*Senatore Prc – SE. Commissione Lavoro del Sena
La tragedia della ThyssenKrupp ripropone nella forma più drammatica la questione del lavoro e del suo valore nella società della globalizzazione. La condizione di precarietà è cosi forte e investe tutta la sfera della vita, non solo il lavoro, tanto da costringere, come alla Thyssen, lavoratori a turni di 16 ore nel laminatoio per carenza di organico, per mantenere aperto al più lungo possibile un sito produttivo che inevitabilmente chiuderà. I padroni tedeschi così cessano ogni manutenzione, l’impianto va spremuto il più possibile, sarebbe da rottamare, ma fornisce ancora profitto. I tubi che portano olio idraulico ad alte temperature e ad altissima pressione sono tenuti insieme con mezzi di fortuna. I contratti prevedevano una squadra di manutenzione e una antincendio che non c’erano. Un tubo è esploso schizzando olio su un piccolo incendio, cosa frequente, che è poi divenuto un rogo, causando una strage. L’INPS nelle sue ispezioni rileva che l’azienda paga i contributi, ma non che l’orario di lavoro è prolungato stabilmente; tanto che gli operai sono costretti ad indire lo sciopero dei sabati per impedire i 18 turni – 3 turni per 6 giorni – che i padroni delle ferriere volevano imporre, né si accorge del contrasto tra straordinari strutturali e mobilità di decine e decine di lavoratori, pagata dall’INPS stesso. Da mesi i metalmeccanici rivendicano un loro diritto collettivo, il rinnovo del CCNL, come elemento fondante della redistribuzione del reddito, e di più avanzate condizioni di lavoro, riproponendo un loro autonomo punto di vista che, dal lavoro, dai suoi rapporti di produzione investa la società e i suoi valori. Oggi nella riorganizzazione capitalistica che chiamiamo globalizzazione i contratti collettivi sono un impaccio, un vincolo che questo capitale non tollera perché vuole rapporti di lavoro individualizzati, dove è più forte il ricatto, la subordinazione, l’alienazione, dove il lavoro è merce, dove i diritti collettivi, la civiltà del lavoro, semplicemente non esistono. Non è emblematico che le organizzazioni sindacali minaccino lo sciopero generale contro il Governo se non interviene con la detassazione su salari, stipendi, pensioni – non come inizio di un nuovo e moderno intervento pubblico in economia, assolutamente necessario per rispondere alla crisi di società che viviamo – ma come semplice lenitivo all’assenza di politiche redistributive su cui hanno alcune responsabilità. Intendiamoci, la rivendicazione e la forma di lotta sono sacrosante, ma stupisce che non abbiano posto la questione salariale con la stessa forza e determinazione durante il confronto sul protocollo del welfare. Ancora più stupisce che la stessa forza collettiva non si eserciti nei confronti delle associazioni datoriali per una rapida e positiva chiusura dei rinnovi contrattuali, alcuni dei quali attendono da anni di essere definiti. Sembra quasi che sia una vicenda delle sole categorie interessate mentre è una questione che riguarda la società e il come rispondere alla sua crisi e, quindi, direttamente la politica e noi comunisti tra i primi. Le imprese si dicono d’accordo sulla riduzione del prelievo fiscale sui salari solo se questo riguarda anche loro. Proprio senza vergogna, dopo aver goduto delle riduzione del cuneo fiscale a pioggia andato tutto in profitti. No, è ora che le imprese tirino fuori i soldi per remunerare di più il lavoro, e rinnovino i contratti, su questo il Governo si deve misurare: una politica che valorizzi il lavoro e per questa via risponda ai problemi aperti nella società. Va ricordato che il Governo ha iniziato ad affrontare alcuni problemi: assunzione di 350.000 precari nelle pubbliche amministrazioni e nelle scuole, un nuovo ordine normativo sulle stesse questioni della sicurezza sul lavoro, contrasto al lavoro nero, assunzione di centinaia di nuovi ispettori del lavoro, protocolli d’intesa avanzati nelle aree maggiormente a rischio per la vita e la salute dei lavoratori, come il porto di Genova, Taranto, Terni, Napoli; ma è di tutta evidenza come sia insufficiente rispetto alla gravità della situazione. La stessa Procura di Torino denuncia che è frequente che personale delle ASL addetto ai controlli sia consulente delle aziende, provocando così un cortocircuito tra controllati e controllori e oscurando il duro lavoro dei tanti che, con serietà e spesso abnegazione, contribuiscono a rendere più sicuri i luoghi di lavoro. Si riproduce cosi una vecchia malattia del paese: la diffusa disapplicazione della legge nei fatti e l’impunità per i datori di lavoro. Nel 1886 il Parlamento approvò la prima legge per proteggere il lavoro dei fanciulli tra le minacce dei padroni dell’epoca. Di questi giorni la pubblicazione di uno studio che denuncia come 500 mila bambini tra 11 e 15 anni siano sottratti allo studio e al divertimento per essere avviati al lavoro, 80 mila di questi sono immigrati. Credo che, con la strage della Thyssen, muoia definitivamente anche l’idea di civiltà del lavoro attorno alla quale si è organizzato il movimento operaio nel dopoguerra. Manca la politica nel suo punto più alto: la capacità di costruire un progetto di società che riunifichi le figure sociali scomposte dalla globalizzazione, il concreto fare per costruire nuovi spazi di democrazia e di uguaglianza, un antico e moderno progetto di liberazione dal e del lavoro. Se una direttiva europea aumenta l’orario di lavoro e diminuisce il tempo di riposo tra un turno e un altro e la si recepisce in Italia cancellando il prolungamento di orario, oltre un certo limite, come reato penale e riducendolo ad una semplice sanzione da 67 euro – meno di un divieto di sosta – non dovremmo aprire in Parlamento una discussione e una battaglia politica per regolare, diversamente dalla Europa liberista, gli orari e le pene per chi non rispetta la legislazione sul lavoro? Si aprirà tra breve la verifica tra le forze dell’Unione ed il Governo. Appare, a me, chiara la necessità di una nuova qualità del programma, che sappia affrontare le cause della condizione di precarietà e non solo le misure, pure necessarie, per attenuarne gli effetti. Affrontare la crisi di società e ricostruire un nesso tra condizione sociale e rappresentanza politica – viene da dire una connessione sentimentale – vuole dire per prima cosa affrontare la condizione di lavoro, restituire una prospettiva di futuro alle giovani generazioni che oggi ne sono private dalla condizione di precarietà. Del resto su cosa nascerebbe una nuova aggregazione politica a sinistra se non rileggesse la contraddizione capitale-lavoro in una nuova ottica globale, misurando sino in fondo la questione ambiente e lavoro, democrazia e diritti collettivi, redistribuzione e nuove povertà, rapporti tra nord e sud del mondo. E’ necessario, se si vuole ricostruire il soggetto della trasformazione, se si vuole ripensare il cambiamento. Un paese che si vuole civile può tollerare oltre 1.000 morti sul lavoro all’anno? Un milione di infortuni, 28 mila malattie professionali riconosciute? Basterebbe dire la parola amianto per evocare la indicibile condizione di lavoro, l’inerzia delle istituzioni, la vita e la salute ridotte a variabile dipendente del profitto. Può dirsi civile un paese che nel suo PIL conteggia le rendite INAIL per morti sul lavoro e per inabilità lavorativa dovuta ad infortuni? Del resto gli operai morti alla Thyssen percepivano un salario di 1.500 euro, da morti sul lavoro una rendita di 1.800. C’è da provare repulsione per un sistema che valuti il suo andamento sul PIL e non sulla sua condizione sociale. Ricostruire una nuova civiltà del lavoro è un nostro compito, la società capitalistica porta in sé i germi della sua natura autoritaria, si può combattere solo rilanciando sul terreno della democrazia, quando vi sono lacerazioni cosi profonde come nella società italiana, quando c’è un impoverimento generale dei ceti economicamente subordinati, non esiste democrazia sostanziale. Ripensare le modalità di esercizio della democrazia e i soggetti di essa è uno dei punti centrali della nostra discussione. Si è deciso di tenere la conferenza operaia a Torino, questo è un passaggio importante. Utile per riaprire una ricerca sul lavoro e sui lavoratori, può riprendere un radicamento nei luoghi di lavoro dei comunisti organizzati in partito, una ricostruzione dei saperi e poteri sedimentati, contribuendo così, alla individuazione del soggetto del cambiamento. Lo dobbiamo anche a quegli operai della Thyssen che in queste settimane hanno riproposto al paese – con grande dignità e forza – la questione del lavoro e della sua civiltà!!