Usa, Giappone, Unione Europea

1. Gli imperativi neoliberisti

Una corretta analisi di fase e dei processi di modifica degli assetti capitalistici deve mettere l’accento sui processi internazionali di una globalizzazione basata sul dominio geopolitico,geoeconomico e, quin-di sulla concorrenza sfrenata, con ricadute immediatamente percepibili a partire dagli effetti supposti e reali del movimento dei flussi finanziari e dei capitali. Si comprendono, così, più chiaramente le necessità insite alla gestione della crisi di accumulazione, in particolare degli USA e le crisi finanziarie pilotate, dal Messico all’Argentina, fino alle grandi aree di crisi come l’Afghani- stan, l’Eurasia e la sempre più tragica situazione palestinese con il ruolo subimperiale di Israele nel Medio Oriente. Tutto ciò è funzionale a sottomettere intere aree agli imperativi neoliberisti.
È in questo quadro che si inserisce una delle linee portanti della cosiddetta fase dell’accumulazione flessibile, cioè la completa riorganizzazione e deregolamentazione del sistema finanziario mondiale, con innovazioni di strumenti, di mercati, di intermediari e con un decentramento dei flussi.
Si è così evidenziata la necessità della strutturazione di un unico mercato mondiale finanziario e creditizio, anche se telematico e virtuale, facendo emergere i grandi conglomerati finanziari con un ruolo centrale degli investitori istituzionali, di fondi pensione, dei grandi speculatori istituzionali per controllare le economie, piegando paesi e intere aree del pianeta al dominio neoliberista (ultimo temporalmente è il caso dell’Argentina).
È così che il contenuto effettivo della competizione globale diventa comandato non tanto dalla mondializzazione degli scambi ma da quella delle operazioni del capitale, sia sotto la forma industriale che finanziaria.
Ma la competizione globale si afferma nel momento in cui si esaurisce la spinta della globalizzazione a guida unipolare USA.

2. Dal “superimperialismo” alla competizione globale

Dalla metà degli anni 80 e con la fine dell’Unione Sovietica si entra in una fase unipolare di dominio, la fase della globalizzazione a guida USA, in una sorta di modello, per così dire, da “superimperialismo”. Una globalizzazione in cui il modo di produzione capitalistico, le dinamiche di accumulazione, la struttura perversa del mercato del lavoro, la completa liberalizzazione e deregolamentazione dei movimenti di capitale speculativi e non, i livelli di concentrazione proprietaria e di delocalizzazione senza precedenti, rappresentano l’esportazione forzata del modello americano, l’imposizione al mondo intero di un “Made in USA” economico e culturale.
È in base ad analisi di questo tipo, incentrate su considerazioni legate a conflitti di egemonia a carattere geopolitico e geoeconomico, che si può sostenere certamente che già da prima della metà degli anni 90 la globalizzazione era finita. Ciò si è realizzato proprio a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto dopo i primi anni 90 le modalità delle dinamiche dello sviluppo.
Si è trattato di processi collegati nell’ambito di una ridefinizione del rapporto capitale-lavoro a favore del capitale e sempre finalizzato al controllo sociale interno ad ogni paese capitalista, e allo scontro esterno per la determinazione del dominio globale.
Un comando internazionale che si è esplicitato attraverso l’allargamento delle aree di influenza geoeconomica dei grandi blocchi degli USA, dei paesi-guida europei e del Giappone, o comunque della variabile asiatica.
Se globalizzazione, intesa come logica unipolare di dominio, c’è stata, questa ha, per quanto spiegato in precedenza, esaurito le sue funzioni fra la fine degli anni 80 e quasi la metà degli anni 90.
Finisce, quindi, con la globalizzazione dei mercati, anche la possibilità veicolata massmediaticamente di strutturare una nuova e moderna civiltà, con un’economia unificata sul piano internazionale, in un ambito di garanzie globali sovranazionali per risolvere in maniera equilibrata i problemi di sviluppo dell’intera umanità.
Lo sfaldamento del modello unipolare a guida USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano, quindi, già avvenendo da diversi anni prima del drammatico attentato dell 11 settembre 2001. Già da tempo si vedevano gli USA in forte difficoltà sul piano politico-economico ,con l’entrata in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno, da una tendenza fortemente al ribasso sulla quota imputabile di commercio internazionale, da diversificazioni e contrazioni dei flussi di IDE.
Anche sul piano politico-militare, la loro egemonia era messa in discussione dalle mire di affermazione e di espansione geopolitica e geoeconomica del polo dell’UE (vedi situazione nei Balcani come parte dell’espansione economica dell’UE nell’Europa Centro-Orientale alla ricerca di lavoro deregolamentato, a scarsi contenuti normativi e sindacali, poco remunerato ma altamente specializzato; vedi anche la volontà sempre esplicitata negli anni 90 di costituzione di un esercito del tutto autonomo all’interno dell’UE e le contraddizioni operative e strategiche fra paesi UE e USA nella NATO già nei primi anni 90).

3. USA: un “gigante dai piedi d’argilla”

Chiaramente è l’investimento la forza motrice della crescita, la nazione che più investe cresce economicamente, e se la sua produttività è più alta di quella di un altro paese si realizzano tassi di profitto costantemente più alti. E allora la rapida espansione degli Stati Uniti negli anni 90 è da attribuire, oltre all’enorme indebitamento interno ed esterno, anche ai forti investimenti in TIC (Tecnologie di informazione e comunicazione); tipologia di investimento che è comunque sottoposta alla regola che maggiore è l’investimento e maggiore è allora l’aumento di produttività, quindi maggiore è la crescita economica complessiva. Incrementi di produttività e una crescita economica quantitativa che , comunque, laddove si sono realizzati non si sono tradotti in alcun modo in forme redistributive al fattore lavoro.
La situazione interna degli USA, però, già dagli inizi degli anni 90, e in tutto il decennio, presentava dei gravi problemi sociali: basti ricordare che già nel 1992 il debito nazionale generale era di oltre 4.000 miliardi di dollari, l’assistenza sanitaria era carente e una gran parte della popolazione americana si ritrovava a non avere una corretta difesa di protezione sociale, il livello degli investimenti e dei risparmi erano inferiori a quelli dei paesi europei, e dal punto di vista produttivo vi era una bassa competitività. Se a ciò si aggiunge l’enorme indebitamento degli USA nei confronti del resto del mondo, coperto da appena il 4% delle riserve di valuta, e il sempre più alto disavanzo commerciale, si comprende quanto diventano forti negli anni 90 le debolezze dell’economia americana.
Si pensi ad esempio che la distanza esistente tra ricchi e poveri negli USA è aumentata a dismisura negli ultimi 30 anni; se nel 1969 infatti, l’1% della popolazione possedeva il 25% di ricchezza nazionale, nel 1999 questa percentuale è salita a circa il 40%, mentre l’indebitamento finanziario interno è passato da 12 a 22 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2000. Negli USA la disoccupazione ha registrato un notevole aumento; il tasso di disoccupazione nel 2002 è arrivato al 6%; si è registrata una sensibile diminuzione nei consumi, mentre il PIL cresce solo molto lentamente in un periodo in cui è stato addirittura negativo segnalando, anche ufficialmente, la fase recessiva.
A ciò vanno aggiunte altre questioni socio-economiche direttamente riconducibili alla quasi assenza negli USA di vere politiche di Welfare: oltre a una presenza diffusa di crimine e violenza, di droga e prostituzione, si consideri l’enorme problema della povertà e della sempre più intensa discriminazione razziale. Sempre più sono coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà: si tratta di diverse decine di milioni di persone. E negli ultimi tre anni la situazione si è fortemente aggravata a causa del drammatico legame fra disoccupazione, precarizzazione sempre più intensa del lavoro e precarizzazione globale del vivere sociale. E questo era il periodo che veniva spacciato come quello della grande crescita americana!
Si aggiunga un mercato di capitali “pompato”, dove anche i rialzi e le piccole riprese sono imputabili ai giochi a sostegno dei titoli delle imprese meglio proiettate nei nuovi scenari di economia di guerra post-globale.

4. UE: come spartirsi la torta!?

In questo contesto si apre la guerra di egemonia geoeconomica e geopolitica. È così che si entra nella fase aperta della competizione globale fra poli, cioè veri e propri blocchi economici. Questi elementi devono essere interpretati come l’avvisaglia della maturità definitiva della crisi e lo sviluppo di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo. È’ il cosiddetto paradigma dell’accumulazione flessibile, il cui funzionamento è sottomesso alle priorità del capitale privato e finanziario altamente concentrato, in cui l’UE sta cercando di giocare un ruolo di primo piano e in aperta competizione con gli USA.
Pertanto l’UE, e al suo interno l’Italia con il tentativo di svolgere un ruolo di primo piano, sta vivendo contemporaneamente il passaggio fra consolidamento ed affermazione definitiva di un proprio autonomo blocco geoeconomico e geopolitico e la contraddizione interna di uno sviluppo diseguale, e comun-
que basato su modalità divers. E allora per mantenere una situazione di assoluto dominio gli Stati Uniti debbono tentare di rilanciare non soltanto una rosea situazione economica e finanziaria sul piano interno, e per continuare a svolgere il ruolo di locomotiva sul piano internazionale devono nel contempo saper combinare la dimensione geopolitica e militare con quella geoeconomica usando l’economia di guerra per tentare di uscire dalla crisi. Così si spiega la “guerra diffusa e infinita”, lanciata a cominciare dall’Afghanistan, guerra che ha favorito il pesantissimo attacco israeliano nei confronti del popolo palestinese.
Trionfa, almeno momentaneamente, il sistema capitalista americano, che ora è maggiormente in grado di unificare e influenzare il mondo grazie alla sua potenza militare; ma ciò non significa certo rottura della politica di conflitto per poli geoeconomici realizzata con atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l’affermazione delle gerarchie a partire dal controllo delle risorse strategiche.

5. Sconfiggere il movimento operaio: “corsi e ricorsi storici”

E’ in questo contesto che può essere letta la tesi secondo la quale se “l’età dorata” del post seconda guerra mondiale è il punto di riferimento storico più recente per una fase lunga di crescita sostenuta, è però altrettanto vero che l’analogia storica migliore è quella del periodo 1883-1914 associata alle tecnologie dell’acciaio, dell’elettricità e dell’industria pesante. Tale fase è stata accompagnata da forti opzioni competitive e militari tra i paesi tecnologicamente più avanzati. Forse questa è l’analogia storica migliore per capire quello che sta avvenendo nell’ambito della competizione economica mondiale.
La sfida geoeconomica internazionale fra l’area del dollaro e l’area dell’euro si gioca proprio intorno a scenari di guerra economico-commerciale e di guerra guerreggiata, e la resa dei conti fra i due poli geoeconomici è un fattore di forte presenza e attualità.
E’ con tale ipotesi, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell’euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica, con forti mire espansionistiche sull’Eurasia, che nell’immediato futuro i movimenti sociali e di opposizione saranno chiamati a fare i conti. Un contesto in cui la competizione globale assumerà sempre più forti connotati politico-strategici di conflitto non solo economico-commerciale, ma che vanno a incidere direttamente sul mondo del lavoro tentando di sottomettere definitivamente il movimento dei lavoratori sul piano delle conquiste presenti e future, partendo dallo smantellamento dei diritti acquisiti in passato, dai diritti sociali, civili, sindacali, fino a toccare le stesse regole della convivenza civile e democratica.
Il processo in atto, pertanto, non può dirsi globalizzazione, ma si tratta di una vera e propria dura e spietata competizione globale fra i tre principali blocchi economici che ricorda molto quanto successo nella fase iniziale del ‘900. Siamo, quindi, nella “moderna era” di una nuova competizione globale, quindi, a carattere economico-politico-strategico, indirizzata contro il movimento dei lavoratori e i movimenti internazionali di opposizione al capitalismo e all’imperialismo. Si tratta, allora, di rafforzare un movimento di classe internazionale che si opponga culturalmente e con le lotte sociali di tutti i lavoratori all’imperante logica di forte compressione del conflitto sociale da parte di un modello neoliberista globale e capace di usare nei paesi a capitalismo maturo vere e proprie forme di controllo estremo e di criminalizzazione del movimento sindacale e sociale d’opposizione e nei paesi periferici di attaccare le popolazioni con la guerra di soffocamento economico (vedi Argentina) e direttamente con lo strumento militare, come dimostra la “guerra infinita” per la spartizione delle aree strategiche da parte dei grandi blocchi geoeconomici, con le attuali varianti dell’Afghanistan e della Palestina.

6. I marxisti rilanciano l’analisi di Marx nell’unità di teoria e prassi

Davanti a questo volto fortemente aggressivo della competizione globale, che si esprime come offensiva dell’imperialismo nelle sue diverse configurazioni attuative, non rimane certo fuori l’attacco diretto ai comunisti, anche con il tentativo di demolirne i riferimenti teorici basilari. Continua infatti l’opera di oscurantismo culturale, di “liquidazionismo” della storia del movimento comunista, a partire dalla messa in discussione della teoria e dell’analisi marxiana.
Al grido “fuori Marx dalla scienza”, “fuori gli studiosi marxisti dalla cittadinanza scientifica e accademica” si porta avanti un disegno per la sconfitta globale dei comunisti e del loro pensiero-azione. Ciò non avviene soltanto da parte dei mass-media e degli intellettuali del regime neo-liberista, ma l’attacco parte anche da sinistra, dai “pentiti” del marxismo.
Ecco perché è stato molto importante il convegno che il Laboratorio per la Critica Sociale ha tenuto il 21 maggio u.s. all’Università di Roma “La Sapienza” in occasione della presentazione del libro “Un vecchio falso problema . La trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di Marx” (curato da chi scrive e con saggi di Carchedi, Freeman, Kliman, Giussani e Ramos, Ed. Mediaprint, 2002).
L’importanza è prima di tutto nel luogo: i marxisti non accetteranno mai di essere estromessi dall’Università pubblica perché questa è il luogo del sapere critico, luogo di battaglia contro l’oscurantismo culturale e di costruzione del pensiero critico, in cui gli intellettuali marxisti hanno dato e continuano a dare molto per la costruzione della democrazia reale, e non solo culturale, contro ogni forma di “apartheid” socio-politico-culturale.
Inoltre è stato importante in tale convegno mettere a confronto marxisti di diversa provenienza universitaria internazionale e anche con diverse linee culturali e interpretative. Erano infatti presenti, oltre a chi scrive, altri studiosi di università italiane (Screpanti, Mazzetti, Petri), Carchedi (Olanda), Freeman e De Angelis (Inghilterra), Ramos (Costa Rica), Klimax, Mongiovi, Foley e Callari (USA), a cui vanno aggiunti gli interventi al dibattito di Tortorella e Di Siena (dell’Associazione Rinnovamento della Sinistra) e di Alfonso Gianni di Rifondazione Comunista.
Uno dei principali obiettivi , sicuramente riuscito, di tale giornata di studio è stato quello di riattivare un circuito internazionale di studiosi che anche nelle loro diversità di impostazione ed interpretazione, hanno scelto di mantenere la teoria e l’analisi marxiana al centro dell’azione politica (non a caso il giorno prima molti degli stessi studiosi hanno dato vita ad un interes- sante dibattito sempre all’Universi- tà La Sapienza dal titolo “Afghani-stan, Argentina, Palestina…. E dopo!? Il ruolo dei movimenti internazionali di opposizione).
L’argomento chiave in cui si è snodata la giornata di studio ha riguardato il Terzo Libro del Capitale di Marx. Ciò ha visto un serrato confronto fra economisti marxisti , provenienti da vari continenti, che hanno affrontato tematiche che hanno messo immediatamente in relazione la teoria del valore in Marx con categorie di analisi che possono portare a diverse interpretazioni anche degli attuali processi di globalizzazione o meglio di competizione globale; centrale, comunque, nelle relazioni è rimasta in modo specifico la teoria del valore e in particolare la questione della trasformazione dei valori in prezzi nell’analisi di Marx.
In effetti da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale si è aperta la corsa di economisti di varie scuole, anche marxiste che mettono in evidenza una supposta contraddizione nell’economia marxista che sarebbe tale da invalidare del tutto le fondamenta della stessa (si veda in proposito l’articolo di G.Carche-di sul numero 2/2001 di Proteo). Le critiche sono partite addirittura dal problema di che cosa sia il valore e di come si misuri e molti critici sostengono che per Marx il lavoro semplice è meno importante di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di quello meno intenso; tutto ciò perché nell’analisi di Marx il valore è lavoro umano svolto all’interno delle relazioni economiche capitalistiche e quindi lavoro eseguito da lavoratori, cioè i non proprietari dei mezzi di produzione, a favore dei proprietari di tali mezzi. Il secondo tipo di critica è la cosiddetta “regressione ad infinitum” (che vede storicamente fra i suoi critici Joan Robinson) che parte semplicemente dall’assunto che per calcolare il valore del prodotto di un determinato periodo bisogna conoscere il valore dei suoi input, ad esempi dei suoi mezzi di produzione, i quali a loro volta erano output del periodo immediatamente precedente, per cui bisognerebbe fare ulteriori regressioni nel tempo, appunto all’infinito. Il terzo tipo di critica è quella della cosiddetta “circolarità”. Si tratta della critica più dura verso l’analisi di Marx e proposta originariamente da Bohm Bawerk, da von Bortkrewicz e diffusa anche dall’economista marxista Paul Sweezy.
In effetti le argomentazioni, che ho sentito forti anche al convegno del 21 maggio a Roma, all’impostazione fondamentale dell’analisi di Marx della trasformazione del valore in prezzi riprendono i tre filoni di critiche precedentemente enunciate in chiave assolutamente sintetica.
Il grande interesse del convegno di Roma è stato che alcuni studiosi, chiamati “temporalisti”, che da anni si occupano di questo problema (come G.Carchedi, A. Freeman, A. Ramos e A. Kliman) hanno ribattuto, ancora una volta, a tali critiche semplicemente rispondendo che si tratta di un problema inesistente, in quanto la trasformazione dei valori in prezzi è stata risolta già da Marx nel terzo libro del Capitale; basta guardare in proposito la versione completa di tale volume presentata nelle ultime edizioni della MEGA.
Le risposte dei “temporalisti” in particolare sulle tre critiche possono essere lette sul numero 2/2001 della rivista Proteo e sul libro Un vecchio falso problema in uscita in questi giorni nella libreria.
Sinteticamente comunque, anche al convegno di Roma alle critiche i temporalisti rispondono con la loro Temporal Single-System Interpre- tation (TSSI).
In pratica si sostiene che il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo pagato dal compratore semplicemente perché i mezzi di produzione comprati ad un tempo t1 (e che servono per il periodo t1 – t2 ) non sono gli stessi di quelli venduti a t2 (che servono per il periodo t2 – t3). Con ciò ribattendo alla cosiddetta circolarità nel metodo di Marx, che secondo i critici si basa invece sull’ipotesi che i mezzi di produzione comprati a t1 sono gli stessi di quelli venduti a t2; e ciò significa sovrapporre i due momenti t1 e t2 abolendo la variabile tempo. Se si introduce invece la dimensione temporale, sostengono, la questione diventa semplice e si toglie qualsiasi incoerenza alla teoria di Marx.
La risposta di questi studiosi alla supposta contraddizione nell’economia marxista è molto importante perché rimette al centro il meccanismo di creazione del profitto nel modo di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, dimostrando nel contempo che la categoria dello sfruttamento non è valida e vera soltanto per un principio logico ed etico ma l’intera teoria economica di Marx regge perché è spiegabile da un punto di vista quantitativo e quindi è nella sua essenza fortemente scientifica.
A me sembra che, come ci ha insegnato la gloriosa storia del movimento operaio, solo dalla stretta simbiosi fra teoria e prassi si può realizzare quell’ intellettuale collettivo, quella completa scienza che sia in grado di esprimere una funzione guida per tutti i movimenti di opposizione antiglobalizzazione liberista, in modo tale che possano muoversi lungo la linea strategica della lotta contro la competizione globale per poli e con essa per il superamento del modo di produzione capitalistico.
Si può in tal modo riprendere un dibattito in positivo sul ruolo e sul contributo dei marxisti e dei comunisti per una ripresa dei movimenti di opposizione internazionale, riprendendo le fila del conflitto capitale-lavoro e non soltanto attuare un’operazione politica e culturale dei marxisti in termini difensivi. Lanciando, in definitiva, una vera e propria offensiva scientifica e culturale che sappia riappropriarsi con forza, anche se con elementi di critica ma sempre in positivo, della teoria marxiana, della sua validità scientifica, ripercorrendo al contempo le esperienze di tutti quei movimenti culturali, ma anche politici e sindacali, che hanno affrontato e ancora affrontano la critica scientifica, anche radicale in chiave di superamento del capitalismo.
Solo così si realizza un processo di profondo rinnovamento e superamento, in senso economico, politico e quindi sociale, totalmente fondato sul terreno di una possibile alternativa al capitalismo.
Questa deve essere la linea guida della trasformazione culturale e sociale, questo è il compito fondamentale dell’onesto studioso marxista per un reale contributo al rilancio dei movimenti di opposizione internazionali.