire una vittoria così importante con un margine così stretto”. E’ un riflesso allendista e ancor di più berlingueriano: “la rivoluzione per via elettorale non si può fare con il 51% dei voti”. Durante la campagna elettorale cilena del 1970 i Quilapayun cantavano: “questa volta non si tratta di fare un presidente (che può e deve governare con il 51% dei voti), ma di fare un Cile ben differente”. Anche in Venezuela ieri non si trattava di fare un presidente, ma di trasformare il paese. Cosa che non si può fare in pace e in democrazia -che piaccia o no, la caratteristica principale del chavismo- con un margine ristretto di voti.

Ciò detto, non può passare una lettura riduzionista della sconfitta di ieri. Chávez ieri ha fatto il passo più lungo della gamba e riassorbire il contraccolpo della sconfitta non sarà facile. Invece di consolidare il processo è partito all’assalto del cielo e per il momento ha dovuto rinunciare.

La sconfitta elettorale rappresenta ora un’incognita e probabilmente non era necessario sottoporvisi per intuirlo, ma in questi anni un elettoralismo esasperato è stato l’arma legittima e legittimante per difendersi dalla continua manipolazione ed aggressione contro il movimento bolivariano.

L’opposizione segna così un punto dopo anni di sconfitte. Continua però ad essere impresentabile, anche nelle proprie parti meglio spendibili, come testimonia un movimento studentesco farsescamente preoccupato perché l’Università resti elitaria e non diventi di massa (sic!).

MA LA DITTATURA DOV’È? E veniamo al secondo punto, non meno importante del primo. Dunque la CNE (la commissione elettorale), non è un burattino del regime, se tranquillamente verbalizza una sconfitta per poche migliaia di voti. Dunque Hugo Chávez non è un feroce dittatore se ha tranquillamente riconosciuto la sconfitta e non ha scatenato le millantate milizie. Balle, tutte balle e qualcuno -se non fosse troppo in malafede- lo dovrebbe ammettere, dalla stampa venezuelana a quella internazionale a quella italiana, i Pierluigi Battista, i Gianni Riotta, gli Omero Ciai, le Angela Nocioni e ainda mais.

La sconfitta di strettissimo margine nel referendum svela nella maniera più chiara la bassezza di un decennio di manipolazioni dell’informazione in senso antichavista, l’invenzione a sangue freddo di una inesistente dittatura chavista, la balla della presunta mancanza di libertà d’espressione in Venezuela. Dov’è la dittatura? Dov’è il regime? Dov’è la repressione? Il giornalismo all’anglosassone non si faceva con i fatti piuttosto che con le opinioni? Forza, fuori i fatti!

In Venezuela, giova ricordarlo una volta di più, ci sono decine di partiti di opposizione, le elezioni sono le più monitorate del mondo, continua ad esserci un semimonopolio mediatico di TV e giornali dell’opposizione, c’è piena libertà di stampa e perfino piena libertà di mercato. L’opposizione continua ad avere dalla sua l’appoggio degli Stati Uniti, delle gerarchie cattoliche, della confindustria locale, dell’FMI e delle multinazionali straniere. Guarda caso gli stessi soggetti che organizzarono e sostennero il golpe dell’11 aprile 2002.

La sconfitta nel referendum svela allora in maniera chiara che contro la democrazia venezuelana è stato costruito un cordone sanitario di menzogne teso ad impedire con ogni mezzo che l’infezione di un governo che ha fatto dell’integrazione sociale e regionale la propria ragione d’essere si espandesse.

E allora quel che emerge è altro ed è gravissimo. L’antichavismo dei grandi media di comunicazione è sempre stato un antichavismo ideologico. In questi anni non hanno mai raccontato il Venezuela bolivariano, non hanno mai criticato Chávez per i mille difetti o errori che può avere commesso in questi anni. Quelli non importavano; era più facile costruire una maschera di bugie intorno al verboso negraccio dell’Orinoco, più che parlare di cose concrete, del fallimento storico del neoliberismo, per spiegare cosa fosse la democrazia partecipativa e degli sforzi sovrumani per restituire dignità a milioni di vittime del modello instaurato in America latina.

Oggi si svela chiara come il sole la grande contraddizione del sistema mediatico mainstream: i grandi media commerciali non sono mai stati indipendenti ma rispondono ideologicamente al pensiero unico neoliberale. Siccome il pensiero unico si è autoattribuito il copyright del termine democrazia chiunque osi mettere in dubbio che neoliberismo e democrazia siano sinonimi va castigato, denigrato, demonizzato.

E allora proprio la sconfitta nel referendum si converte invece in un’ulteriore legittimazione per il movimento integrazionista di tutta l’America latina della democrazia venezuelana e di Hugo Chávez in particolare. E chi in questi anni ha sparso veleno e menzogne e lo ha descritto come un regime e una dittatura dovrebbe cospargersi il capo di cenere. Sarà dura…