Usa, Cina e Taiwan: analisi di un conflitto

Le elezioni tenute a Taiwan il 18 marzo scorso hanno portato a un mutamento di grande rilievo: il Guomindang, quello che fu il partito di Chiang Kaishek sconfitto dalla vittoria della rivoluzione cinese nella Cina metropolitana e da allora forza di governo a Taiwan (dapprima con un regime autoritario coperto dalla legge marziale, dopo il 1987 con un regime parlamentare) è stato ora sconfitto dagli elettori dell’isola. In effetti è stata una sconfitta relativa, in parte indotta dalle lotte interne al partito stesso: un candidato rifiutato dall’ex presidente Lee Tenghui, James Soong, ha riportato il 36% dei voti e il 23% ne ha riportati il candidato ufficiale del Guomindang Lien Chan. I voti in qualche modo “appartenenti” al Guomindang hanno continuato a costituire una sostanziosa maggioranza assoluta: questo spiega la feroce protesta nei giorni subito seguiti alle elezioni da parte di membri e quadri del Guomindang, beneficiari per decenni del suo sistema di interessi fondato su un complesso rapporto tra il partito di governo e le grandi imprese. Obiettivo di quella reazione, che assunse la gravità di veri e propri moti di piazza, fu Lee Tenghui e la serie di manovre interne da lui messe in atto nei mesi precedenti e risultate nella spaccatura dell’elettorato su due candidati.

Il concreto equilibrio parlamentare spiega anche la disponibilità del vincitore Chen Shuibian a prendersi tra i suoi collaboratori, molti appartenenti al partito sconfitto, probabilmente lo stesso primo ministro che Chen nominerà dopo il 20 maggio quando avverrà il passaggio dei poteri da Lee Tenghui al nuovo presidente: e non mancano timori tra i vincitori, non tanto per l’accettazione del nuovo capo dello stato da parte del Guomindang, quanto per l’effettiva consegna di ogni genere di documenti nei quali sono provate tutte le manovre condotte in Asia orientale durante la guerra fredda dagli Stati Uniti e dal Giappone. Anche in Corea la vittoria dell’oppositore Kim Dae Jung nel 1997 dopo decenni di persecuzioni è stata seguita da notevoli tensioni proprio per il passaggio degli archivi che riguardano soprattutto i rapporti con il Nord e la persecuzione dei coreani che non si erano allineati alla politica dei governi militari repressivi sponsorizzati dagli Stati Uniti a Seoul fino alla metà degli anni’90.

E poi vi sarà il problema della rescissione dei rapporti capillari tra il sistema economico delle grandi imprese sponsorizzate dal Guomindang e privi di copertura ora che il loro referente politico ha perso il potere. È noto infatti che Chen Shuibian a Taiwan gode delle simpatie della fitta rete di piccole e medie imprese (che sono poi quelle che hanno maggiormente investito nella Repubblica popolare cinese e che sistematicamente vi trasferiscono le lavorazioni, alla ricerca di una manodopera molto meno costosa di quella di Taiwan): dopo il 20 maggio potrebbe avvenire quindi un’importante trasformazione sociale ed economica nell’isola, parallela alla nascita di un nuovo quadro politico che è difficile definire “democratico” in termini nostrani, ma certamente segna una svolta rispetto al controllo ferreo esercitato dal Guomindang sulla grande industria di Taiwan. Per certi aspetti la situazione presenta analogie con quanto avvenne in Corea del Sud nel 1997, ma Taiwan è uscita indenne o quasi dall’ormai conclusa crisi asiatica, se non altro per il fatto di possedere ingenti riserve valutarie e di essere quindi al sicuro da interferenze del capitale speculativo internazionale: il cammino di Chen potrebbe essere quindi meno difficile di quello di Kim Dae Jung sul piano economico.

C’è, tuttavia, un altro problema con un risvolto quasi “etnico”: il Guomindang era, naturalmente, il partito di quanti nel 1949 si erano rifugiati sull’isola dalla Cina continentale e che hanno continuato a controllare più o meno interamente l’apparato burocratico e soprattutto le forze armate. I taiwanesi sempre vissuti nell’isola, e contraddistinti da forti differenze dai cinesi continentali per ragioni storiche ed etniche e anche per i segni lasciati dalla lunga dominazione giapponese, sono invece stati protagonisti dello sviluppo economico dell’isola (soprattutto nella piccola e media industria e anche nell’agricoltura controllata da coltivatori diretti abbienti) e percepiscono la pesante burocrazia dominata dal Guomindang come un nemico. Chen Shuibian si troverà dunque di fronte a un difficile processo di “deburocratizzazione” non privo di talune analogie con quanto avvenuto nei paesi dell’est europeo e in Russia e, dalle sue dichiarazioni, sembra molto preoccupato per quanto lo attenderà dopo il 20 maggio. In sostanza molti taiwanesi vorrebbero che la loro società assomigliasse di più a quella di Singapore, della Malesia o della Thailandia. Il tipo di società che invece rifiutano non è tanto quella della Repubblica popolare cinese, oggi congeniale ai loro interessi e largamente aperta ai loro investimenti, quanto quella che fu propria dell’Unione Sovietica. Non si deve dimenticare infatti che il Guomindang nelle strutture del partito e dello stato (non certo nelle scelte sociali e di classe), con più rigore dei comunisti cinesi, passati attraverso una diversa esperienza ben radicata in condizioni di classe autonome, mantenne fino alla fine degli anni ’80 il modello che gli fu dato all’inizio degli anni ’20 dagli esperti bolscevichi. Fu il figlio di Chiang Kaishek, Chiang Chingguo, ottimo studente delle scuole di Mosca, a capire l’incompatibilità di quel modello con la società capitalistica di Taiwan e ad avviarne il superamento, giunto ora a compimento con l’alternanza alla presidenza, ma non con lo smantellamento della rete di potere burocratico. Tutto questo riguarda, comunque i giochi interni all’isola, per quanto rilevanti essi possano essere.

In occidente la vicenda elettorale è stata vista soprattutto nell’ottica di un possibile scontro militare tra la Cina popolare e Taiwan. In effetti la Repubblica popolare cinese aveva preso posizione in modo molto netto contro Chen Shuibian, risultato poi vincitore. La sua vittoria ha costituito in un certo senso una sconfitta o almeno un danno di immagine per i governanti di Pechino. Il suo Partito democratico progressista, oltre ad avere un atteggiamento favorevole alla difesa dei diritti umani e di altri principi occidentali che può non fare piacere a Pechino (Chen fu per anni avvocato difensore delle molte vittime del regime autoritario del Guomindang e fu in carcere più volte per questo), da anni aveva preso posizione a favore dell’indipendenza di Taiwan. Voleva por fine cioè alla finzione per cui il governo dell’isola continua a considerarsi il governo di una “Repubblica di Cina” della quale la parte continentale è “provvisoriamente occupata dai comunisti” e dichiarava di voler giungere alla proclamazione ufficiale dell’indipendenza di Taiwan. Sullo sfondo vi era anche la rivendicazione dei taiwanesi “indigeni”, cioè non provenienti dal continente (o non discendenti da quanti ne vennero nel 1950) a considerare il loro legame con la Cina, il suo stato, la sua storia e la sua cultura come una parentela lontana, destinata a divenirlo sempre più, in un mondo dominato dalla cultura americana. Se questo processo di “denazionalizzazione”, evidente tra i giovani taiwanesi sia parallelo o opposto a quanto avviene in Cina è difficile dire, in quanto nella Repubblica popolare è in atto da un lato un processo di omologazione alle culture giovanili di tutto il mondo e anche dell’Asia orientale, fortemente influenzate dalla cultura giovanile americana e anche dai suoi aspetti più scadenti, dall’altro il timore che la globalizzazione, l’aggressività militare statunitense e le componenti razziste implicite nel gioco internazionale delle potenze “bianche” ricreino le condizioni di assoggettamento e di umiliazione dalle quali la Cina fu liberata dalla rivoluzione danno spazio a posizioni di orgoglio nazionale, emerse chiaramente al momento del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. In questo senso il problema della sorte di Taiwan è legato a quello dell’identità dei cinesi nel mondo di oggi, un’identità non ben definita e ardentemente cercata, non solo nella Cina popolare: quali sono gli elementi intrinseci che legano e possono continuare a legare la grande Cina, diversificata e con tutti i suoi problemi, a quell’isola dove si scrive in caratteri (e non si pensa a rinunciarvi), dove vengono offerti agli stranieri ottimi corsi di lingua e letteratura cinese e dove ha sede il miglior museo di arte cinese, con le opere di pittura sottratte dal Guomindang in fuga ai musei cinesi?

Per il momento al centro del dibattito non sono questi problemi di sostanza e la discussione è molto più formale e istituzionale. Pechino non può accettare una dichiarazione ufficiale di indipendenza da parte dei governanti di Taiwan. Finché Taiwan continua a considerarsi “Repubblica di Cina”, come ha affermato finora il Guomindang e come il candidato di questo partito Lien Chan era disposto a ribadire (in modo anche più rigoroso di quanto abbia fatto il precedente presidente Lee Tenghui che nell’estate 1999 parlò della necessità di riconoscere che Taiwan e Repubblica popolare cinese costituiscono due “stati” diversi e separati e devono agire come tali), la separazione dell’isola dalla madrepatria può essere considerata la conseguenza, forse provvisoria, di una guerra civile. I due contendenti di questa guerre civile, il Partito comunista cinese e il Guomindang (e di conseguenza i due governi della Repubblica popolare cinese e della Repubblica di Cina che essi controllavano fino al 18 marzo), possono dar luogo a trattative per giungere a una soluzione nell’ottica dell’esistenza di “una e una sola Cina”: un accordo sarebbe solo l’ultimo atto di quella guerra civile.

Dal giorno in cui a Taiwan ha preso il potere un presidente come Chen Shuibian che in nessun modo può essere considerato parte in causa in quella che fu la guerra civile cinese e che è cresciuto in una realtà, quella taiwanese, sostanzialmente diversa sia da quella della Repubblica popolare cinese sia da quella della Cina continentale quando era governata dal Guomindang, la logica di una trattativa per risolvere l’ultima pendenza di una guerra civile finita da cinquant’anni non vale più. Questo – oltre alle numerose dichiarazioni fatte in passato dal Partito democratico progressista a favore dell’indipendenza di Taiwan – è stato il motivo per cui i governanti della Repubblica popolare cinese si sono tanto accaniti contro la campagna di Chen Shuibian giungendo a prospettare la sua vittoria come un rischio di guerra, in quanto, nel caso della proclamazione dell’indipendenza da parte dei governanti dell’isola, la Repubblica popolare cinese si riserva di usare la forza per riportarla nell’ambito del territorio cinese e sotto il suo governo. In effetti, Chen Shuibian, che durante la campagna elettorale aveva costantemente minimizzato il rischio di scontro militare, gonfiato invece dalla stampa americana, è stato prontissimo a ridimensionare l’atteggiamento indipendentista del suo partito e a rintuzzare i gruppi che al suo interno mantenevano quella posizione. Ha subito offerto possibilità di incontri con i governanti cinesi, con i loro delegati che in passato conducevano trattative in vista di un’ipotetica riunificazione con Taiwan ed ha proposto di recarsi in Cina quando vi fosse invitato e accolto. Per ora la situazione resta in una fase interlocutoria: Pechino ha chiesto a tutte le potenze di non manifestare attraverso la partecipazione all’insediamento di Chen un tipo di riconoscimento che violi il principio, inserito in tutti gli accordi in base ai quali è avvenuto il riconoscimento di Pechino, in base al quale vi è “una e una sola Cina e Taiwan è parte di essa”. Ha ribadito peraltro, in discussioni informali o separate, che le minacce di azione militare riguardavano l’ipotesi che i governanti di Taiwan rompessero definitivamente le trattative per una possibile riunificazione oppure proclamassero l’indipendenza, il che finora Chen Shuibian non ha fatto (anche se non è ancora insediato al potere) e comunque non sembra progetti di fare.

Bisogna comprendere la posizione della Repubblica popolare cinese: al momento della sconfitta di Chiang Kaishek, la conquista dell’isola (restituita dal Giappone alla Cina del Guomindang e quindi appartenente allo stato cinese di pieno diritto) pareva questione di tempo. Poi venne la guerra di Corea (della quale documenti sovietici recentemente apparsi attribuiscono l’iniziativa a Kim Ilsung, a fronte di una tenace opposizione cinese) portò al pattugliamento americano nello stretto di Taiwan e, nel 1954, all’alleanza tra gli Stati Uniti e la “Repubblica di Cina”, con una marcata minaccia alla sicurezza della Repubblica popolare cinese. Non bisogna dimenticare inoltre che fino al 1971 gli Stati Uniti imposero con mille manovre e ricatti, l’attribuzione alla “Repubblica di Cina” del seggio cinese alle Nazioni Unite. Quando questa politica appariva ormai insostenibile nacquero le spinte all’indipendenza di Taiwan, in parte autoctone, in parte strumentalizzate dagli Stati Uniti: e la Repubblica popolare cinese le condannò come un tentativo di spartire il territorio cinese (il che potrebbe aprire la via ad altre minacce, come al separatismo del Tibet e a quello del Xinjiang). Bisogna tener conto del fatto che dal 1949 la Repubblica popolare cinese ha sempre identificato il suo territorio nazionale con quello posseduto dall’ultima dinastia cinese e non ceduto con trattati validi. Taiwan era parte di quel territorio e quindi è parte di “una e una sola Cina”.

Tale posizione è mantenuta tuttora. Come accennato, tutti gli accordi per il riconoscimento di Pechino sono stati contraddistinti dalla clausola per cui “vi è una e una sola Cina e Taiwan è parte di essa”: una dichiarazione in questo senso fu imposta nel 1972 da Mao e da Zhou Enlai a Nixon e Kissinger malamente sconfitti in Vietnam e nel 1978 l’accordo per l’istituzione di regolari rapporti diplomatici tra Washington e Pechino riaffermò quel principio. Un anno dopo, peraltro, il Congresso degli Stati Uniti adottò una Legge per le relazioni con Taiwan che ammetteva, sia pure nella sola forma di rappresentanza commerciale, una presenza diplomatica di Taiwan a Washington e, cosa sempre contestata nei turbinosi rapporti tra Repubblica popolare cinese e Stati Uniti, la consegna di armi all’isola, in modo da rimpiazzare le attrezzature obsolete.

Più recentemente la questione è divenuta drammatica perché proprio la continua campagna condotta dalla stampa statunitense più legata ai repubblicani (e quindi alla mai liquidata Lobby favorevole al Guomindang) e l’azione di parlamentari repubblicani ha cercato di dimostrare che la Cina popolare sta divenendo una potenza militare minacciosa, avendo “rubato” con astuti spioni ogni genere di segreto militare negli Stati Uniti e che, di conseguenza, Taiwan deve venir rifornita di armi nuove e tali da esercitare sulla Cina un effetto deterrente, in particolare si pensa a uno “scudo spaziale” che coprirebbe Taiwan, Giappone e Corea meridionale e anche una parte dello stesso spazio aereo cinese. A fronte di una campagna continua di minacce condotta da una parte importante del mondo politico statunitense, la Repubblica popolare cinese ha bisogno di difendere la sua sicurezza: sicurezza non significa soltanto potersi difendere ma anche poter attaccare chi minacci la sua integrità e unità. Uno “scudo spaziale” su Taiwan renderebbe non credibile, privo di efficacia deterrente, il (modestissimo) arsenale nucleare cinese e minerebbe sostanzialmente lo status di grande potenza della Repubblica popolare, rimettendo in discussione la pienezza della sovranità riaffermata con la vittoria della rivoluzione e poi pazientemente riconquistata sul piano diplomatico e anche strategico. Lo squilibrio messo in moto dalla dichiarazione di indipendenza di Taiwan costituirebbe un grave pericolo per la pace, tanto più in quanto si profila sullo sfondo di una lunga polemica condotta contro la Repubblica popolare cinese negli Stati Uniti.

Fortunatamente, per il momento né i governanti di Taiwan né quelli della Cina popolare sembrano inclini a rompere un equilibrio che è fondato soprattutto sulla collaborazione economica delle due società “cinesi” di qui e di là dello stretto.