URSS: quale bilancio?

Se escludiamo le ricostruzioni del tipo Libro nero del comunismo, che, nonostante la sua preconcetta ideologia anticomunista e l’inaccettabile metodologia di ridurre la storiografia ad arbitraria manipolazione di dati e di cifre, ad astratta numerologia, merita comunque un discorso a parte, e se ci limitiamo invece al campo, oggi piuttosto ristretto in verità, di chi si pone seriamente il problema di un bilancio storico-teorico dell’esperienza sovietica, possiamo distinguere, mi pare, almeno tre posizioni. Tutte non nuove, ma ripetutamente sostenute nel passato, e più o meno direttamente riconducibili ad idee o teorie già abbozzate o formulate da pensatori e filosofi del Novecento. Potremmo così sintetizzarle : 1) discrasia mezzi-fini (Merleau-Ponty); 2) tutto sbagliato, ricominciamo da zero (Marcuse); 3) quel che è avvenuto, non poteva non avvenire (Sartre).
La prima posizione, espressa anche da Marco Revelli nel suo ultimo libro, consiste, sì, nell’ammettere che i fini perseguiti dai dirigenti sovietici erano “buoni” (abolire le ingiustizie e lo sfruttamento capitalista, perseguire l’emancipazione integrale dell’uomo). Ma i mezzi adoprati erano “cattivi” (violenza, terrore, dittatura spietata ecc.). Si sarebbe perciò verificata una vera e propria eterogenesi dei fini. Ci si aspettava la società palingenetica, felice, armonica, senza classi e senza oppressione: ecco invece l’URSS staliniana e post-staliniana, mostruosa società burocratico-autoritaria che annienta libertà di critica e opposizione, crea nuove gerarchie sociali, costruisce un’inaudita macchina repressiva antipopolare. Non bisognava dunque ricorrere all’uso di quei mezzi? Le due possibili risposte sono già in Merleau-Ponty. Il quale in Umanismo e Terrore (1947) è propenso a giustificare i mezzi in nome dei fini, il Terrore in nome dell’Umanismo (la violenza comunista come l’ultima necessaria forma di violenza, che avrebbe eliminato per sempre dalla storia ogni forma di violenza, instaurando una società definitivamente umanizzata, pacificata). A partire dal 1950 si convince invece che non l’Umanismo era l’esito del Terrore, ma una società altrettanto disumana di quella capitalistica. L’utopia aveva prodotto la distopia; la montagna il ributtante topolino. Su quest’ultimo fronte si sono attestati, dopo il crollo dell’URSS, tutti i pentitismi comunisti alla liberal (“Micromega” e “Reset”, componenti varie dei Ds). Lo schema, in ambedue i tipi di risposta, è chiaramente fondato sull’equivalenza URSS = Terrore (la stessa, in fondo, del Libro nero). Ma non regge al confronto storico: come ignorare per esempio. il gigantesco (in rapporto allo zarismo) sviluppo economico dell’URSS, impossibile senza un ampio consenso dal basso, nonché la realizzazione della forse fino ad oggi più ampia forma di “Stato sociale” conosciuta dalla storia? O il contributo decisivo dato dall’URSS da un lato alla sconfitta del nazismo, dall’altro al movimento di emancipazione coloniale dei popoli e paesi del Terzo Mondo? L’intreccio mezzi-fini, insieme buoni e cattivi a seconda delle situazioni concrete e delle prospettive valutative, è dunque molto più complesso di quanto possa apparire dalla semplicistica equivalenza di ascendenza merleau-pontyana. Il che non significa che il Terrore va giustificato ad ogni costo.
Espressa emblematicamente dal quotidiano “il Manifesto”, la seconda posizione consiste nel cancellare più o meno l’intera storia dell’URSS con un semplice colpo di spugna. Tutta una sequela di errori e di tradimenti, il “socialismo reale” sovietico è l’antitesi brutale dell’”idea” vera, originaria di socialismo; ritorniamo a Marx, dell’esperienza sovietica non c’è nulla, o quasi nulla, da salvare (anche qui innegabile la confluenza col Libro nero, seppure da prospettive opposte). Siamo, è evidente, alla radicalizzazione della tesi sostenuta da Totskij nella Rivoluzione tradita (1937), rinvenibile in ogni forma di antisovietismo di marca ultrasinistra. Sul terreno filosofico, il maggior rappresentante ne è forse Marcuse, “maestro del Sessantotto”. Il quale in una prima fase della sua evoluzione è il sostenitore dell’”anomalia” dell’Ottobre e dell’URSS (Marx smentito dalla storia, perché la rivoluzione non scoppia in un paese industrialmente avanzato; l’esperimento sovietico destinato al fallimento, perché assurda la pretesa di costruire il socialismo in un paese arretrato e semifeudale). Nel 1968 diventa invece il teorico della “fine dell’utopia” : col movimento studentesco l’utopia faceva finalmente irruzione nella storia, il “dover essere” si convertiva in “essere”. A confronto, l’URSS appariva miserabile prosaicità quotidiana. Veniva anzi degradata a “socialtotalitarismo” : socialismo a parole, totalitarismo nei fatti (non molto dissimile dalla società tecnocratica e unidimensionale dell’Occidente). Ma il fallimento del Sessantotto non costringeva Marcuse a rifugiarsi nella “dimensione estetica”, a rievadere nell’utopia? L’illusione e l’immodestia di volere ricominciare da zero, nella pretesa di poter adeguare soggettivisticamente la realtà tremenda alla propria astratta “purezza morale o concettuale”, di voler “mettere le brache al mondo”, come Gramsci diceva di Croce, si infrange purtroppo sempre contro la dura prova dei fatti. L’URSS ha col marxismo originario, ammesso che ce ne sia uno, un difficile rapporto di continuità e discontinuità, sviluppi e arretramenti, fedeltà e innovazioni che sono storicamente motivabili, e che richiedono un bilancio critico paziente, sfaccettato, aperto e, per così dire, a più voci. Hic Rhodus, hic salta! Dalla storia non si esce. Nemmeno con l’immaginazione utopica.
La terza posizione, tradizionalmente sostenuta dai vecchi Partiti comunisti, anche se oggi quasi, ma non del tutto, scomparsa, è quella giustificazionista. Tutto ciò che è accaduto, se è accaduto, non solo poteva accadere, ma non poteva non accadere. Ogni evento ha la sua causa, o le sue cause determinanti. La possibilità ridotta a realtà, la realtà a necessità, la storia a teodicea. Non tutto è da respingere, ma tutto, nell’essenziale, è da giustificare. Nella storia universale ogni cosa ha, o avrà immancabilmente, il suo posto. Comprendere è assolvere. Lo stalinismo? Nella concreta, tragica situazione storica dell’URSS in permanente stato d’assedio, Lenin, Trotskij o Bucharin avrebbero fatto nella sostanza le stesse scelte di Stalin. La democratizzazione? Era preclusa dalle persistenti eredità dello zarismo, dalle immani difficoltà economiche, dall’urgenza difensiva di unirsi come un sol uomo ecc. La corsa atomica? Imposta dall’aggressività reaganiana. Così seguitando a dimostrare, anche la fine dell’URSS rientra nella catena causale e necessitante. Si dovrebbe concludere che, se l’URSS è crollata, era giusto che crollasse? Un modello esemplare dello schema argomentativo giustificazionista si ritrova nel Fantasma di Stalin (1956-57) di Sartre. Il “socialismo reale” costruito da Stalin era l’unico socialismo possibile, “non ce n’era un altro, tranne forse che nel cielo di Platone”. Ergo: “bisogna volere quello lì o nessuno”. Questa posizione è legata alla seconda come il concavo al convesso. Identico il criterio di giudizio: o tutto o niente. Cambia solo il segno valutativo. Si spiega perché Sartre sia passato disinvoltamente dal giustificazionismo totale dell’URSS alla sua totale condanna (orrida “Cosa al potere”, “Macchina” infernale da demolire e fracassare).
Le tre posizioni vanno, io credo, dialettizzate, negate e conservate in una visione critica più comprensiva e flessibile. I mezzi disumani disumanizzano chi li subisce e chi li adopra, è vero; ma le imprevedibili esplosioni delle contraddizioni storiche non sempre consentono una perfetta coincidenza di mezzi non violenti e fini umanistici. D’altra parte, il ritorno a Marx è sì doveroso, ma come spinta ad una ripresa della riflessione marxista che si confronti criticamente con la prassi storica che da Marx ha avuto inizio; il rifiuto della propria storia è il rifiuto della propria identità. Non tutto infine era inevitabile nella storia dell’URSS. Non solo altri uomini, con altri schemi di giudizio (il che è lapalissiano), ma gli stessi uomini, con gli stessi schemi avrebbero potuto porre in atto altre e migliori scelte. Con quale risultato finale, nessuno, certo, può dire. Ma se l’uomo è “un essere che risponde” (Lukács), che seleziona ed elabora attivamente i dati oggettivi, pluridimensionali, diversamente sì strutturati (o strutturabili), ma mai necessitanti, e sceglie quindi sempre tra più alternative possibili, allora è chiaro che ciascuno porta il peso e la responsabilità delle sue scelte. Di quelle che fa, per averle fatte, pur potendo non farle, e di quelle che non fa, per non averle fatte, pur potendo farle. Altrimenti anche Hitler ed Eichmann sarebbero incolpevoli, perché “era scritto nel cielo”.