Università e Ricerca: il tabù dell’ope legis

In qualità di decennale ricercatore precario in procinto di trasferirsi all’estero per lavoro, mi sento particolarmente stimolato a commentare la organica assenza di provvedimenti da parte del governo in materia di ricerca e università. In questi due anni di Governo Prodi, a parte una serie di annunci, in pratica si è portato ad un sostanziale peggioramento dello stato della ricerca, e che ne ha pagato e paga le conseguenze sono i livelli più deboli: i ricercatori e le ricercatrici precarie, oltre a tutto il personale precario tecnico-amministrativo.
L’Università e più in generale lo stato della ricerca in Italia sono lo specchio di quello che il paese è in realtà. L’utilizzo massiccio di forza lavoro, precaria, mal pagata, senza alcuna prospettiva di una sicura stabilizzazione, e impossibilitata ad usufruire di qualsiasi ammortizzatore sociale sono i pilastri su cui l’Università e molti enti di ricerca si sono retti in questi ultimi due decenni. E tra l’altro si sono retti anche male, visto che gli interventi effettuati in queste realtà, in pratica si sono concretizzate in riforme a costo zero, riforme che si sono potute effettuare grazie alla disponibilità pressoché illimitata della forza lavoro appena citata. Il risultato è stata la sostanziale riduzione della qualità della formazione, da una parte, e dell’altra, l’aumento del gap scientifico e tecnologico con il resto dei paesi europei, per non citare le potenze scientifiche storiche come USA e Giappone, e quelle emergenti, Cina e India.
Oltre al problema storico della scarsità di finanziamenti in ricerca pubblica e privata in Italia, in questi ultimi anni si è evidenziata come le politiche che hanno riguardato la ricerca abbiano avuto come effetto quello di allargare il numero di precari portandolo a dimensioni non più tollerabili. I motivi che hanno portato all’aumento del precariato non sono solo ascrivibili alla mancanza di un serio programma di inserimento e di ricambio della classe docente, la più vecchia del mondo, ma anche il collasso delle ricerca privata, legata storicamente alla grande industria, questa ultima praticamente scomparsa dal nostro paese. Negli ultimi due decenni, infatti, i processi produttivi in Italia hanno puntato strutturalmente non sulla qualità dei prodotti basati su ricerca e innovazione, ma sulla riduzione del costo del lavoro (stipendi bassi, produttività alta), sulla debolezza della lira (valore aggiunto dei prodotti aumentato dalla svalutazione della moneta, da un decennio siamo nell’area dell’euro, rispetto al quale si deprezza anche il dollaro USA).
Come conseguenza di tutto ciò, la crescita del precariato ha rappresentato la naturale evoluzione della incapacità di saper reggere alle sfide poste dai mercati internazionali, e, rispetto alle dinamiche che hanno portato al precariato in generale, il precariato cresciuto nelle Università e negli enti di ricerca, ha fatto da apripista e da modello. Quando nel 1997, fu approvato il pacchetto Treu, le condizioni dei precari della ricerca erano sicuramente molto peggiori di quelle che allora si stavano disegnando per i lavoratori in ingresso nel mercato del lavoro. La legge 30 ha poi chiuso il cerchio.
Le dimensioni del precariato in Italia sono la misura più evidente del fatto che il sistema non funziona più, e che con la regressione economica dovrà fare i conti anche l’attuale governo, mentre le politiche del Governo Prodi in questi due anni abbiano sistematicamente eluso il problema.

Nel mondo della ricerca, qualsiasi proposta in merito al problema del precariato, viene sistematicamente elusa richiamando alla memoria gli effetti delle varie ope legis. La principale di queste nel 1980 (legge 382/1980), permise la stabilizzazione di ricercatori che avessero a quel tempo effettuato almeno tre anni come borsisti. Si trattò della più massiccia immissione in ruolo mai effettuata nel mondo universitario in Italia e i suoi effetti negativi li stiamo pagando ancora oggi, per decenni la possibilità di entrare nel mondo universitario è stata preclusa ad alcune generazioni di ricercatori, permettendo l’ingresso solo a ricercatori e docenti sponsorizzati da baronie e centri di potere forti. Di fatti di cronaca relativi a nepotismo, cooptazione senza merito, procedure concorsuali facilmente pilotabili, sono pieni giornali e servizi televisivi, ed ormai fanno parte del patrimonio culturale degli italiani, molta di questa distorsione deriva dalla attuale legge sui concorsi universitari, varata dal primo Governo Prodi (Legge 3 Luglio 1998, n.210). Il paradosso curioso è che lo spauracchio ope legis continua ad ostacolare qualsiasi intervento in materia di stabilizzazione dei precari, che visti i numeri, effettivamente necessitano di un intervento che definire straordinario è un eufemismo. Sessantacinquemila precari rappresentano un numero le cui reali dimensioni sono date dal suo confronto con il numero di docenti e ricercatori di ruolo, vale a dire circa sessantamila unità (dati forniti dai sindacati confederali). Alla luce di quanto sempre dichiarato dal Ministro Mussi, in pratica oggi l’ope legis continua ad essere l’ostacolo per l’immissione in ruolo di una intera generazione di ricercatori, ricercatori che oggi grazie al web ed internet fanno parte di una rete mondiale di ricerca, che mostra come le condizioni e i limiti imposti dal sistema ai ricercatori in Italia siano una anomalia che lede il diritto stesso alla formazione e alla conoscenza sancito dalla nostra Costituzione.
Organizzazioni dei ricercatori precari e alcune organizzazioni sindacali hanno avanzato delle proposte per un inserimento massiccio e in tempi brevi di ricercatori precari, che in qualsiasi altro paese europeo occuperebbero posti di rilievo all’interno delle Università e degli enti di ricerca, e il cui talento e volontà di fare è mortificata e dissipata per non far saltare gli assetti e gli equilibri di potere fin qui stabilitisi.
Affrontare il problema del precariato oggi in Italia (affrontarlo non significa automaticamente risolverlo, visto che comunque il sistema Università continuerà ad avere necessità di lavoro scarsamente retribuito) significherebbe far saltare gli assetti e gli equilibri di potere che sono venuti a cristallizzarsi in questi decenni. Affrontare il problema del precariato oggi in Italia, significherebbe aprire l’opportunità a nuovi settori di ricerca di potersi affermare andando ad erodere finanziamenti per la ricerca, già scarsi, a settori finora privilegiati, avrebbe l’effetto di dare dignità al lavoratore/trice della ricerca riconoscendo diritti tipici di un paese civile.
Non si tiene presente, che il dramma del precariato della ricerca, non riguarda solo la soluzione di drammi individuali, immettendo in ruolo un congruo numero di ricercatori e ricercatrici che potranno aprire mutui, mettere su famiglia, (in molti lo hanno fatto comunque), ma significa effettuare una scelta politica sul futuro economico e sociale del sistema Italia, ed è questo che le organizzazioni dei precari e sindacali chiedono realmente.
Oggi, infatti, la questione fondamentale è: se il sistema produttivo italiano vuole diventare maturo e competere sui mercati internazionali deve assolutamente puntare su ricerca e innovazione, e farlo ora. La forza dell’euro rende irrimandabile questo problema, un primo serio intervento, semplice, immediato, e a costo praticamente zero, passa dalla stabilizzazione di alcune decine di migliaia di ricercatori e ricercatrici che in questi hanno svolto lavoro di ricerca di livello internazionale, in quanto oggi la ricerca o appartiene agli standard di qualità imposti dalla comunità scientifica internazionale o non è. Se si vanno a controllare i curricula, si scoprirà che molti precari possono vantare curricula superiori a larga parte del personale strutturato da anni. Se, come è giusto, si vuole stabilizzare in base al merito, gli strumenti per farlo ci sono e si può fare anche in fretta.
Inutile nascondersi dietro il filo d’erba dell’ope legis, la questione è politica e il Governo Prodi e il ministro Mussi, e tutto l’apparato che gestisce Università ed Enti di ricerca lo sanno bene.