*filosofo e storico
1. La crisi economica che oggi infuria a livello mondiale non comporta solo un drammatico peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari. La crisi è anche l’occasione per le classi dominanti di accelerare processi involutivi che sono in corso da lungo tempo. E’ sotto gli occhi di tutti la restrizione degli spazi democratici. Non si tratta solo delle limitazioni al diritto di sciopero e di manifestazione, e neppure soltanto dell’insofferenza crescente che in modo sempre più spudorato il Presidente del Consiglio esprime per limiti posti al suo potere dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. C’è di più. La soglia di sbarramento recentemente introdotta nel nostro Paese per l’accesso al Parlamento europeo è di per sé eloquente. E’ una misura che rientra nella tendenza generale a depurare gli organismi rappresentativi di ogni presenza realmente alternativa rispetto al sistema dominante. Tutto dovrebbe ridursi alla competizione tra due partiti, anzi tra due leaders, che, sia pur con qualche differenza di accento, fanno riferimento al medesimo blocco sociale dominante. In Italia tutto dovrebbe ruotare attorno alla scelta tra Partito delle libertà e Partito democratico, tra Berlusconi da un lato e Veltroni (o Franceschini) dall’altro. Sono in corso le prove per imporre sino in fondo un regime politico che, già sedici anni fa, ho definito come un regime di “monopartitismo competitivo” (cfr. Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio uni – versale, Bollati Boringhieri, 1993, cap. 8, § 4).
E’ un regime politico che mira a mettere fuori gioco non solo le forze di alternativa ma le masse popolari in quanto tali. Un autore non sospetto di filo-comunismo, per l’esattezza lo storico liberal statunitense Schlesinger jr., ha osservato che negli Usa il peso del denaro nelle competizioni elettorali è così forte che gli organismi rappresentativi rischiano di ridiventare monopolio delle classi proprietarie (come negli anni d’oro della restrizione censitaria del suffragio). In Italia forse la situazione è ancora peggiore, dopo un referendum che è stato a suo tempo imposto con un colpo di mano e che ha cancellato il sistema proporzionale. Per rendersi conto della drammatica involuzione verificatasi nel nostro paese, si rifletta su questo capitolo di storia. Negli anni ‘70, Umberto Agnelli si fece eleggere senatore nelle liste della DC, ma, pur all’interno di un partito così sensibile alle esigenze del capitale e della FIAT, non riuscì a svolgere un ruolo politicamente rilevante: era inceppato dal sistema proporzionale e dalla presenza di partiti organizzati di massa. Ciò non consentiva l’investitura e l’acclamazione diretta del leader a opera di un elettorato esposto direttamente al bombardamento incessante di una gigantesca macchina da guerra propagandistica. Oggi invece il trionfo politico della ricchezza, e persino della ricchezza più volgare e parassitaria, va di pari passo da un lato con l’affermarsi del “monopartitsmo competitivo”, dall’altro con l’emergere di un regime che sempre sedici anni fa ho definito di “bonapartismo soft”.
Questo risultato sciagurato non può essere adeguatamente compreso se si trascurano le responsabilità pesanti degli stessi comunisti. Per tanto tempo, per troppo tempo, ha prevalso nelle nostre file la tendenza non già a leggere in modo autocritico e persino impietosamente autocritico la nostra storia: ciò è giusto e doveroso. Disgraziatamente, ha prevalso invece la tendenza a liquidare la storia dei comunisti nel suo complesso, la tendenza a cercare di rendersi credibili non già dinanzi alle classi subalterne e ai popoli che l’imperialismo cerca con ogni mezzo di mantenere in condizioni di subalternità; no, ha prevalso la tendenza a rendersi credibili e affidabili dinanzi all’ideologia e ai circoli dominanti. La conseguenza è stata che le masse popolari hanno creduto che fosse ormai dileguata ogni reale alternativa nel Parlamento e nel Paese, hanno creduto che avesse ormai trionfato il regime del “monopartitismo competitivo” e che questo regime fosse stato interiorizzato dalle stesse forze che pure si dicevano comuniste. Si spiega così la recente disfatta elettorale. Ora da queste rovine siamo costretti a ripartire e dobbiamo avere il coraggio di ripartire.
Il più importante punto di riferimento è costituito ovviamente dalla classe operaia e dalle masse popolari del nostro paese. Ma quando parlo di classe operaia e di masse popolari del nostro paese non intendo certo escludere gli immigrati che lavorano, vivono e soffrono in Italia. In particolare, in Italia e in Occidente vivono nuclei importanti di immigrati provenienti dal Medio Oriente e dal mondo arabo e islamico. Essi, che spesso hanno lasciato la loro famiglia alle spalle, soffrono con particolare intensità la tragedia che continua a pesare più che mai sul popolo palestinese. Essi sono in prima fila a manifestare contro il colonialismo e l’imperialismo, contro Israele e gli Stati Uniti, ed è anche per questo, oltre che per la logica interna al capitalismo, che questi immigrati sono sfruttati in modo particolare, emarginati e spesso – in ogni caso negli anni dell’amministraziaone Bush – arrestati arbitrariamente per essere torturati nelle prigioni segrete della Cia.
IERI L’ANTISEMITISMO, OGGI L’ISLAMOFOBIA
Chiediamoci: ci impegnamo a sufficienza per cercare di stabilire un legame stretto e permanente con queste comunità? Volerle trascurare sarebbe come se, negli Stati Uniti dei tempi del Ku Klux Klan e del regime razzista di supremazia bianca il partito comunista americano avesse condotto la sua agitazione facendo astrazione dai neri. È avvenuto il contrario. Anche se poi sono stati gravemente indeboliti, prima dal terrore maccartista e poi dalla crisi del campo socialista, a lungo i comunisti statunitensi hanno saputo lottare, rischiando la libertà e anche la vita, contro le discriminazioni, le umiliazioni, l’oppressione, i linciaggi scatenati dal regime razzista. Anche a partire dalla vicenda storica di un piccolo partito comunista, possiamo renderci conto delle grandi pagine scritte dal movimento comunista internazionale nel suo complesso: di esse possiamo e dobbiamo essere orgogliosi. Si tratta di pagine gloriose e assai attuali, anche se regolarmente dimenticate da coloro che, a sinistra, vorrebbero ridurre il comunismo, nella migliore delle ipotesi, a una tendenza culturale non meglio definita! Ma torniamo agli immigrati. I niggers, i “negracci” di cui parlavano con disprezzo i razzisti statunitensi sono oggi in Occidente rappresentati in primo luogo dagli immigrati arabi e islamici. Essi non si limitano a rivendicare migliori condizioni di vita; non intendono in quanto poveri fare appello a una compassione paternalistica. In primo luogo essi rivendicano – per usare un linguaggio filosofico – il riconoscimento; essi esigono di essere riconosciuti nella loro dignità umana, nella loro cultura, nelle loro rivendicazioni nazionali, a cominciare dalla rivendicazione nazionale del popolo palestinese, il popolo-martire per eccellenza dei giorni nostri! E qui è bene che non ci siano equivoci: chi non è senza “se“ e senza “ma“ dalla parte del popolo palestinese, costui ha dimenticato anche i principi più elementari della democrazia e dei diritti dell’uomo, anche se poi dovesse riempirsi la bocca con queste parole. E strettamente intrecciata alla solidarietà piena e incondizionata nei confronti del poplo palestinese dev’essere la lotta contro l’islamofobia, che ai giorni nostri costituisce il flagello in passato rappresentato dall’antisemitismo.
3. Se il furore imperialista e colonialista si scatena in Medio Oriente con particolare barbarie, non per questo è dileguata in altre parti del mondo la lotta tra colonialismo e anticolonialismo, tra imperialismo e anti-imperalismo: solo che essa si manifesta in forme diverse. Sul continente americano vediamo cadere radicalmente in crisi la dottrina Monroe a partire da una rivoluzione di cui in questi mesi si è celebrato il cinquantesimo anniversario. Nel corso del mezzo secolo nel frattempo trascorso, ogni mezzo è stato messo in atto per isolare, diffamare, strangolare, liquidare la rivoluzione cubana, ma oggi la sua forza e il suo significato internazionale sono confermati dai mutamenti in atto in paesi quali il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador, il Brasile, il Nicaragua, il Paraguay, El Salvador. Con caratterstiche sempre peculiari (in connessione sia con la situazione e la cultura nazionale sia col contesto geopolitico), la rivoluzione anticolonialista e antimperialista è in marcia in America Latina. Naturalmente, l’imperialismo non sta a guardare. Se potesse, ridurrebbe volentieri Cuba e altri paesi alla condizione di Gaza, dove gli oppressori possono esercitare il loro potere di vita e di morte, prima ancora che coi bombardamenti terroristici, già col controllo delle risorse vitali. A loro volta, i paesi dell’America latina minacciati di strangolamento economico, di embargo totale o di embargo tecnologico, reagiscono intensificando i rapporti commerciali tra di loro e intessendo e sviluppando rapporti commerciali e tecnologici coi Paesi più avanzati del Terzo Mondo e coi Paesi emergenti. Si pensi in primo luogo alla Cina. Essa stessa, per quanto riguarda la tecnologia più avanzata, subisce l’embargo dell’Occidente e in primo luogo degli Usa. E tuttavia, nonostante ciò, il grande paese asiatico sta rapidamente colmando anche in questo campo il distacco che lo separa dai Paesi più avanzati: in tal modo intacca il monopolio tecnologco dell’Occidente e rende così sempre meno pressante la minaccia dell’imperialismo di strangolare sul piano tecnologco e economico i Paesi considerati “ribelli”.
UN NUOVO BLOCCO STORICO INTERNAZIONALE
Sono dunque gli stessi popoli e paesi impegnati in prima fila nella lotta contro l’imperialismo, sono in primo luogo Cuba, il Venezuela, il popolo palestinese a sconsigliare alla sinistra occidentale un atteggiamento di chiusura dogmatica nei confronti dei Paesi emergenti e della Cina in particolare. La chiusura dogmatica sarebbe un duro colpo per coloro che cercano di liberarsi dallo strangolamento imperialista. Ma s’impone un’ulteriore considerazione. La diversità di atteggiamento nei confronti di Paesi come la Cina e il Vietnam, che si manifesta nelle file dei comunisti, è non solo legittima ma del tutto comprensibile. E, tuttavia, i comunisti non possono atteggiarsi come quei cattivi cristiani di cui si fa beffe Hegel, quei cristiani che interpretano la norma cristiana la quale impone di portare soccorso ai poveri nel senso di auspicare la permanenza dei poveri in modo da poterli sempre soccorrere! Come hanno ben compreso i cristiani che hanno ispirato la teologia della liberazione, il vero soccorso ai poveri è nell’impegno a cancellare la polarizzazione di ricchezza e povertà e a sradicare la miseria una volta per sempre. In modo analogo i comunisti non possono interpretare il loro sacrosanto impegno terzomondista, nel senso di augurarsi che ci sia sempre un Terzo Mondo costituito di popoli poveri e disperati nei confronti dei quali sia possibile esibire la propria permanente solidarietà! I comunisti sono invece felici per il fatto che popoli e paesi un tempo condannati a un disperato sottosviluppo comincino a superare questa condizione, sia pure tra contraddizioni di ogni genere.
Per un altro verso vediamo il paeseguida del capitalismo immerso in una profonda crisi economica e sempre più screditato a livello internazionale; al tempo stesso esso, nonostante i mutamenti al vertice, continua ad aggrapparsi alla pretesa di essere il popolo eletto da Dio e a accrescere febbrilmente il suo già mostruoso apparato di guerra e a estendere la sua rete di basi militari in ogni angolo del mondo. Tutto ciò non promette nulla di buono. E’ la compresenza di prospettive promettenti e di minacce terribili a rendere urgente la costruzione a livello internazionale di un nuovo blocco storico, per usare il linguaggio di Gramsci. Ed è la compresenza di prospettive promettenti e di minacce terribili a rendere urgente anche in Italia l’unità delle forze che si richiamano al comunismo e che intendono seriamente lottare contro il capitalismo e l’imperialismo. 4. Riflettiamo ancora sulla storia del nostro paese. Al momento dello scioglimento del PCI, esso fu propagandato come un momento necessario per imprimere slancio alla causa progressista. La tradizione comunista era bollata come la palla al piede che bloccava gli avanzamenti democratici e sociali, che diversamente si sarebbero realizzati senza grosse difficoltà. E’ avvenuto il contrario. Già il 1991, l’anno della Bolognina, ha visto la partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo, con lo svuotamento della norma costituzionale, che chiaramente condanna ogni guerra che non sia di difesa nazionale. Da allora non si contano gli attacchi allo spirito e alla lettera della Costituzione: è stato affossato il sistema proporzionale, colpi gravi sono stati inferti alla democrazia e allo Stato sociale; si delinea con sempre maggiore chiarezza un regime fondato sul monopartitsmo competitivo e sul bonapartismo soft; un clima sempre più pesante si respira sul piano politico e ideologico: è l’affossamento delle conquiste scaturite dalla Resistenza antifascista.
La demonizzazione della vicenda storica iniziata con la rivoluzione d’Ottobre e del movimento comunista che nel Novecento aveva imposto il riconoscimento dei diritti economici e sociali e aveva screditato e colpito al cuore il colonialismo e il razzismo, tutto ciò ha ridato fiato alle correnti più reazionarie. Per quanto riguarda l’Italia, la liquidazione della tradizione comunista, iniziata alla Bolognina e proseguita in forme diverse con Bertinotti, ha comportato per le masse popolari un grave arretramento su tutta la linea. Non è possibile contrastare e ricacciare indietro questa offensiva reazionaria, senza farla finita con la deriva capitolazionista che per tanto tempo ha imperversato anche a sinistra e tra le stesse file comuniste. La ripresa e lo sviluppo del progetto comunista e l’unità delle forze comuniste costituscono un compito ineludibile e urgente.