1. Da più di un anno a questa parte – da quando l’avvitamento della sinistra italiana in una spirale di sconfitte elettorali e manifeste crisi di rappresentanza toccò il punto simbolico della perdita del Comune di Bologna – la discussione sulle contromisure annovera tra i temi ineludibili la questione della riaggregazione dei disiecta membra della sinistra politica, sindacale e sociale. È un bene che ciò accada; è, soprattutto, naturale che avvenga. Se si prendono in considerazione le due più influenti formulazioni di un percorso di ricomposizione della sinistra – quella di una “costituente”, suggerita ancora di recente da Luigi Pintor sulla rivista del manifesto, e quella di una “consulta”, elaborata lo scorso ottobre e più volte riproposta negli ultimi mesi da Fausto Bertinotti – è difficile sottrarsi all’impressione di trovarsi di fronte a ipotesi non soltanto ragionevoli, ma persino necessarie: non solo condivisibili, ma financo indispensabili.
Sono proposte diverse, come ognuno sa. Pintor si rivolge alla sola sinistra “antigovernativa”, che vorrebbe impegnata nella costituzione di una “nuova formazione politica” cementata da una comune istanza anticapitalistica; Bertinotti immagina un processo capace di coinvolgere anche la sinistra moderata, alla quale chiede di evadere dalla “prigione” del centrosinistra, e, conseguentemente, formula una ipotesi meno impegnativa sul piano organizzativo (non una nuova formazione politica, ma nuove forme di interazione tra le diverse soggettività della sinistra “alternativa” e “plurale”) e meno radicale – forse più concreta – sul piano ideologico e programmatico (non un generico anticapitalismo, ma una precisa opzione anti-liberista e un altrettanto esplicito rifiuto della guerra).
È tuttavia significativo che in entrambe le ipotesi ricorrano analoghe tonalità (l’angoscia per la frammentazione delle forze migliori del paese dinanzi all’incombente minaccia della destra); suggestioni comuni (Pintor evoca un soggetto “che unifichi o raccordi tutta la sinistra non governativa, che abbia radici nella società e operi nelle istituzioni”; Bertinotti auspica la costruzione di una “nuova soggettività sul terreno della sinistra alternativa, in cui far vivere il nostro partito tra altri soggetti in un reciproco e pieno riconoscimento, e su quello dello sviluppo della sinistra sociale, che deve scandire l’articolazione di questa prospettiva”); persino identiche espressioni (a cominciare dalla “gabbia” del centrosinistra, che si tratta, per l’uno come per l’altro, di rompere o di abbandonare).
A fronte di pur rilevanti differenze, queste analogie sembrano testimoniare della fondatezza del ragionamento e della oggettiva plausibilità dell’indicazione. Ma si nasconde qui un primo paradosso. La forza stessa della proposta ostacola un sobrio esame delle ragioni del suo stentato decollo. E spinge verso scorciatoie moralistiche o verso spiegazioni strumentali. Se tutti riconoscono la necessità di superare la frammentazione della sinistra che a ciascuno appare causa di paralisi e di subalternità, sembra più che legittimo il sospetto che l’insuccesso dell’ipotesi unitaria derivi dall’azione di forze ad essa avverse, dal sabotaggio che i suoi nemici compiono sotto mentite spoglie o tramando nell’ombra. Agisce qui un curioso qui pro quo, l’idea che essere d’accordo sulla necessità di promuovere pratiche unitarie attesti di per sé l’esistenza dell’unità che si intende generare. È evidente, se solo ci si dà pena di riflettere, l’assurdo. Che la ricomposizione della sinistra appaia (per fortuna) ai più un obiettivo prioritario non significa che vi sia già una intesa sulle sue forme e sui suoi contenuti. Implica, piuttosto, il contrario.
Senonché ci si ostina a fare come se l’unità della sinistra (almeno di quella “alternativa”) fosse già un fatto (almeno potenziale), e come se non si richiedesse altro che il suo riconoscimento (un riconoscimento che, dunque, tarderebbe per colpa di quanti – gelosi della propria autonomia, indisponibili al dialogo e all’ascolto – frenano, “remano contro”, come si suol dire, e mettono in campo “resistenze conservative” contro l’unità).
La prima idea che occorre togliere di mezzo è proprio questa. L’intesa e la collaborazione tra le diverse soggettività della sinistra diffusa saranno, se saranno, il risultato di un processo oggi ancora fermo ai preliminari. Non c’è, allo stato, alcuna unità virtuale della sinistra alternativa, (e tantomeno della sinistra nel suo complesso), i cui barlumi sia già possibile cogliere nelle pieghe della crisi attuale. Chi pensa così (e sono tanti, a cominciare da chi trova intelligente lagnarsi dell’altrui “autoreferenzialità”) non solo non si avvede di concepire l’intesa da raggiungere come la semplice generalizzazione delle proprie particolari convinzioni, ma – quel che è peggio – già si dispone a ritenere altri colpevoli del perdurare della frammentazione e ad assolvere se stesso da ogni responsabilità.
L’unità (comunque la si immagini) è un processo che chiama in causa allo stesso titolo la disponibilità, la volontà, la capacità di ciascuno. Nessuno dispone, per diritto divino o ereditario, di credenziali speciali. Torneremo sul punto in conclusione. Per il momento basterà osservare – e siamo al secondo paradosso – che troppo spesso la discussione sui rapporti a sinistra è solo un’occasione per approfondire i contrasti e un pretesto per radicalizzare la lotta interna nel partito. Ci si serve di rappresentazioni di comodo – i “partitisti” contro gli “aperturisti”; la “destra” contro la “sinistra” – che con ogni cura si provvede (in nome dell’unità, certamente!) a proteggere da facili smentite. Non che la cosa scandalizzi: solo, si vorrebbe che la furbizia cedesse finalmente il passo all’intelligenza, che si comprendesse che una strategia siffatta non può non condurre tutti alla sconfitta.
2. Porsi l’obiettivo della ricomposizione a sinistra – si tratti solo di quella “alternativa” o della sinistra “plurale” – impone di affrontare un tema classico, quello del rapporto tra soggettività informali e strutture organizzate, tra “spontaneità” e direzione politica. E implica altresì, quando si passi a valutare il caso concreto (la situazione nella quale ci troviamo oggi in Italia, a meno di un anno dalle prossime elezioni), un bilancio dell’esistente, una valutazione della reale vitalità dell’area sociale sottoposta all’offensiva delle forze dominanti.
Due osservazioni sembrano al riguardo inevitabili, nella convinzione che, in questa materia come in poche altre, si ha il dovere di essere assolutamente franchi e di evitare pose demagogiche. La prima è che i movimenti non si creano con un semplice atto di volontà. Li si può preparare con un lavoro capillare di sensibilizzazione (in altri tempi si sarebbe detto: di “pedagogia di massa”); li si può sostenere nel loro processo di sviluppo; si possono fornire loro risorse materiali e intellettuali, nonché – ove lo si ritenga utile e possibile – direzione politica. Ma se le aree sociali dominate non trovano da sé in se stesse l’energia per reagire, se non esprimono sussulti all’altezza della pressione che subiscono, non c’è iniziativa dall’alto che le possa sostituire nella “creazione di soggettività” e nella produzione di conflitto sociale.
La seconda considerazione concerne lo stato delle cose nel nostro paese. Rispetto a questo problema, e per quanto concerne la sinistra moderata, va sottolineato quello che sembra un tipico errore dell’estremismo, la tendenza a identificare la dirigenza politica con l’area sociale che essa rappresenta. Il giudizio più severo nei confronti della dirigenza nazionale dei Ds non può far perdere di vista il fatto che una parte consistente della base elettorale diessina è ancora, soggettivamente, animata da intenzioni critiche potenzialmente antagonistiche rispetto al dominio capitalistico. Sta evidentemente a noi – sinistra di alternativa – assumere il compito di ingaggiare la più classica battaglia per l’egemonia su quest’area del paese, senza cedere alla tentazione di “radicalismi” soltanto subalterni.
Diverso è il discorso che concerne le soggettività diffuse della sinistra critica. Se – per riprendere la felice espressione di Fausto Bertinotti – vogliamo a questo proposito evitare di “fuggire per la tangente immaginifica”, non possiamo non dire che il tasso di antagonismo esistente oggi in Italia (e in Europa e nell’intero Occidente) è del tutto insufficiente a mettere in moto in tempi brevi un processo di trasformazione dei rapporti di forza nella società. Si possono comprendere e forse anche condividere gli sforzi che alcuni compagni fanno per accreditare un’immagine diversa e più ottimistica della realtà, nella speranza che un quadro confortante generi effetti virtuosi. Purché si abbia la consapevolezza di compiere un’operazione retorica a fini energetici, e non si scambi il quadro per una fotografia. Seattle non è stata un’avvisaglia di crisi del sistema; e, soprattutto, il suo successo è l’esito della sinergia di elementi diversi, solo in parte ascrivibili alla galassia dei movimenti auto-organizzati. Mettere in sequenza Seattle con Davos, con Genova e Bologna può essere opportuno se si intende evocare un percorso auspicabile, dove un successo serve da simbolo degli obiettivi che ci si prefigge. Ma se dovesse avere il sopravvento (come spesso avviene) il bisogno di “consolarsi con quel che c’è” (magari per dire che l’incontro di Napoli dei “Cantieri sociali” è il giusto punto di partenza “per rispondere alla crisi di questo tempo”), allora occorrerebbe dire apertamente che simili operazioni non giovano a nessuno (salvo, forse, a quelli che le compiono): che esse servono soltanto a rendere appena meno insopportabile la passività del momento, procurando in compenso il grave rischio di pacificare le coscienze.
Poiché non è difficile intuire una facile obiezione a queste valutazioni, è il caso di prevenire il fraintendimento. Tutte le inziative che riescono a generare sensibilità e mobilitazione sono meritorie. Ciò che non sembra né corretto né proficuo è calibrare il giudizio su di esse in base alla considerazione che in giro non si vede nulla di meglio. Altro è dire che una cosa è buona, altro pretendere che ne sortiscano effetti decisivi. E del resto soccorre anche in questo caso una recente osservazione del segretario di Rifondazione, certo non sospettabile di pregiudiziale ostilità verso i movimenti. In una intervista apparsa su Liberazione l’8 giugno scorso, Bertinotti denuncia la “molta irresolutezza” dei soggetti convolti nell’ipotesi della consulta; e lamenta che tale proposta abbia sinora “ricevuto solo risposte indeterminate”.
Forse questo dato di fatto meriterebbe una attenta considerazione, onde evitare di riproporre all’infinito la tesi ideologica (e involontariamente apologetica) che parla sempre di nuovo di una “società civile” vitale, consapevole e reattiva, e di una “società politica” conservatrice, interessata a reprimerne il naturale antagonismo. Anche a questo riguardo sembra di poter rilevare un errore logico. A ragione si afferma che ormai la società tende ad essere coinvolta nel suo intero e senza mediazioni nel processo di riproduzione e dunque nel conflitto. Ma quando da queste premesse si pretende di dedurre che la reattività della “società civile” sia già un dato di fatto, che qui e ora la società sia sede di un “radicale” antagonismo, il minimo che si possa dire è che in tal modo si confonde razionalisticamente la realtà con un suo effetto solo possibile. Con il risultato di alimentare pie illusioni e, soprattutto, di non investire sull’unico terreno – la politica, quale luogo di costruzione di consapevolezza – in grado di trasformare in realtà una conflittualità altrimenti soltanto potenziale.
3. Ma sforzarsi di essere realistici non significa ritenere che i giochi siano chiusi o raccomandare la modestia delle ambizioni, quella prudenza che troppo spesso sfuma nella rassegnazione. C’è un grande lavoro da fare per ricondurre la sinistra a un minimo di compatezza e di organica capacità politica. Ma si tratta di un lavoro grande e difficile, non impossibile. Certo, limitarsi a evocare ciò che si deve fare (“mettere in rete”, “costruire sinergie”, “ricercare i percorsi” per “favorire la ricomposizione”), come se il problema non cominciasse proprio qui, come se non si trattasse di spiegare come e quando e con chi si ritenga possibile realizzare tutto questo: come se, al di là delle “grandi idee”, la politica non vivesse soprattutto di “regolamenti di esecuzione”, questo non aiuta e anzi induce il sospetto che persino un tema di tanta rilevanza possa trasformarsi nel pretesto di una divagazione. Ma non sembra necessario giungere a tali sconsolanti conclusioni. Si può, invece, suggerire un preciso percorso politico, reso visibile dalla discussione sviluppatasi negli ultimi mesi e anche da alcuni interventi pubblicati nelle pagine seguenti.
Se è vero, come pare, che per superare l’impasse causata dalla frammentazione della sinistra servirebbero “meno velleità dirigistiche da generali senza esercito” e “più unità effettiva ed organizzata di programma e azione comune nella società”; se è vero, cioè, che (come ha recentemente scritto Dino Greco sulla rivista del manifesto) “solo una concreta prassi politica e sociale” può dimostrare la plausibilità dell’ipotesi di una comunque concepita ricomposizione della sinistra “plurale”, allora non sembra difficile individuare i due punti in grado di fissare una corretta linea d’azione. Da una parte, appaiono sufficientemente chiare le discriminanti politiche capaci di perimetrare una vasta piattaforma di comune pratica politica. In negativo, il rifiuto del neoliberismo e della guerra; in positivo, alcune questioni di fondo (la riduzione dell’orario di lavoro, la riforma elettorale in senso proporzionale, la difesa e il rilancio in senso radicalmente universalistico del sistema pubblico di welfare). Dall’altra parte, sembra di poter dire che, di là dall’ormai stucchevole proliferare di astratte teorizzazioni, la concreta iniziativa di mobilitazione sociale e politica intorno agli obiettivi individuati come prioritari costituisce l’unica strada seria verso la ricomposizione della sinistra “alternativa” e “plurale”, e l’unico criterio in base al quale valutare le reali intenzioni dei diversi soggetti.
Conviene fare un esempio a questo riguardo, limitandosi a uno dei più lucidi tra gli interventi pubblicati in questo inserto. Quando – ritenendo irreversibili (posti come “condizione strutturale”) l’”intreccio (e l’alternanza) di lavoro e non-lavoro” – definisce “utopia reazionaria” la “riproposta del modello occupazionale fordista”, Paolo Virno assume una posizione a nostro giudizio non condivisibile, in quanto non ci sentiremmo di giurare sulla generalità (nemmeno tendenziale) del modello di accumulazione flessibile (il cosiddetto post-fordismo). Ma questo dissenso non oscura ragioni altrettanto forti e anzi prevalenti di consenso, connesse al privilegiamento del “rapporto di produzione come unico terreno realistico di una grande politica” e, più in dettaglio, alla indicazione dell’urgenza di un conflitto politico e sociale teso a rompere il nesso tra precarietà (assenza di garanzie salariali, assistenziali e previdenziali) e carattere non continuativo (intermittente) della prestazione lavorativa, proprio dei “nuovi lavori”.
Su questa base si può e si deve lavorare alla ricerca di intese politiche, alla messa in comune di patrimoni di esperienza e di conoscenza, e all’assunzione di concrete iniziative di mobilitazione e di lotta. Senza pretendere inutili verifiche sul grado di condivisione dei fini ultimi – o dei primi fondamenti – delle rispettive identità.
4. Come si accennava in apertura, troppo spesso la questione dei rapporti tra Rifondazione e area della sinistra “alternativa” è stata trasformata (per dir così: metaforizzata) in uno strumento di lotta interna nel partito. C’è da augurarsi che questa pratica sciagurata finalmente cessi, e che ci si decida tutti, una buona volta, a privilegiare il terreno dei fatti rispetto a quello degli steccati ideologici e degli stereotipi. (Un fatto sono, per esempio, questo inserto dell’ernesto e la stessa tradizione della rivista, da sempre aperta alle diverse sensibilità presenti nella sinistra italiana.)
Che si voglia smettere di accreditare rappresentazioni strumentali della geografia interna del Prc per vivere di rendita sui miti che esse fondano, questo imprimerebbe in effetti una svolta significativa alla vita interna di Rifondazione. Lo si farà? Non azzardiamo profezie, preferiamo chiudere con due brevi considerazioni.
La prima è che, invitato a pronunciarsi su queste pagine su una materia di simile respiro strategico, un membro della Segreteria nazionale non rinuncia alla rissa presentando come un “inqualificabile” e “insultante” attacco alla persona di “un compagno che ha accettato di candidarsi nelle liste di Rifondazione comunista” una critica politica, dura sin che si vuole, ma legittima perché rivolta (come risulta dalla citazione che egli stesso riporta) contro “parole”, dunque contro argomentazioni e non contro persone. Non è un buon segno, come certo buono non fu quell’articolo del “manifesto” dello scorso maggio in cui alcuni compagni di Rifondazione furono ripetutamente etichettati come un’”area vetero-partitista” e come una “componente moderata e partitista”, considerata “piombo nelle ali dai fedelissmi del segretario” e “freno alla costruzione di una sinistra alternativa più larga del solo Prc”.
Ma se si trattasse solo di buoncostume politico, episodi del genere non meriterebbero certo tanta attenzione. Il punto è invece concretamente politico, e investe in pieno la questione all’ordine del giorno. Stupisce – e siamo alla seconda considerazione – che a compagni di indiscutibile valore e di grande esperienza sfugga una circostanza ben evidente, il fatto che finché ci si servirà del problema dei rapporti a sinistra ai fini della lotta interna, difficilmente il processo di ricomposizione che si proclama di voler promuovere farà passi avanti. Non già perché si inneschino veti incrociati o rappresaglie, ma, ancora una volta, per una dinamica puramente oggettiva. In politica parole e cose non hanno una consistenza univoca, indipendente dall’uso alle quali sono asservite. Ed è chiaro che se è usato per approfondire i contrasti dentro Rifondazione o per danneggiare altri compagni del partito, il discorso dell’unità della sinistra “alternativa” nega se stesso. Un po’ come chi pretendesse di far legna tagliando il ramo su cui resta seduto.