Usa: un imperialismo classico

Se leggiamo i documenti prodotti a partire dai primi anni ’90 dalla Casa Bianca e dal ministero della difesa statunitense1 – ormai noti ad un pubblico più vasto che non quello degli addetti ai lavori e, finalmente!, entrati almeno in parte nel dibattito politico di queste ultime settimane – l’amministrazione USA non sta facendo altro che attuare un disegno strategico, enunciato a chiare lettere, che mira a preservare ed estendere su tutto il mondo la centralità e il predominio dello Stato nordamericano.
Il disegno strategico elaborato nei primi anni ’90 può essere a grosse linee sintetizzato nel modo seguente: dopo la fine dell’URSS e del blocco sovietico, gli USA sono rimasti l’unica superpotenza mondiale; il loro obiettivo è di continuare ad esserlo per tutto il XXI secolo, che dovrà essere il secolo americano par excellence; dunque, tutti gli sforzi in politica estera devono essere protesi ad estendere l’influenza degli USA nel mondo e ad impedire che sorgano e si sviluppino altre potenze che possano mettere in discussione il primato degli USA; a questo scopo gli USA getteranno sul piatto della bilancia delle relazioni internazionali tutto il peso della loro ineguagliabile potenza militare.
Dieci anni dopo, a ridosso dell’11 settembre, sotto l’influenza più marcata dei “neoconservatori” americani dell’International Enterprise Institut2 e – ben più importante! – di una crisi economica pesantissima che ha visto nel giro di un paio d’anni dimezzarsi i valori dei principali indici di borsa e ridursi di 1/3 l’utilizzazione degli impianti industriali, con il contemporaneo attacco che la presenza dell’euro portava al primato assoluto e al signoraggio del dollaro, la strategia USA ha assunto un carattere decisamente più aggressivo e guerrafondaio: infatti, non si trattava più di mantenere il primato controllando e contrastando il sorgere di altre potenze, bensì di portare la guerra nelle aree di interesse economico (dal controllo delle materie prime ai corridoi energetici e comunicazioni) e geostrategico (basi militari per il controllo diretto del pianeta, che non s’intende più delegare a paesi alleati e partner subalterni) per rapinare materie prime e conquistare mercati e sbocchi di capitali, sottraendoli al contempo all’influenza di altre potenze capitalistiche.
Sotto questo aspetto vi è un ritorno ad un imperialismo classico, nell’evidenza di una guerra di invasione ed occupazione militare orgogliosamente a stelle e strisce – casomai, con l’ausilio di qualche quisling – che ha già previsto governatori e proconsoli americani alle dirette dipendenze del Pentagono, con un piano pluriennale di “ricostruzione del paese” affidato ad imprese USA e profumatamente pagato con il petrolio iracheno. Non è un caso che il termine “imperialismo” – divenuto un tabù anche a sinistra negli ultimi anni – venga sempre più frequentemente usato da molti commentatori e giornalisti.
Preparato da documenti e discorsi prima e dopo la “grande opportunità”3 fornita su un piatto d’argento dagli attentati dell’11 settembre, il documento sulla sicurezza strategica di Bush figlio, rispetto a quello di un decennio precedente di Bush padre segna un salto di qualità significativo e preoccupante: il mondo, si dice nel documento, produrrà terrorismo finché ci saranno tirannide ed economie centralmente controllate dagli Stati; bisogna quindi esportare con la forza democrazia e libero mercato (un binomio indissolubile nell’ideologia neoliberista, dove il secondo termine è prioritario e fondante, mentre il primo è in posizione subordinata); tutto il pianeta va perciò ridisegnato in funzione di questo obiettivo; questo è, si dice testualmente, il “peculiare internazionalismo americano”.. In questo senso in alcuni talk show televisivi si è parlato di “guerra rivoluzionaria” degli USA, tesa a demolire un vecchio ordine per fondarne uno nuovo. Più che “guerra preventiva” contro il terrorismo è una vera e propria guerra di lunga durata (un “Mein Kampf” del XXI secolo) tesa a rimodellare il mondo in funzione degli interessi degli USA. Una guerra che gli USA faranno in ogni caso: insieme con alleati subalterni, se questi vogliono accomodarsi sullo strapuntino della grande potenza, o senza; col consenso degli organismi internazionali (ONU) e delle alleanze costituite (NATO) se questi si piegano ai voleri degli USA, oppure senza di essi. Prioritari sono gli “interessi nazionali” degli USA, che costituiscono l’unico metro e punto di riferimento per qualsiasi azione (da cui discende anche coerentemente il rifiuto di sottostare alla giurisdizione di qualsiasi organismo sovranazionale, quale la corte penale internazionale dell’Aja). Il salto di qualità degli ultimi anni4 è nell’accelerazione di una politica aggressiva apertamente dichiarata e implacabilmente praticata. Bush mantiene le sue promesse!
La strategia esposta all’indomani della caduta del muro di Berlino (e preparata da tempo nei circoli dei cosiddetti “neoconservatori” americani) si è via via arricchita e perfezionata nel corso del tempo, con una gamma di pretesti e menzogne di guerra che sono passati dal tema del ripristino della legalità internazionale nel 1990-1991 (allora l’Iraq aveva, con la benedizione dell’ambasciata USA, invaso la sua ex provincia del Kuwait, dopo mesi di provocazioni da parte di quest’ultimo), a quello della “guerra umanitaria” nel 1999 contro la Jugoslavia, accusata di opprimere la popolazione albanese del Kosovo (oggi, 4 anni dopo, la pulizia etnica delle popolazioni non albanesi è un dato irreversibile, ma nessun giornale ne parla5), alla “guerra al terrorismo” in Afghanistan e repubbliche centroasiatiche del 2001-2002, ben preparata nell’opinione pubblica dagli attentati (o autoattentati?) dell’11 settembre 2001, alla “guerra per la libertà” (visto che la variante “armi di distruzione di massa” era ancora poco convincente) di invasione e occupazione dell’Iraq.
Tra tutte queste 4 guerre – dal Medio Oriente ai Balcani, dai Balcani all’Asia centrale, da quest’ultima ancora al Medio Oriente – vi sono forti elementi di continuità, che si possono scorgere nel pieno dispiegamento della strategia usamericana di predominio mondiale. Al di là delle differenze di ogni singola situazione, le guerre sono state decise, pianificate, attuate dagli USA e dal loro esercito con l’apporto non determinante di alleati subordinati. Ad eccezione di quella del 1991 – che ha avuto un avallo da parte dell’ONU, le ultime tre sono state condotte senza un riconoscimento formale delle Nazioni Unite, anche se per Jugoslavia e Afghanistan una qualche pezza a colori è stata apposta successivamente, a cose fatte.
Tuttavia, a differenza della guerra contro la Jugoslavia, condotta dalla NATO, e della guerra per l’occupazione dell’Afghanistan e delle repubbliche centro-asiatiche ex sovietiche, svoltasi, anche se non in ambito NATO, col consenso o il non dissenso della cosiddetta “comunità internazionale”, imbarcando anche, oltre ai paesi dell’”Occidente”, Russia e Cina, l’ultima (in ordine di tempo, aspettando la Siria…) guerra contro l’Iraq ha palesato un manifesto dissenso, sia tra i popoli dei principali paesi capitalistici avanzati (compresa una minoranza non meramente simbolica negli USA), sia tra alcuni dei paesi del G7, quali Francia e Germania. Sono entrati manifestamente – si potrebbe dire anche platealmente ed enfaticamente – in crisi i rapporti tra alcune grandi potenze capitalistiche, quelle che meno di due anni fa apparivano – ma l’apparenza inganna!, come suggerisce il buon senso – al popolo “no global” di Genova6 compatte e unite in un solido consesso di 7 Grandi (anzi 8, con la Russia di Putin).
La novità più rilevante della guerra USA contro l’Iraq è questa crisi, che ha investito direttamente i rapporti tra paesi dell’area dell’euro e gli USA, tra paesi all’interno dell’Unione europea, schierati a colpi di comunicati congiunti, dichiarazioni e manifesti pro o contro la guerra di Bush, tra paesi all’interno della NATO. L’ONU, con tutto il lavorio diplomatico, aperto e coperto, tra i due inediti e ancora informi “blocchi” che si sono costituiti pro o contro la guerra degli USA è stata la cassa di risonanza mondiale che ha reso palese ed esplicito lo scontro. Gli attacchi violentissimi di molti giornali e TV statunitensi nei confronti della Germania prima e poi, soprattutto, della Francia, con il corollario di una campagna di boicottaggio nei confronti di quest’ultima, accusata di “mettere i bastoni tra le ruote” hanno reso ancor più evidente la crisi all’interno del campo “occidentale”. “Ora Baghdad, domani Parigi”, si poteva leggere su adesivi e poster diffusi da qualche giornale americano.

Il secondo punto, strettamente legato al primo, è che l’amministrazione USA ha deciso di fare la guerra nonostante questo palese dissenso nel campo dei suoi alleati e nonostante l’isolamento in cui si è trovata nel consiglio di sicurezza dell’ONU, al cui interno non sono riusciti a racimolare i voti necessari per raggiungere almeno quella “maggioranza morale” che avrebbe consentito loro di parlare di una qualche legittimazione ad invadere l’Iraq, nonostante il veto della Francia, minacciato, ma non attuato, poiché gli USA e la Gran Bretagna hanno rinunciato a presentare una loro risoluzione.
In tal modo, gli USA hanno varcato il guado, dicendo al mondo che essi e soltanto essi sono la fonte di legittimità, di una legittimità che si fonda sull’uso di una forza militare ineguagliabile. In tal modo, l’amministrazione USA non solo ha teorizzato nel documento sulla sicurezza strategica il suo essere un potere autocentrato e autofondantesi, unica fonte assoluta (letteralmente: sciolta da ogni vincolo) del diritto internazionale, ma ha dimostrato di praticare senza remore e ripensamenti tale concezione dei rapporti internazionali. In tal modo, gli USA hanno mandato a dire apertamente al mondo che “i trattati sono pezzi di carta”; hanno mandato a dire che possono fare a meno di una foglia di fico “buonista” che ricopra, con deliberazioni di organismi internazionali opportunamente addomesticati e intimoriti, la palese violazione del diritto internazionale fondato sul principio di sovranità degli Stati e intangibilità delle loro frontiere. Principio numerose volte violato nei fatti nel secondo dopoguerra, ma formalmente rispettato attraverso risoluzioni ad hoc dell’ONU. Così, l’aggressione alla Repubblica Federale Jugoslava del 1999 si concludeva con una risoluzione che, se staccava di fatto il Kosovo dalla Serbia, lasciando campo libero all’occupazione della NATO e alla pulizia etnica dell’UCK, manteneva tuttavia la finzione della sovranità e integrità territoriale della Repubblica federale jugoslava, riaffermando il Kosovo quale provincia interna della Serbia.
Con l’invasione dell’Iraq e la rapida avanzata e occupazione di Baghdad, si afferma invece, anche formalmente, un nuovo diritto, il diritto dei vincitori sul campo di battaglia, che si autolegittimano in quanto vincitori. La legittimazione internazionale è un optional, o meglio: o la “comunità internazionale” riconosce il fatto compiuto e il diritto del vincitore come fondamento del diritto internazionale, oppure non ha voce in capitolo.
Dunque, la guerra vittoriosa contro l’Iraq – una guerra che per la sproporzione delle forze in campo è paragonabile a quella dei conquistadores armati di cannoni contro gli indios dotati di cerbottane – non serve solo a mettere sotto controllo usamericano un’area strategica di vitale importanza sotto il profilo economico e militare – ma ad affermare il nuovo-vecchio principio: il vincitore è fonte della legittimità internazionale. Principio che può affermarsi soltanto se c’è una potenza mondiale incontrastata e incontrastabile. Non sempre, infatti, i vincitori hanno potuto affermare questo principio; anzi, di rado. Poiché hanno dovuto fare i conti con una situazione in cui vi era un equilibrio di potenze, in cui allo sconfitto potevano essere imposti trattati di pace iniqui e penalizzanti (come a Versailles dopo la prima guerra mondiale, quando la Germania fu condannata a danni di guerra quale unica responsabile del conflitto), ma all’interno di una cornice formale di legittimità internazionale, in cui vincitore e vinto sul campo di battaglia si riconoscevano o fingevano di riconoscersi. Si applicava – iniquamente – un “diritto di guerra”, non si fondava un nuovo diritto.
La battaglia politico-diplomatica in corso tra fautori di un ruolo dell’ONU nella gestione del dopoguerra iracheno e l’amministrazione statunitense, che a più riprese ha sentenziato che spetta solo ai vincitori sul campo di battaglia ed eventualmente ai paesi loro subalterni amministrare il paese conquistato, ha come posta in gioco non solo il destino dell’Iraq, e non soprattutto il destino dell’Iraq, già deciso ormai dai vincitori, salvo qualche dettaglio per la spartizione delle briciole. La posta in gioco è il quadro delle relazioni internazionali, i luoghi, gli spazi, le forme in cui queste relazioni potranno dispiegarsi in futuro. Si è creata per la prima volta dal secondo dopoguerra – che aveva, nel periodo della guerra fredda, regole riconosciute e condivise nei rapporti tra “campo occidentale” e “blocco sovietico” e, nel primo decennio del dopo guerra fredda, la finzione del ricorso all’ONU (“decennio del diritto internazionale” era stato addirittura battezzato con ingannevole ottimismo quello che si apriva all’indomani della dissoluzione dell’URSS) – una situazione di incertezza e precarietà nei rapporti internazionali, potenzialmente ancor più dirompente del provvisorio “vuoto di potere” che regna a Baghdad ieri bombardata ed oggi saccheggiata.
E’ questa situazione senza regole definite che sembra preoccupare soprattutto i massimi esponenti DS e il presidente della Repubblica Ciampi: non la guerra neocoloniale di invasione e occupazione dell’Iraq, che Fassino chiama “liberazione”7, ma il fatto che questa occupazione non trovi una qualche legittimazione internazionale sulla base delle regole note e degli organismi internazionali esistenti, quali l’ONU, come era avvenuto per il Kosovo. I dirigenti della Quercia, al pari di buona parte dei media, non solo italiani, fingono di non avere occhi, né orecchie, fingono di non aver mai letto o sentito dire della strategia statunitense, della guerra “preventiva” di espansione mondiale, nella speranza che i cocci del disordine mondiale derivante dalla “violenza creativa” di Donald Rumsfeld possano rimettersi a posto. Si finge di credere alle favole che gli USA raccontano: che è stata una guerra per la libertà del popolo iracheno, che le truppe USA lasceranno il paese democratizzato all’autogoverno del popolo iracheno, che gli USA sono una grande democrazia… Li si scongiura soltanto di mantenere la finzione di un qualche multilateralismo, di un qualche ruolo affidato all’ONU, li si scongiura insomma, ad onta delle dichiarazioni boriose e impazienti di Condoleeza Rice, Rumsfeld, Bush e le nuove minacce alla Siria, di non affermare formalmente il diritto del vincitore, ma di limitarsi a farlo sostanzialmente, all’ombra di una qualche legalità internazionale.
Ma con la guerra all’Iraq l’amministrazione Bush ha varcato il Rubicone e, come scrive un giornale oltranzista USA, interpretando bene il sentire comune dei profeti della “missione manifesta” degli USA nel mondo: “La guerra è vinta […] Un potere senza precedenti nella storia è emerso da questo conflitto: le relazioni dell’America con il resto del mondo non saranno mai più le stesse. Nel bene e nel male…”8. Fare gli struzzi e nascondere la testa sotto la sabbia, invocando il ritorno a un ordine oramai smantellato – che nascondeva la contraddizione intercapitalistica dietro la cortina fumogena dell’idea di “Occidente”, unito contro il pericolo comunista o islamista, e che quella contraddizione rinserrava all’interno di una cornice di regole e valori condivisi contro il nemico di classe comune – non serve a nulla: Peggio, è oppio che annebbia le coscienze e rimuove il problema.

Con la conquista di Baghdad il mondo capitalistico è stato posto apertamente di fronte alla scelta se cercare di sedere sullo strapuntino concesso graziosamente dal vincitore ai vassalli più servili, partecipando alle briciole nella spartizione della torta, oppure attrezzarsi per una strategia di contenimento e resistenza all’espansionismo USA, incoraggiato e imbaldanzito dalla rapida vittoria e pronto, nella vertigine di successi, a nuove trionfali avventure militari, prima di tutto in Medio Oriente, per risistemare l’intera area sotto un forte controllo statunitense: la Siria è la prima vittima designata da una campagna di accuse e avvertimenti mafiosi che ricordano sin nei dettagli la campagna propagandistica contro l’Iraq. Tertium non datur. La quarta guerra mondiale è cominciata, come scrive l’ex capo della CIA James Woolsey, candidato alla guida della ricostruzione dell’Iraq. Solo che essa non ha solo per bersaglio “i tre nemici” da lui indicati: “i governanti religiosi dell’Iran, i fascisti in Iraq e Siria e gli estremisti islamici come al Quaeda”9, ma i capitalisti concorrenti dell’area dell’euro e, in prospettiva, l’”antagonista strategico”, la Cina.
Quand’anche si trovasse – ma sinora tutti i segnali che vengono dagli assatanati esponenti dell’amministrazione USA vanno in senso opposto – un qualche compromesso per una presenza dell’ONU nell’amministrazione dell’Iraq, esso partirebbe sempre dal presupposto di accettare come giusta e santa, legittimata ex post dalla vittoria militare, l’aggressione USA a un paese sovrano: non farebbe che sancire, insomma, il diritto della forza, con l’aggravante, però, che tale diritto della forza è stato pubblicamente e solennemente contestato da alcuni paesi capitalistici, che nella guerra imperialistica degli USA vedevano un attacco ai propri interessi nel Medio Oriente e nel mondo. Sarebbe insomma una piena capitolazione all’imperialismo USA, nascosta dietro la vecchia finzione di un “approccio multilaterale”, il riconoscimento del suo ruolo unico di decisore supremo e di padrone mondiale della guerra. Ci sono governi e forze politiche nei paesi capitalistici avanzati pronti, al pari di qualche poliziotto di Baghdad, a mettersi al servizio del vincitore, nell’ottica di una pax americana alla cui ombra si illudono di vivacchiare, se non di prosperare. Blair è il loro punto di riferimento. Fingono di credere, o vogliono credere, poco importa, che la guerra di espansione di lunga durata promossa dagli USA non sia che una parentesi – forse anche sbagliata ed eccessiva – cagionata dal trauma dell’11 settembre10 e che si possa trovare una qualche formula magica per recuperare la cooperazione transatlantica e il “multilateralismo”.
Non vedono, o non vogliono vedere, che la belle époque è finita, che una delle principali poste in gioco della guerra è il mantenimento del primato del dollaro come valuta di riserva nelle principali banche centrali e valuta di denominazione delle merci (tra cui, non ultimo per importanza, il petrolio) sul mercato mondiale. Soltanto così gli USA, un paese con un debito estero crescente di proporzioni immani, riescono a mantenere il loro tenore di vita e il più grande complesso militar-industriale del mondo, ad avere contemporaneamente “burro e cannoni”.. Primato incontrastato del dollaro come valuta di riferimento internazionale significa godere – unici al mondo – del privilegio di pagare le merci importate con carta stampata dalla banca centrale americana al di fuori di ogni controllo internazionale; significa vivere a spese del resto del mondo, ridotto al pagamento di un tributo agli USA. In fin dei conti, attraverso il signoraggio del dollaro, il mondo paga le spese del complesso militar-industriale degli USA, che serve a sua volta, con lo sfoggio della potenza militare, a mantenere il primato del dollaro. Ma ciò significa anche che la presenza e l’espansione dell’euro è percepita come un pericolo mortale per gli USA. Se sul terreno della competizione economica internazionale il dollaro non può avere forti carte da giocare contro l’euro, che, tra l’altro, con l’allargamento ad est potrà contare su un ulteriore e ampio allargamento della sua area, ecco intervenire l’asso nella manica, l’opzione militare. Essa serve non solo, banalmente, a sottomettere un paese per sfruttarne a fondo le risorse, ma è anche una dimostrazione di forza, un’esibizione di potenza, un segnale che si dà ai mercati mondiali che dietro il dollaro vi è la più imponente forza politica e militare del mondo, che, dunque, il biglietto verde è il più affidabile.

La guerra è la prosecuzione della concorrenza economica con altri mezzi, si potrebbe dire parafrasando il celebre e abusato detto di von Clausewitz. “Chi investirebbe oggi in Siria? Lei avrebbe voglia di andarci per turismo?”. Donald Rumsfeld, segretario americano alla Difesa11 finisce col dirci chiaramente quale ruolo gli USA attribuiscono al loro complesso militar-industriale e alla strategia di guerra permanente: basterà tenere nel mirino di un possibile attacco militare (e gli USA hanno dimostrato che mantengono le promesse!) un paese o un’area per sottrarla immediatamente ai concorrenti: chi investirebbe oggi in Siria? E che fine faranno i contratti stipulati da imprese francesi, russe, tedesche in Iraq? Se, come appare probabile sulla base delle più recenti dichiarazioni degli USA, saranno annullati in quanto “firmati dal dittatore del popolo iracheno”, sarà un ulteriore passo nell’affermazione di un nuovo diritto commerciale internazionale, basato sulla forza del vincitore, un’ulteriore picconata al sistema delle relazioni internazionali sui cui si è costruita l’economia capitalistica mondiale nel secondo dopoguerra. Con implicazioni che potrebbero essere devastanti anche nelle altre istituzioni che presiedono i movimenti dell’economia globale, dal FMI al WTO. Significherebbe che le regole della “comunità internazionale”, cioè del club dei principali paesi capitalistici del mondo, non solo si scrivono col ferro e con la spada, o con il mitra di Al Capone, ma si cambiano in corso d’opera. Rigirando la domanda a Rumsfeld: “chi avrà voglia di investire in queste condizioni?”
La vertigine di successi, cui devono oggi fare buon viso anche i paesi che alla guerra si sono opposti, potrebbe spingere la banda Bush a varcare pericolosamente anche altri guadi, minando le basi stesse delle relazioni capitalistiche mondiali. Il ricorso permanente alla guerra per mantenere il predominio del dollaro e alimentare un sistema economico in cui un ruolo trainante è stato assunto dal complesso militar-industriale, riscrivendo unilateralmente (o con l’affiancamento di vassalli totalmente subordinati) la mappa politica del pianeta, entra in contraddizione con il processo di mondializzazione e di ampliamento del “libero mercato”, dal momento che questa guerra unipolare tende a sovvertire, con la conclamata violazione non solo sostanziale, ma anche formale, del diritto internazionale, la consueta regolamentazione stessa degli scambi e contratti capitalistici; regolamentazione e contratti che sono nel codice genetico del capitalismo, alla cui base si pone il “libero” acquisto, contrattualmente sanzionato, di forza lavoro da parte del capitale attraverso il salario. Il capitalismo, e tanto più il mercato capitalistico mondiale, ha bisogno di regole e leggi il più possibile certe: la sua forza e la sua capacità espansiva non risiedono – come poteva essere per alcune società precapitalistiche – nell’appropriazione diretta e nella rapina manifesta di ricchezze altrui ottenute attraverso guerre di conquista, sottomissione e asservimento di interi popoli, ma nell’estorsione occulta di pluslavoro attraverso un contratto di scambio. La deregulation va bene al capitale per il mercato del lavoro, non per le relazioni intercapitalistiche. Paradossalmente, ma, a ben guardare, nient’affatto, la “guerra di liberazione” (Iraqui Freedom) proclamata da Bush per esportare in tutto il mondo il libero mercato e aprire spazi al capitale mondializzato, tende a produrre l’effetto opposto di limitare o paralizzare i mercati, nel momento in cui predominante è il “diritto della forza”, con la conseguente assenza di garanzie per gli investitori. La guerra per l’espansione della “globalizzazione” finisce col limitare la “globalizzazione”.

Con la guerra americana di lunga durata, il mondo è entrato in una fase di instabilità e incertezza generali, che riguardano le stesse relazioni intercapitalistiche. Una fase in cui chi promuove la guerra è intenzionato a riscrivere unilateralmente le regole del gioco, ma ha dalla sua la strapotenza militare, non l’onnipotenza economica. Su questo terreno Germania e Francia non sono disposte a cedere:
«“Il debito iracheno non si cancella” – La Germania apre un altro fronte polemico con Washington. Una cosa è rendersi disponibili per ricucire lo strappo con gli alleati americani, un’altra cancellare il debito con l’Iraq per fare un favore a Washington. E’ stato molto chiaro il ministro delle finanze Hans Eichel di fronte alla proposta del G7 di rilanciare l’economia irachena cominciando con il rimettere i debiti contratti in passato dal regime di Saddam Hussein con i paesi europei. […] “Le discussioni future dovranno riguardare non tanto il sollievo del debito, quanto la ristruttutrazione del paese”. Per non parlare del fatto – ha ricordato il ministro tedesco – che non sarebbe il G7 la sede appropriata per una simile discussione, ma eventualmente il Club di Parigi, l’istituzione che raccoglie tutti gli stati occidentali creditori”»12.
Perché FMI e Banca Mondiale possano concedere crediti per la ricostruzione dell’Iraq viene richiesta una nuova risoluzione delle Nazioni Unite13. La conquista di Baghdad è quindi solo un atto di una guerra interimperialistica, in cui quello militare non è che uno dei fronti.

Questa situazione di accelerato, generale rivolgimento e scardinamento del mondo attuale, prodotta dal tentativo degli USA di salvare se stessi riscrivendo regole e geografia politica del pianeta, pone i comunisti nel mondo, il movimento “no global”, di fronte a grandi responsabilità e compiti adeguati alla nuova fase.
Coordinare tutte le forze per smascherare di fronte al mondo e sconfiggere l’imperialismo planetario statunitense, il maggiore produttore di guerra nel mondo, il pericolo principale per la sopravvivenza della civiltà14 e del pianeta, è la conditio sine qua non per prospettare un radicale cambiamento nei rapporti economico-sociali nel mondo. E’ interesse di chi si pone la meta di “un altro mondo possibile”, lavorare per approfondire le contraddizioni interimperialistiche (di cui il terreno del confronto militare è solo un aspetto), dividere – grazie anche a un poderoso movimento di massa mondiale permanente per la pace – il fronte della guerra e isolare il nemico principale dell’umanità, evitando che – anche ideologicamente – esso riesca a presentare i propri interessi particolari quali interessi generali del mondo capitalistico, celandosi dietro la categoria di “Occidente”.
La belle époque è davvero finita.

Note

1 Cfr. National Security Strategy of the United States, di Bush sr., agosto 1991; Defense Plannning Guidance, stilato da Paul Wolfowitz, pubblicato in ampi stralci dal New York Times del 3.8.1992 (se ne può consultare una traduzione parziale in La Contraddizione, n. 95, marzo-aprile 2003); i documenti del Project for a New American Century – PNAC (progetto per un nuovo secolo americano), del 2000, in www.diocesofpueblo.com; Quadrennial Defense Review Report – America’s Security in the 21st Century, 30.9.01, p. 6, in http://www.defenselink.mil/pubs/qdr2001.pdf; The National Security Strategy of the United States of America, settembre 2002, www.withehouse.gov, trad. it. in Liberazione 10.10.2002.
security strategy 2002 …
2 Cfr. Angela Pascucci, “Chi sono e da dove vengono – Perle, Wolfowitz, Leeden, Kristol, Sikorsk, l’ala pensante dei neo-conservatori Usa”, il manifesto, 31.3.2003. Il Project for New American Century (Pnac), strettamente legato all’Aei (American Enterprise Institute, il think tank più influente della destra americana) fu creato da William Kristol e Robert Kagan e “tenuto a battesimo nel 1997 dal vicepresidente Dick Cheney, da Donald Rumsfeld, capo del Pentagono, da Paul Wolfowitz, vice-segretario alla difesa, da Lewis Libby, capo dello staff di Cheney. Il credo ufficiale del Project, un peana al reaganismo, si riassume nella convinzione del “ruolo unico dell’America nel preservare ed estendere un ordine internazionale favorevole alla nostra sicurezza, alla nostra prosperità, ai nostri principi”, con quel che ne discende. Nel `97 sembravano ancora deliri” ma “riemerse nel 2000, con Bush figlio, in un rapporto del Project che sarà interamente assunto dalla National Security Strategy che Bush annuncia nel settembre 2002, scardinando la dottrina di deterrenza in vigore nel dopo-guerra. Le macerie del World Trade Center sono la breccia attraverso cui passerà l’armamentario unilateralista, guerrafondaio, coperto da messianismo internazionalista, dei neo-cons. Aspetto non secondario della grande avanzata, i forti legami tra l’Aei e il Likud israeliano. E’ nel 1996 che Richard Perle e Douglas Feith, oggi potentissimo vice-segretario alla difesa per gli affari politici scrivono il programma per Benjamin Netanyahu, prossimo premier. In cui si raccomandava di archiviare gli accordi di Oslo e il concetto “terra in cambio di pace”, e di annettere definitivamente la striscia di Gaza e la Cisgiordania. Il Financial Times del 6/3/2003 rileva che, se molti della prima generazione di neo-cons erano ebrei, oggi lo sono praticamente tutti. Il 26 febbraio Bush dichiarava che l’imminente guerra all’Iraq era parte di una più vasta battaglia per portare al potere in Medioriente governi più filo-occidentali”.
3 Così la definisce esplicitamente la National Security Strategy (settembre 2002).
4 È un salto, non un’inversione di tendenza! E’ in linea con la struttura del capitalismo a base USA, caratterizzato dalla presenza sempre più massiccia del complesso militar-industriale, e con la politica estera americana almeno a partire dalla guerra fredda.
5 Sono pochi a rompere la congiura del silenzio. Tra questi Michel Collon e Vanessa Stojilkovic col loro video-denuncia “I dannati del Kosovo” (ora anche in edizione italiana).
6 Contro ogni evidenza vi è tuttavia ancora chi sostiene la tesi del “direttorio mondiale” unico per il dominio del mondo. Cfr. ad es. R. Mantovani (“Ora tocca a Damasco”, editoriale di Liberazione, 15.4.2003): “Possibile che non ci si accorga che il G7 finanziario, e il prossimo G8 politico, sono sempre più il direttorio mondiale che gli USA vogliono sostituire nei fatti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU?” [tondo mio, A.C.] Si può solo pacatamente notare che i principali paesi che in quest’ultima crisi mondiale si sono opposti alla guerra degli USA nel Consiglio di sicurezza dell’ONU – Francia, Germania, Russia – sono parte anche del G8 politico e che quindi non avrebbe alcun senso per l’amministrazione Bush tenere in vita un G7 o un G8 più di quanto non voglia tenere in vita l’ONU. Dobbiamo aspettarci invece alleanze “a geometria variabile”, sempre a direzione rigorosamente usamericana, come è stato con la guerra in Asia centrale del 2001-2002 e quest’ultima in Medio-Oriente, dove la banda Bush ha enfatizzato il formarsi di una “coalizione dei volenterosi” di una cinquantina di paesi (di cui 15 clandestini, e alcuni, come la Slovenia, arruolati senza neppure saperlo…).
7 Cfr. “Fassino: “L’Iraq è stato liberato ma la parola torni alla politica””, intervista in la Repubblica 13.4.2003, p. 13.
8 New York Post, 7.4.03, riportato da la Repubblica 8.4.03, p. 15.
9 Cfr. “La quarta guerra mondiale, obiettivo strategico USA”, in Liberazione, 4.4.2003, p. 2.
10 Questa manifesta volontà di non sapere è fortemente presente anche nel campo di quanti si sono schierati contro la guerra. E’ il caso dell’editoriale di Furio Colombo “No alla guerra perché” (l’Unità, 15.2.03), in cui accetta il postulato USA – platealmente smentito da tutti i documenti dei “think-tank” usamericani degli ultimi 13 anni – del trauma irreversibile dell’attentato dell’11 settembre quale “annuncio di sterminio, dichiarazione di sterminio” per il popolo americano. Non è un caso allora che, con tali presupposti, il direttore de l’Unità, giornale che si fregia del logo arcobaleno della pace, titoli in prima pagina il 10 aprile “Baghdad, meno male che è finita” con grande foto a colori di una donna e di una bambina – tra le mani un pacchetto di chew-gum – sorridenti e salutanti festose. Non si vedono i carri armati americani, né le macerie della guerra: una grande mistificazione di titolo e immagine, lì dove Liberazione e il manifesto riproducevano molto più significativamente la foto del marine che avvolge nella bandiera a stelle e strisce la testa della statua di Saddam Hussein: è conquista, non liberazione.
11 cfr. intervista a Rumsfeld di Bob Schieffer, CBS News, pubblicata su La Stampa del 14.4.03, p. 7.
12 Cfr. La Stampa del 14.4.03, p. 6.
13 Cfr. la dichiarazione del presidente della commissione finanziaria del consiglio dei governatori Gordon Brown, La Stampa del 14.4.03, p. 6.
14 All’ombra dei carri armati dei “liberatori” americani si è consumata la “violenza creativa” incoraggiata e sponsorizzata (e con ogni probabilità organizzata) da Rumsfeld, con il saccheggio del museo archeologico di Baghdad e l’incendio della biblioteca nazionale, dove si conservava un patrimonio di antichissimi testi e manoscritti di valore inestimabile: è solo la punta dell’iceberg degli effetti di distruzione di civiltà che la furia di Enduring Freedom può provocare.