Da mesi, ormai, vale a dire da quando i vertici della Margherita e dei DS hanno accelerato il processo in direzione della loro fusione in un nuovo soggetto politico, assistiamo ad un dibattito, prevalentemente sulla stampa, il cui centro focale è rappresentato dal futuro della sinistra nel nostro paese a partire da un dato di fatto che il nascituro PD ha messo drammaticamente in evidenza: la crisi della sinistra in Italia, delle sue forme organizzate e, maggiormente, della sua progettualità politica. Noi de l’Ernesto non ci siamo sottratti mai, men che meno pensiamo di farlo adesso, a discutere di una problematica di tale rilevanza, prevalentemente per il fatto che da tempo rileviamo la sciagurata possibilità, che oggi anche altri intravedono, di un definitivo annientamento delle forze a sinistra del PD; eppur tuttavia poco ci convincono le facili argomentazioni di chi vorrebbe, anche dentro il PRC, risolvere una crisi di tale portata, evidenziata ma non prodotta dallo spostamento in senso moderato dell’Ulivo, con delle scorciatoie organizzativiste o, peggio, rimuovendo le identità di ciascuno, come se il consenso in politica possa darsi per semplice fusione e non, invece, per credibilità di proposte, idee, strategie. I comunisti, come sempre nella storia, in particolare del nostro Paese, hanno un ruolo precipuo in questa discussione, non solo perché anche e soprattutto da loro potrà dipendere l’uscita da questa crisi, ma soprattutto in quanto le contraddizioni del tempo presente portano in grembo la riproposizione della questione comunista.
Per affrontare questi nodi, sabato 7 luglio a Catania, presso la libreria Tertulia, l’Ernesto-Sicilia ha organizzato un dibattito dal titolo “unità, autonomia e trasformazione sociale: il ruolo dei comunisti e della sinistra d’alternativa”. L’incontro è stato ampiamente partecipato, non solo dai compagni de l’Ernesto delle diverse province siciliane, ma anche da diversi compagni “ancora comunisti” che, allontanatisi dalla politica con lo scioglimento del PCI, hanno deciso di ritornarci adesso, quando, per la seconda volta a distanza di quindici anni, è di nuovo in discussione la possibilità per i comunisti di esserci in quanto tali. Inoltre, cosa altamente degna di nota, vi è stata la presenza della classe operaia, quella che in tanti ormai hanno dato per morta, schiacciata dalla rivoluzione capitalistica: sono gli operai dell’ELMEC di Catania; qui, in effetti, gli operai sono schiacciati, ma non dalla modifica dei rapporti di lavoro che la globalizzazione ha prodotto, ma perché la loro azienda, come tante altre del Meridione d’Italia, rischia di chiudere per la caratteristica tipica del capitalismo italiano, che potremmo racchiudere nel motto “prendi i soldi (statali) e scappa!”.
L’introduzione dei lavori è stata affidata a Luciano Mirone, giornalista di diverse testate (l’Informazione, Repubblica, Diario e Left) che, partendo dai temi dell’attualità politica, ha individuato nella “cosa rossa” proposta da Bertinotti e nel tema caldo delle pensioni, gli snodi da cui, a suo parere, sarebbe dovuto partire il dibattito; questioni che, inevitabilmente si intrecciano, ma che hanno anche una loro specificità, visto che dal primo tema si articola la discussione sulle aggregazioni a sinistra, mentre sul secondo si gioca la partita decisiva col governo Prodi. Ha colto la palla al balzo Guido Benni, Coordinatore regionale de l’Ernesto e membro del CPN di Rifondazione. Per Benni la crisi a sinistra della fase che viviamo rappresenta la fine di un ciclo: quello iniziato nei primi anni ’90 con il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento, o la trasformazione, dei PC dell’intera Europa. Dalla fine di un ciclo, dunque, ad un nuovo inizio, contraddistinto tuttavia, dalle questioni di sempre: unità (della sinistra) e autonomia (dei comunisti). L’attuale fase capitalistica, a detta di Benni, è scottante. Vi sono, certo, enormi modificazioni nella divisione del lavoro e nella capacità del capitalismo mondiale di produzione di plusvalore; eppur tuttavia non è stata superata la questione delle questioni: quella contraddizione capitale-lavoro che porta il sistema a vivere ed alimentarsi, pur nella diversificazione della produzione. “Per questa ragione -continua Benni- i comunisti devono fare analisi, discutere della fase e della possibilità della rifondazione di una forza politica di classe”.
La storia politica da lui vissuta è simile a quella di molti altri compagni: “dalla fine degli anni ’80 -dice- nella sinistra catanese ha cominciato ad essere prevalente la discussione sul terziario poiché, ci veniva detto, Catania è una provincia che ormai vive solo grazie al commercio; oggi, nel pieno delle contraddizioni capitalistiche scopriamo che, in realtà, è sempre continuata ad esistere, seppur trasformata, la classe operaia, anche a Catania”. Ne sono un’ esempio gli ingegneri dell’etnavalley, lavoratori qualificati ma pur sempre ipersfruttati: “classe operaia senza coscienza ma piena di conoscenza!”. All’interno di questa crisi, dunque, è essenziale la presenza di un partito comunista capace di cogliere le “pere marce” che cadono dall’albero di un sistema ormai al collasso!
Dello stesso avviso di Benni è stato Pierangelo Spadaro, in rappresentanza dei Comunisti Italiani, anche lui particolarmente attento alle tematiche del lavoro e delle sue modificazioni. “Sul lavoro –per Spadaro- si deve costruire una confederazione della sinistra, aperta non solo alle forze politiche ma tendente a raggruppare tutti quei soggetti che si sono ritrovati nella battaglia per l’estensione dell’articolo 18”. Inoltre, servirebbe affrontare più di petto la questione giovanile, osando di più al fine di abrogare la legge 30 e mettendo in campo proposte di legge per l’accesso gratuito ai servizi.
L’”orgoglio operaio” è emerso dall’intervento di un delegato dell’ELMEC: “Occupiamo la fabbrica da 11 mesi –ha raccontato Santo Longo- contro un padrone che ci ha imposto il blocco della produzione. Noi non ci stiamo e continuiamo nella lotta, perché non ci interessa l’elemosina di un posto statale, vogliamo lavorare nella fabbrica in cui siamo da una vita e che, siamo convinti, ha tutte le possibilità di riaprire e di avere di nuovo un ruolo competitivo sui mercati internazionali, così come lo ha sempre avuto!”.
E’ la volta degli intellettuali , ma non quelli classici che si vedono nei salotti televisivi. Federico Martino è docente di Storia del Diritto all’Università di Catania, ma non solo; membro del CPN di Rifondazione, è stato deputato e assessore regionale all’Ambiente e Territorio all’Epoca del Governo Capodicasa. Illuminante la sua perentoria affermazione: “Oggi non c’è solo il rischio, pur grave, che si dissolva una forza comunista nel nostro Paese; più ancora, per la specificità storica dell’Italia nel contesto della guerra fredda, qui si rischia di dissolvere la cosiddetta anomalia italiana”, vale a dire quella di un partito comunista di massa all’interno di un paese “atlantico”, così come lo era stato il PCI. Per essere tale, quel partito era riuscito ad elaborare una strategia complessiva vincente, fondata sulle riforme di struttura (altro che il riformismo dei giorni nostri!) interpretati come passaggi fondamentali in direzione del socialismo: la via italiana di togliattiana memoria insomma. Il quadro di tale strategia era fornito dalla Costituzione, alla cui formulazione i comunisti avevano dato un contributo fondamentale e visibile. In ragione di ciò, per tutti gli anni ’50, le grandi battaglie del PCI si orientarono verso la difesa della Carta e verso la sua effettiva applicazione, determinando la fisionomia di una partito “radicato nella società e incardinato nelle istituzioni repubblicane”.
Per Martino, oggi l’annientamento della sinistra rischia di essere inevitabile se i comunisti per primi non riescono a rispondere al leniniano “Che fare?”. Contro questa possibilità a poco servono le aggregazioni politiciste, per una ragione molto semplice: la crisi è stata prodotta nel livello istituzionale (ma con riforme anticostituzionali) con l’introduzione del bipolarismo, tanto caldeggiato, oggi, persino da un illustre ex comunista come il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il sistema elettorale maggioritario, infatti, tendendo a ridurre la sana rivalità tra le forze politiche con l’intento di garantire la stabilità (“come se, in epoca di regime democristiano, con il sistema elettorale proporzionale, non ve ne fosse!”), ha di fatto prodotto la crisi del sistema politico, spingendo i partiti ad una spietata rincorsa al centro. Ma non solo nell’Olimpo della politica di palazzo sono avvenuti cambiamenti immensi; e a Martino, compagno di fine intelligenza, non sfuggono i cambiamenti nel complesso del sistema economico mondiale, anzi. Per Martino non sono più pensabili progetti socialdemocratici, nel campo politico-istituzionale, o keynesiani, in ambito economico, poiché “la crisi del capitale è di portata tale che può aprire scenari inimmaginabili: le pensioni non si tagliano per malvagità dell’animo umano, così come le guerre che costantemente si producono dal 1991 ad oggi!”. Di fronte a ciò, dunque, come reagiscono le forze comuniste e di sinistra? Sembra poco convinto Martino dell’idea bertinottiana di : “gommoso fantasma” la definisce; “cos’è? Mira all’abolizione della proprietà privata?”, domanda un po’ ironicamente Martino a conclusione del suo intervento.
Il dibattito entra nel vivo, ma tocca al professore Pietro Barcellona, docente di Diritto Privato all’Università di Catania e storico dirigente del PCI catanese, spostare per un attimo il discorso nell’ambito culturale, o almeno partire da lì per riportarlo nel vivo della discussione politica. Ironizzando sul ruolo di relatore, il professore nota come un tempo, parlando in pubblico da dietro un tavolo vi era effettivamente coscienza del ruolo da dirigente che si ricopriva; coscienza non dettata dalla carica che si aveva dentro un’organizzazione, ma indotta dalla effettiva rappresentanza di “masse” che si aveva; quelle stesse “masse” che oggi, per diverse ragioni, si sono allontanate dalla politica e che tuttavia, loro malgrado, vivono una deficienza culturale. I suoi primi naturali interlocutori sono i giovani, diversi nella sostanza dalle precedenti generazioni, privi di motivazione, soprattutto nello studio, e contrassegnati da una “apatia sonnolente”. Per Barcellona proprio in questo campo, in cui il PCI ebbe una enorme funzione pedagogica, si osservano i principali disastri del sistema formativo: “siamo di fronte a ragazzi incapaci di raccontarsi, vittime di un sistema che, impedendo questo processo, spinge al contrario ad essere tutti consumatori e, in quanto tali, tutti uguali!”. Vi è di certo un mutamento anche nel sistema del lavoro; sono cresciute le produzioni immateriali ma ciò ha anche portato ad un mutamento dei processi mentali e di vita: vi è, in sostanza, una “second life” che si svolge in un’altra dimensione, quella di internet. Per queste ragioni Barcellona pensa essere fondate le domande che Bertinotti pone sulla crisi della società e, con essa, della politica, non condividendone, a modo suo, le risposte: “se parli di pensioni –dice- devi anche parlare di crescita economica, se no non sei credibile!”.
Anche il professore nota le continue ingerenze del mondo economico sulla politica, tendenti ad escludere la mediazione e a “governarsi direttamente”, ma lega questo fenomeno ad altri che avvengono in diversi settori dell’amministrazione dello Stato, a partire da quello della magistratura, in cui “alcuni pezzi si legano sempre più ai poteri finanziari”. Spazia su diversi campi Barcellona e sull’unità a sinistra propone una strada a dir poco curiosa: “l’urgenza che la questione Veltroni pone dovrebbe spingere tutti i gruppuscoli della sinistra ad unirsi, ma non inventando formule: qual è il partito più consistente a sinistra? Rifondazione? Bene, si iscrivano tutti lì!”.
Gli interventi dei relatori si avviano al termine. E’ la volta del Senatore del PRC Santo Liotta catanese anche lui. Come Benni, inizia dalla fine degli anni ’80 la sua analisi, fra quel 18° e 19° congresso del PCI in cui lo scontro tra identità e innovazione, cioè tra coloro i quali in seguito fonderanno il Movimento per la Rifondazione Comunista e i sostenitori del futuro PDS, era una scelta imposta; imposta nelle prospettive che si davano e nel quadro della fine più complessiva dei partiti di massa, per come li si erano conosciuti fino a quel momento almeno. Oggi però, secondo Liotta, non vi è nessuna imposizione poiché di fronte abbiamo una cosa ben più ampia di quella fase: la possibilità concreta che si dissolva l’intera sinistra italiana. Per reagire a questa eventualità, dunque, si pone da sé l’esigenza di costruire un nuovo soggetto politico dell’intera sinistra in una dinamica processuale che, in quanto tale, deve essere pilotata politicamente. Sente l’incombenza del tempo Liotta, e per meglio esprimere questa sensazione usa la metafora di Pearl Harbor: “se restiamo con le navi ferme ci massacrano con il PD!”. Il senatore del PRC è chiaro e non nasconde la sua collocazione dentro il partito: “le ragioni che fecero nascere il PRC –sostiene- non sono le stesse che ne motivano l’esistenza!”.
Il dibattito è stato ricco, articolato e, di certo, non univoco; tocca a Fosco Giannini, senatore del PRC e direttore de l’Ernesto, tirare le fila del ragionamento. Se si pone la domanda del destino dei comunisti e della sinistra, di cosa fare, dove andare e come, certo vi sono delle ragioni di fondo estremamente problematiche; se poi, addirittura, siamo al punto che la sinistra vede come verosimile la sua scomparsa, certo le cose non vanno nel migliore dei modi: su questo si interroga inizialmente Giannini. “Siamo a questo punto –esordisce- principalmente poiché la sinistra ha rotto col suo popolo, e le recenti elezioni amministrative ne hanno dato un segnale inequivocabile”. Per Giannini, però, questa crisi ha radici lontane, e precisamente si determina ogni qual volta le forze comuniste mettono in discussione le proprie radici, le proprie categorie di interpretazione della realtà; è successo così nella socialdemocrazia tedesca, una forza realmente rivoluzionaria che si proponeva la trasformazione della società in senso socialista (“altro che la socialdemocrazia di Schroeder!”). Quell’esperienza così straordinaria crolla allorquando passa il messaggio secondo cui si è “esaurita la spinta propulsiva” della Comune di Parigi: un messaggio costruito con una funzione politica precisa, un cavallo di Troia che già nel breve volgere di pochi anni riuscì a permeare l’organizzazione trasformando la sua teoria e la sua prassi politica, fino a giungere all’attuale PDS. “Esaurimento della spinta propulsiva”, dunque; lo stesso concetto espresso decenni più tardi da Enrico Berlinguer rispetto alla Rivoluzione d’Ottobre. Una coincidenza, certo, non casuale.
L’intervento di Giannini è tutto un ragionamento che parte da noi, da quello che è accaduto da questa parte della barricata, più che cercare nemici fuori (che pur ci sono). E’ nel concetto di “funzione”, dunque, che il senatore individua i germi delle svolte che, nei diversi passaggi della storia, hanno messo, come oggi, in crisi il pensiero e la prassi comunista: “nel PCI –dice- da un certo punto in poi si fa avanti un filosovietismo di maniera che sfocerà, poi, nelle posizioni cosiddette amendoliane”. Sostanzialmente, anche qui troviamo la nascita e la successiva affermazione di un messaggio: “il socialismo è un processo spontaneo che si affermerà autonomamente; noi stiamo all’interno del sistema e per adesso lasciamo che ci pensi l’URSS!”. Ciò, com’è evidente, ha portato negli ultimi 20 anni a dei disastri, impedendo alle forze comuniste e di sinistra di comprendere le reali esigenze del proprio popolo e di alzare la testa, magari lottando più tenacemente contro i diktat americani.
L’analisi, adesso, si sposta alla realtà internazionale; e parte da un testo Giannini, quello di Fukuyama, che soltanto 15 anni fa sosteneva che con il crollo dell’URSS sarebbe finita la storia e il capitalismo avrebbe decretato la sua eterna vittoria: “mai affermazione è stata più errata –afferma Giannini-“. In pochi anni, infatti, un’ intero continente, l’America Latina, si è sollevata, vedendo affermare sull’interno suo territorio esperienze rivoluzionare che alludono al socialismo; un socialismo nuovo, capace di parlare al popolo e a fornire risposte visibili ai mali che attanagliano quella parte di mondo. Stessa cosa può dirsi per il centro Africa o per l’Asia, zone in cui nascono movimenti antimperialisti tendenti al socialismo in forme inedite. Di fronte a ciò è proprio l’Europa, da questo punto di vista, il continente più arretrato: è qui che si mettono fuorilegge i comunisti, come nella Repubblica Ceca, ed è sempre qui che si affermano coalizioni neocentriste e della nuova destra, come in Germania e Francia: “in Europa –continua Giannini- si tenta di ridurre a uno l’intera sinistra, che, dal canto suo, non mostra ancora di avere le forze per reagire, anzi”. Il quadro è dunque molto arretrato e, in Italia, anche Giannini non nasconde l’esigenza di un maggiore lavoro unitario tra tutte le forze della sinistra; ma da qui a costruire un nuovo partito ne passa: per Giannini, insomma, è indispensabile lavorare per l’unità, ma questo si può e si deve fare senza annullare le differenze strategiche che permangono, ed è giusto così, tra comunisti e socialdemocratici: “in fondo come si fa a pensare di costruire un partito assieme ai compagni di Sinistra Democratica? Non hanno fatto con noi la battaglia sull’Afghanistan, sostengono la proposta del Ministro Damiano sulle pensioni, sono filoatlantici e lavorano per il bipolarismo: su cosa costruiamo un partito assieme? Qual è il comune orizzonte strategico?”. Se la strada che imboccassimo fosse questa, saremmo consegnati alla sconfitta; la stessa che vive il Partito Comunista Spagnolo dentro Izquierda Unida o quei compagni greci che credevano vincente la creazione del Synaspismos in Grecia: quelle esperienze, infatti, secondo Giannini, non hanno retto perché non davano la possibilità ai comunisti di esplicare il loro ruolo, che consiste nell’inficiare i socialisti.
Il problema è che, sull’unità a sinistra come su molte altre questioni, rischiano di affermarsi idee non suffragate dalla realtà fattuale. E’ così, ad esempio, sull’analisi che viene fatta, anche a sinistra, sulla cosiddetta mondializzazione; “guardando all’Africa -dice Giannini- veramente crediamo si possa parlare di mondializzazione come progressiva integrazione dei mercati internazionali?”. In realtà assistiamo ad una feroce competizione globale tra poli imperialisti in cui a farne le spese, come sempre, sono i lavoratori e, in generale, i diseredati della terra: la competizione, infatti, mira a d abbattere il costo delle merci, ma a costo di abbattere i salari, i diritti e lo stato sociale! In conclusione, ha ragione Martino quando afferma di non essere più all’ordine del giorno la mediazione socialdemocratica, cioè il compromesso capitale-lavoro: “serve una strada nuova, che si ponga il socialismo come orizzonte!”.
Carmelo Albanese
Coordinamento Nazionale GC