Un’altra Europa

La materia è molto complessa e ricca di aspetti e temi cruciali del dibattito delle forze politiche del continente e non solo. Mi limiterò pertanto ad elencare alcuni tra gli aspetti che a me paiono centrali, rimandando successivamente all’approfondimento di ciascuna delle seguenti tesi e riprendendo la riflessione nel prossimo numero quando, ad elezioni europee concluse, sarà possibile trarre un bilancio politicamente più definito di questo importante passaggio elettorale.

1. Spesso si confonde l’Europa con l’Unione Europea. E questo è un grave errore, non solo perché si dimentica, così facendo, la dimensione continentale dell’Europa (non riconducibile quindi ai soli paesi membri dell’Ue) ma sopratutto perché si dimentica il carattere e la funzione del progetto dell’Ue. La Comunità Economica Europea (Cee), nata nel 1952, rappresenta, così come la Nato (fondata nel 1949), un processo di controffensiva del capitalismo nell’Europa del dopoguerra e nella guerra fredda, veicolato economicamente dal “Piano Marshall”. Si commette spesso l’errore di rimuovere il ruolo e la funzione che ha avuto l’imperialismo Usa nell’aiuto alle borghesie europee nel dopoguerra. Queste, strette dalla forza e dall’influenza che i movimenti di liberazione nazionale e partigiani assumevano a seguito del ruolo svolto nella liberazione dal fascismo e dal nazismo e dal ruolo dell’Urss e del campo socialista in Europa, hanno lavorato per costruire un polo di aggregazione che, creando un mercato comune e concentrando capitali, mettesse in campo forze ed alleanze capaci di evitare il collasso del sistema capitalistico in Europa occidentale. L’Ue non è quindi il frutto di un corso naturale di eventi, né di scelte ideali, e nemmeno la messa in pratica di esigenze e volontà popolari, ma un processo, ancora non concluso, di costruzione di un nuovo polo capitalista sovranazionale.

2. Gli obiettivi che si pose la cosidetta integrazione europea furono essenzialmente quattro: una unità doganale; la creazione di un mercato interno nel quale si potesse progressivamente arrivare alla totale liberalizzazione del mercato economico, del mondo del lavoro, dei beni e dei servizi; la creazione di una unione economica e commerciale con la prospettiva di una moneta unica; la necessità di una maggiore integrazione politica con una normativa ad hoc e la costituzione di strutture giuridiche e politiche sui temi più importanti (politica estera e difesa in primis), fino all’adozione di una vera e propria Costituzione europea.

Nel periodo 1958-1985, che va dal Trattato di Roma all’Atto Unico Europeo (Aue), con la fondazione della Cee, si raggiungono appieno i primi due obiettivi eliminando così anche quelle minime istanze sociali garantite dal Trattato di Parigi del ’51 che istituì la Ceca (Comunità economica del carbone e dell’acciaio).

Nel periodo che va dal 1985 al 1999, che politicamente corrisponde al passaggio dall’Aue alla moneta unica, si realizza l’unione economica, la piena integrazione dei mercati e la scelta dei criteri e dei parametri economici che ogni stato membro è costretto a rispettare: nasce così l’Ue istituita e regolata dal Trattato di Maastricht.

Nell’ultimo periodo viviamo invece il tentativo di costruzione dei pilastri giuridici e statuali (sul tema della sicurezza, della politica estera e della definizione di una vera e propria Costituzione) dell’Ue. Questa è una fase ricca di contraddizioni con avanzamenti del processo e forti battute d’arresto. Da un lato l’Ue si allarga ed adotta sempre più il primato della competitività (a scapito delle ragioni sociali ed ambientali), vengono integrati e coinvolti nel processo i paesi dell’ex spazio sovietico, diventati nel frattempo paradisi del neoliberismo (liberalizzazione completa del mercato del lavoro, privatizzazione dell’assistenza sociale e dei servizi, superamento della contrattazione collettiva di lavoro). Viene inoltre portato avanti un tentativo di costruzione di un mercato unico dei servizi, con un progetto di loro totale privatizzazione (Direttiva Bolkenstein) e la restrizione dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini immigrati (Direttiva del Ritorno). In questa fase assistiamo però anche alla nascita di un forte movimento di contestazione della globalizzazione capitalistica ed una serie di mobilitazioni dei settori più avanzati del movimento operaio, sindacale e contro la guerra che, dalle proteste di Seattle a quelle dei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e del G7, ha caratterizzato una fase significativa della stagione politica europea degli ultimi anni.

Contemporaneamente a tutto questo, il tentativo di istituzionalizzazione di un super-stato europeo attraverso l’adozione di una costituzione, è stato bloccato dall’esito dei referendum di Francia ed Olanda (gli unici paesi nei quali si è dato la possibilità al popolo di esprimersi con un voto). Dopo il primo periodo di stallo, le borghesie europee hanno cercato di ripresentare lo stesso progetto mascherandone la forma: il famoso Trattato di Lisbona altro non è che lo stesso impianto della proposta di costituzione bocciato da Francia ed Olanda e ripresentato sotto diversa veste. Anche questo progetto è in crisi grazie al voto negativo del referendum irlandese che lo ha rigettato (ricordiamo che il parere negativo di un solo stato è vincolante).

Chiaramente i risultati di questi referendum sono il frutto di un concorso di fattori (a partire dall’avversità più o meno consapevole dei popoli, fino alla contrarietà di pezzi di borghesie nazionali preoccupate per la perdita di ruolo in un contesto di forte integrazione), ma questo ci parla comunque del fatto che il processo di costruzione dell’Ue è ricco di contraddizioni sulle quali lavorare e quindi di un processo tutt’altro che fatale o irreversibile.

3. L’attuale quadro politico, con il ruolo assunto dalla Francia di Sarkozy e dalla Germania della Merkel durante il semestre di presidenza europea, vede un tentativo di aggirare questi voti popolari (non mancano infatti gli sforzi di isolamento dell’Irlanda o le campagne ideologiche tese a criminalizzare e/o dividere il campo di forze sociali e politiche progressiste, critiche -seppur in vario modo- al processo). Questi aspetti ci parlano della costruzione dell’Ue come progetto strategico delle borghesie europee, da perseguire ad ogni costo, per la costruzione di un blocco politico-militare (imperialista)-economico, ma anche un processo politico voluto dalle forze e dai partiti liberali e di destra in accordo con la socialdemocrazia. E questo, per i lavoratori ed i popoli d’Europa, ha rappresentato una netta e progressiva perdita dei diritti sociali e civili, nell’aumento delle disuguaglianze sociali, nello sviluppo asimmetrico delle varie regioni d’Europa, nell’aumento dei problemi ambientali, nella dipendenza dei paesi più poveri e piccoli da quelli più ricchi e popolosi. Del resto i paesi dell’area ex sovietica, una volta entrati, piuttosto che vedersi riconosciuti i diritti dei paesi più ricchi ed in cui è ancora forte un sistema di welfare e di tutele sociali, hanno rappresentato, per le borghesie europee, l’ingresso di manodopera a basso costo e senza diritti, da usare come elementi di ricatto nei confronti dei popoli di altri paesi.

4. Anche per queste ragioni la lotta contro l’Ue deve essere condotta sapendo coniugare una attenta critica all’impianto strategico e strutturale di questo progetto (cosa che la socialdemocrazia ed alcuni settori della Sinistra Europea non fanno), con battaglie parziali che diano il senso di una fuoriuscita dall’attuale quadro e della necessità di una nuova architettura alternativa ed opposta all’attuale. Si può vincere: la battaglia contro l’Ue e questo processo di integrazione non è quindi velleitaria o irrealistica, ma va condotta sapendo vedere i giusti tempi storici di questo processo. Così come è assolutamente sbagliato assumere questa Ue come dato immutabile ed imprescindibile (ed acquisire conseguentemente un profilo sempre più compatibilista, arrivando ad accettare il processo e a non lottare per un suo superamento), altrettanto sbagliato sarebbe non vedere le contraddizioni che questo processo vive e non lavorare per ottenere parziali vittorie che tentino di ridurre il suo carattere antipopolare ed antidemocratico (ovviamente senza illudersi della riformabilità del sistema). È il caso, per esempio, della necessaria battaglia affinché qualsiasi decisione sulla natura dell’Ue (codificata attraverso trattati o accordi internazionali) sia sottoposta a referendum popolari nazionali in ogni paese. Come si è visto, la lotta contro questa Ue ha un forte consenso popolare, ed il coinvolgimento dei popoli condiziona la politica dei governi e può limitarne il carattere militarista e liberista. Così come pure va continuata e sempre più coordinata una battaglia per la difesa dei diritti dei migranti e contro la privatizzazione dei servizi ed andrebbe messa nell’agenda delle forze sindacali e della sinistra una battaglia per giungere al contratto unico europeo di categoria, argine indispensabile contro la vandea che, in ogni stato membro, viene condotta contro i contratti di lavoro nazionali e di categoria. Queste battaglie (di natura non meramente emendativa) dovrebbero sempre più caratterizzare l’agenda comune dei comunisti e delle forze sociali e politiche della sinistra dei paesi dell’Ue (in coordinamento con quelle dei paesi fuori dall’Ue), ma sempre dentro una prospettiva di fuoriuscita da questo processo di unificazione continentale, che si caratterizza sempre più come blocco subalterno alle esigenze di profitto delle grandi imprese multinazionali europee.

5. Se il neoliberismo ed il militarismo sono gli aspetti evidenti di questo processo, il federalismo (dove per federalismo intendiamo da un lato la destrutturazione dei poteri unitari e democratici dello Stato nazionale -vedi lega in Italia- e sia le formazioni di poteri oligarchici sovranazionali, sempre più lontani ed incontrollabili dalla sovranità popolare, sempre più antidemocratici e sottoposti ai voleri dei poteri forti e del predominio neo-coloniale delle maggiori potenze capitalistiche europee nei confronti dei paesi minori) ha una genesi più recente, frutto dell’evoluzione del processo di accumulazione capitalista e dello sviluppo delle forze produttive nel continente, e del fatto che il territorio dello stato nazionale diventa oggi un limite alla vocazione globale del capitale ed alla sua necessità di massimizzazione dei profitti.

Contro questo quadro politico assume particolare rilievo il peso che già nel prossimo parlamento europeo avranno le forze comuniste, anticapitaliste e delle sinistra verde nordica ed il ruolo che possono giocare di contrasto e di lotta a questo progetto. Ma tutto questo -pur necessario e non banale- non deve però far venir meno la coscienza sul fatto che quelle forze devono prendere consapevolezza sulla impossibilità di riformabilità del sistema e sul fatto che “l’Europa dei popoli” e “l’altra Europa possibile e necessaria”, se non vogliono rimanere slogans un po’ retorici e senza senso, devono maturare la consapevolezza del fatto che non è spostando un po’ più a sinistra gli orientamenti politici, che si risolve il problema, ma costruendo un’alternativa che passi dal superamento dell’asse franco-tedesco, dalla rottura dell’atlantismo e dall’apertura di un processo politico che alla partecipazione ed al coinvolgimento dei popoli, sappia coniugare un’apertura a paesi (e popoli) fin’ora fuori dal processo di integrazione, con i quali costruire forme nuove di cooperazione continentale scevre, da dinamiche di potenza e/o neocoloniali.

6. Il processo di integrazione in corso nell’Ue avviene su spinta propulsiva di Kerneuropa, “l’Euronucleo” centrato su Germania e Francia e frutto di un’alleanza strategica tra conservatori e socialdemocrazia di tutta Europa. Una convergenza quindi sui tratti di fondo del processo e che vede una discussione ed una divisione sul suo carattere più o meno “social-liberale”. Pur rimanendo essenzialmente una integrazione neo-imperialista, questa vede certamente spinte e competizione tra i vari imperialismi, ma pur sempre dentro una cornice di “solidarietà transatlantica”. E del resto di segni evidenti di questo asse franco-tedesco se ne scorgono di significativi nel solco di tutti gli ultimi decenni. Nel 1969 Pompidou e Brandt proposero la nascita di una Unione Economica e Monetaria Europea; tra il 1974 e il 1981, a seguito dello shock petrolifero, Giscard d’Estaing e Schimdt istituirono il Consiglio Europeo e diedero vita allo Sme (Sistema Monetario Europeo); dal 1981 al 1995 la coppia Mitterand/Kohl preparò le condizioni per un allargamento ad Est (a partire proprio dalla Repubblica Democratica Tedesca) ed alla stipula dell’Aue e del Trattato di Maastricht. Ed infine, dopo il 1998, (Chirac) Sarkozy/(Schröder) Merkel hanno lavorato per dare vita ad una Costituzione europea.

Questa concertazione a due, come motore propulsivo di tutto il processo, parte dalla presa di consapevolezza dei rapporti di forza esistenti e coniuga le caratteristiche di potenza militare e nucleare della Francia (tra l’altro paese membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) con il potenziale economico della Germania (sarà forse un caso che la sede scelta per la Banca Centrale Europea è proprio Francoforte?).

Nel momento in cui cogliamo alcune diversità di questo asse rispetto all’imperialismo Usa, dobbiamo però stare attenti a non commettere l’errore (in cui cade un pezzo della socialdemocrazia, ma non solo) di considerare l’esistenza di questa Ue, a guida franco-tedesca, come un qualcosa che già di per sé, data la sua natura, si configura come un elemento di contenimento dell’imperialismo Usa. Questo, se può essere stato vero in parte rispetto agli aspetti più aggressivi e pericolosi che hanno caratterizzato l’unilateralismo statunitense degli ultimi anni (pensiamo infatti alle posizioni di Francia e Germania durante l’avvio del conflitto in Iraq), non rimuove il nodo dell’internità dell’Ue alla logica imperialista ed euroatlantica, come si è visto per esempio nella guerra contro la Jugoslavia e nell’atteggiamento dell’Ue rispetto ad alcuni paesi (Cuba, Palestina, Libano, Bielorussia,…), indipendentemente dalla maggioranza politica espressa dal Parlamento Europeo.

7. La critica all’unilateralismo Usa dell’era Bush da parte delle potenze dell’Ue era anche una critica al modo degli Usa di guardare al mondo da un punto di vista marcatamente statunitense e non più “atlantico”. La nuova situazione, che vede un riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico, può caratterizzarsi quindi come una situazione persino peggiore di quella precedente, per almeno tre ragioni. In primo luogo viene meno un diverso approccio di Stati Uniti ed Ue verso il Medio Oriente e, sopratutto, verso il conflitto israelo-palestinese, con uno schiacciamento sulle posizioni israeliane. In secondo luogo diminuiscono le tensioni transatlantiche all’interno delle stesse istituzioni comuni, in particolare all’interno della Nato, oggi vista come strumento di gestione multilaterale dei conflitti nati su iniziativa unilaterale. Infine, è interessante notare la discussione che si apre sull’atteggiamento da tenere rispetto al ruolo ed alla funzione dell’Onu in questa nuova fase. È dagli anni ’70 che, a seguito del processo di decolonizzazione ed ammissione di nuovi stati nell’Onu, i rapporti di forza sono cambiati al punto che oggi, per gli Usa, diventa impossibile orientare i lavori dell’Assemblea Generale. Per non parlare del Consiglio di Sicurezza (CS), dove grazie ai veti principalmente di Russia e Cina, si è impedito di dare copertura Onu alle guerre Usa e di evitare nuove escalation e conflitti.

8. Oltre a questi aspetti, ce ne sono altri che danno il segno di una evidente concertazione tra Ue ed Usa, a partire dal gioco di squadra esercitato all’interno dell’Omc nei negoziati per la liberalizzazione del commercio mondiale, che hanno visto Usa ed Ue contrapposti all’asse imperniato su Russia, Cina, India, Sudafrica,… Fino alla suddivisione delle responsabilità nel controllo di aree e regioni del mondo e la gestione dei conflitti nel quadro Nato. Oltre a questo assistiamo alla concertazione nella gestione delle politiche di sicurezza in nome della lotta al terrorismo (interscambio di informazioni e dati sensibili, creazione della lista delle organizzazioni terroriste, …). Si è arrivati addirittura ad azioni concertate, come è il caso del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar che, sullo sfondo di una operazione di polizia internazionale, ha visto l’azione indisturbata di agenti dei servizi segreti Usa su suolo italiano e sotto copertura del segreto di stato da parte del Governo italiano.

Non priva di significato è anche la recente decisione di Nicolas Sarkozy di fare marcia indietro rispetto ad una pietra miliare della politica estera francese, adottata nel 1966 dal generale de Gaulle, quando decise l’uscita della Francia dal Comando militare integrato della Nato e la chiusura di tutte le basi e gli uffici dell’Organizzazione su suolo francese.

Tutto questo non annulla le rivalità e contraddizioni esistenti tra i vari paesi. Non dobbiamo infatti considerare questo processo di integrazione come la costruzione sic et simpliciter di un blocco capitalista omogeneo (il celebre “superimperialismo”) capace di annullare e/o armonizzare gli interessi delle varie borghesie nazionali, che quindi rimangono tra loro in diretta competizione (e talune volte in scontro aperto), seppur in un quadro di concertazione. E così restrizione delle libertà, perdita dei diritti, povertà crescente, conflitti su scala regionale, diventano alcuni degli aspetti che i lavoratori pagano in nome di questo processo.

Possiamo quindi asserire che tra Ue ed Usa non c’è una vera alternatività e della costruzione di un progetto alternativo di società (come vorrebbero far credere gli europeisti più convinti). Semmai potremmo parlare di “rivalità concorrenziale” tra le due potenze: una rivalità quindi all’interno di uno stesso sistema socioeconomico e geo-strategico. Del resto gli assi portanti dell’Ue restano il neo-liberismo (oggi temperato in tempi di crisi da un utilizzo dello Stato volto a sorreggere le basi del sistema) ed il neo-atlantismo. Una rivalità quindi all’interno dello stesso “campo”, che qualcuno definisce Condominio Imperiale. Questo mette in luce il fatto che non c’è alcun progetto europeo vero, semmai un progetto nord-atlantico (al più una Trade Usa-Ue-Giappone) a direzione americana: una sorta di multilateralismo nord atlantico all’interno delle stesse compatibilità di sistema.

9. Lo scenario mondiale si presenta oggi molto complesso: da un lato emergono nuove soggettività statuali (a partire dai paesi del BRIC -acronimo che sta per Brasile, Russia, India e Cina) che rompono la tendenza unipolare che ha caratterizzato la politica statunitense di questo avvio di secolo, la nascita di unioni regionali (dal Gruppo di Shangai alla cooperazione sino-russa, passando per il progetto Alba dell’America Latina, ai processi di unità africana che oggi hanno un nuovo impulso dopo la vittoria di Zuma) e lo sviluppo di lotte antimperialiste ed antiliberiste in parti importanti del mondo. Dall’altro assistiamo all’arretramento, sul piano sociale e politico, di zone altrettanto importanti, come è il caso della Triade, oggi stretta da una crisi economica paragonabile a quella del ’29. In Europa addirittura assistiamo ad una ripresa di persecuzioni anticomuniste in Romania e Polonia; allo sdoganamento di movimenti neonazisti nei paesi baltici; alla condanna a 12 anni al segretario del Pc in Lituania, per le sue convinzioni politiche; alla nuova “lustrace” nella Repubblica Ceca, che ha messo fuori legge i giovani comunisti e all’analoga repressione subita dal Munkaspart in Ungheria. Per non parlare delle norme approvate in sede europea, che mirano a mettere le forze comuniste sullo stesso piano di quelle fasciste e naziste e della «necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti».

La potenza americana si trova nella fase di massima debolezza, ma allo stesso tempo è ancora in grado di condizionare i destini del mondo. Obama, al di là del lessico da nuovo sogno americano, incarna perfettamente questa consapevolezza, che lo ha spinto al cambio di registro in politica estera. Ora Washington intende consolidarsi come primo azionista nella gerarchia di un nuovo balance of power globale ancora in via di definizione

Ed è proprio di questa duplicità che dobbiamo tenere conto per una lettura di fase approfondita. È da questo quadro che viene avanti la necessità di una progetto alternativo di cooperazione europea, la necessità di un’altra Europa.

Un progetto per l’Europa può prendere corpo se, in questa fase “fluida”, si lavora per un’unione regionale che unisca mezzi tecnologici, finanziari e militari per essere all’altezza della sfida americana. Una unione regionale che sappia mettersi in rete con le altre unioni regionali che lavorano (dall’Africa australe all’America Latina) per affrancarsi dal giogo neo-coloniale o imperialista. E questo necessita di due precondizioni: a) la fuoriuscita dall’atlantismo attraverso un processo di accumulazione di forze che imponga nuovi ed avanzati equilibri tra capitale e lavoro in Europa (ecco perché le battaglie parziali sono di fondamentale importanza); b) l’evoluzione dell’asse franco-tedesco nella «costruzione di una nuova alleanza politica e strategica fra Parigi-Berlino-Mosca, prolungato, se possibile, fino a Pechino e Delhi» (Samir Amin). Per dirla in termini accademici, o da manuale di geopolitica, una rete tra le unioni regionali Eurussia e Chindia che diano vita al progetto di una nuova Eurasia non allineata per il 21°secolo, aperta al dialogo con gli stati ed i movimenti progressisti di America Latina ed Africa.

10. Oggi diventa centrale porre il tema di un’altra Europa, bandendo la tentazione di una rinegoziazione della Costituzione e la ripresa di un processo, dentro i confini politici e geografici dell’Ue. Non possono essere fatte salve le compatibilità dell’Ue: le forze che vogliono un’Europa unita ma autonoma da Usa e Nato, non federalista ma basata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non imperialista ma cooperante con i popoli del Sud del mondo, hanno il compito di avanzare un progetto alternativo. Il quale deve rinunciare alla salvaguardia di questa Ue a 27 e le sue basi neo-liberiste, transatlantiche e neo-imperialiste su cui è venuta formandosi. Un progetto vero di costruzione dell’Europa (fattore geopolitico di rilevanza planetaria) non può essere basato sulla logica dell’assorbimento e della cooptazione: non può quindi essere un allargamento dell’Ue. Bisogna che questo nuovo progetto si doti di due pilastri, che alla parte occidentale sappia associare una orientale, di cui la Russia è il cuore. Solo uno spazio economico comune (e di sicurezza comune) tra queste due aree ha i numeri e la massa critica necessaria per essere un progetto credibile e duraturo. E di questo le attuali elites russe hanno piena consapevolezza. Alexey Meshkov, Ambasciatore della Russia in Italia, così si è recentemente espresso: «attendiamo, però, che tra gli Stati europei aumenti la consapevolezza del fatto che, semplicemente, non esiste un’alternativa alle relazioni fondate su un partenariato effettivo e intenso con la Russia. (…) Soltanto così l’Europa, della quale anche la Russia fa parte integrante, potrà contrastare efficacemente la crisi globale e apportare un contributo adeguato all’elaborazione e alla realizzazione di una strategia di formazione congiunta e condivisa di una nuova architettura economico-finanziaria internazionale».

Nel mondo post-bipolare e che lentamente costruisce un’architettura nuova, lo schema non può essere semplice, ma deve tener conto di interconnessioni tra le grandi unità regionali che si stanno formando e lavorare perché la guida sia espressa da “blocchi democratici” controllati o al servizio dei popoli ed in cui siano forti le espressioni dei movimenti antiliberisti ed antimperialisti. Un sistema assiato su blocchi regionali, comunicanti tra loro, e che oggi hanno come nuclei Eurussia e un connubio tra Mosca a Pechino (in un rapporto strutturale con l’India non allineata) per la cogestione dell’Asia centrale. Connubio sostanziato dalla nascita di un polo geostrategico formato dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (che lega Russia, Cina, Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan) e dall’organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (che vede impegnati Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan). Si tratta di vaste ed importanti aree del mondo non omologate al modello capitalista (vengono infatti definite “società di transizione”), legate tra loro da atti di cooperazione e mutuo aiuto, fuori da logiche di potenza o di dominio: una sorta di trasposizione geopolitica del principio idraulico dei vasi comunicanti.

Ma l’importanza di questo progetto non può essere compresa se non si cambiano i paradigmi storici e geopolitici che stiamo vivendo, rivoluzionando il pensiero e la politica dei nostri giorni. E questo vuol dire non solo abbandonare posizioni russofobe e continue provocazioni (del resto la vicenda georgiana di quest’estate dovrebbe averci insegnato qualcosa), ma anche la tracotante pretesa di voler imporre, in ogni luogo ed in ogni tempo, la riproduzione del nostro modello di società.

In un mondo che cambia, ed in cui l’Europa fatica a trovare una sua identità e costruire una sua propria dimensione, la Russia oggi potrebbe fungere da elemento di dialogo ed integrazione con le realtà emergenti del nuovo secolo, collegando l’Europa alla dimensione asiatica ed islamica e fungendo così da acceleratore di quel nuovo equilibrio globale, indispensabile per la pace internazionale e lo sviluppo delle forze emancipatrici e di progresso dei vari movimenti operai che operano su scala nazionale.

Le forze di sinistra del continente europeo hanno la necessità di riflettere seriamente su questi temi, partendo dalla consapevolezza che il cimento di un progetto alternativo di Europa contrapposto all’Ue è una necessità dell’oggi, non più lungamente rinviabile.

* Comitato politico nazionale del PRC, Dipartimento esteri