Una sinistra plurale per l’alternativa

Tre sono i dati essenziali delle elezioni del 13 maggio: la vittoria politica, oltre che elettorale, della Casa delle Libertà, in particolare di Forza Italia e del suo leader Berlusconi; la sconfitta politica, oltre che elettorale, dell’Ulivo, in particolare dei DS e del suo gruppo dirigente; ma dentro a questo nuovo contesto politico non va nient’affatto trascurato un terzo dato, il più importante: la sinistra italiana – senza operare in questo caso distinzione di sorta – è al minimo storico. Bisogna risalire molto indietro nella storia, alle ultime elezioni democratiche prima della presa del potere del fascismo, per registrare un risultato per la sinistra così negativo. Il Paese dunque non sterza solo a destra, ma siamo in presenza, se non vi sarà un’adeguata capacità di reazione, di una possibile disfatta di proporzioni gigantesche per la sinistra.
Per queste ragioni valuto il risultato elettorale del PRC positivo ma non sufficiente; il suo 5 per cento costringe un po’ tutto l’Ulivo a doversi misurare con una forza organizzata e radicata in tutto il territorio nazionale e soprattutto rappresenta un punto certo di riferimento per costruire un progetto di alternativa alle destre. Ben diverso e molto più preoccupante, sarebbe oggi lo scenario politico se non vi fosse il PRC, se questo partito non avesse una sua rappresentanza parlamentare, una sua visibilità riconosciuta anche attraverso la possibilità di formare un gruppo autonomo alla Camera dei deputati. Dovrebbero riflettere di più certi presunti benevoli critici del PRC, che vorrebbero trasformarlo in una indistinta formazione antagonista e che storcono il naso ogni qualvolta si discute della necessità di garantire in Italia una presenza comunista, autonoma e organizzata, attraverso il complesso processo della rifondazione che, per essere tale e non un’enunciazione astratta deve essere praticato nel vivo dello scontro politico e di classe. Per questo il risultato del 5 per cento è un’importante tappa del processo della rifondazione comunista.
Un risultato però non sufficiente – come ho già detto – rispetto alla nuova fase politica determinatasi con la vittoria del centrodestra. Non è immaginabile infatti un’alternativa politica e ideale al progetto di modernizzazione capitalista del Paese delle destre avendo in campo la sola sinistra comunista e antagonista. Attorno al progetto dell’alternativa devono convergere un insieme di componenti della sinistra, in primo luogo i DS. È senz’altro questo un progetto non di breve periodo, ma non per questo il dibattito dall’ordine del giorno è eludibile.

La stagione dei congressi

I congressi dei DS, della CGIL, del PRC, e forse quello del PdCI, che si avvieranno all’inizio dell’autunno, dovranno, se si vuole indicare una prospettiva per tutta la sinistra, porre al centro della discussione proprio questo nodo. Non vi è dubbio che questi congressi, sia nel loro svolgimento sia nel loro esito, si condizioneranno reciprocamente. Si tratterà di verificare se si determineranno i giusti rapporti e relazioni nei partiti e tra i partiti per dare corpo a una politica che sia in grado di aggregare, attorno al progetto dell’alternativa, non solo una cosciente avanguardia, ma grandi masse popolari. Per questo motivo la sua realizzazione non può essere affidata solo alla “spontaneità della società civile” e ai “movimenti”: occorre rilanciare il ruolo dei partiti e del sindacalismo confederale e di classe.
Purtroppo, mentre Berlusconi ha imboccato la strada della costruzione di un robusto e organizzato partito di massa, dopo la fase di movimento di Forza Italia – altro che crisi dei partiti di massa! – la sinistra, almeno una sua parte considerevole, ha fatto, in questi anni esattamente la scelta opposta, lasciando al centrodestra, a Forza Italia e ad Alleanza Nazionale, la difesa del sistema dei partiti come valore fondante di una moderna democrazia.
Dunque, anche questo tema peculiare della sinistra (basta ricordare in proposito le riflessioni di Togliatti sulla funzione del sistema dei partiti di massa come parte integrante del sistema democratico nato dalla Costituzione) è stato lasciato alla Casa delle Libertà e diviene fattore centrale dell’iniziativa del blocco moderato per affermare la sua egemonia, per raccogliere consensi ed intercettare una parte notevole del voto popolare.
Forza Italia è tutt’altro che un partito di carta, o un partito a rete, o un insieme di comitati elettorali; è invece un partito di massa, profondamente radicato nella società, ideologicamente molto coeso. Un partito che non è un semplice assemblaggio – come superficialmente in questi anni si è creduto – di moderati o la mera riproposizione di un pezzo consistente del vecchio sistema di potere democristiano. Forza Italia è qualcosa di molto più complesso; attorno ad essa si sono saldate le due anime storiche dell’ideologia borghese italiana: il moderatismo e il sovversivismo. Solo così si comprende appieno l’organicità del blocco sociale e politico espresso dalla Casa delle Libertà e la capacità di Berlusconi di mantenere unita la sua coalizione nonostante pressioni e spinte diverse, perfino opposte, provenienti dai suoi due maggiori alleati: Alleanza Nazionale e Lega. L’operazione di saldare le due principali componenti del “fronte borghese” era riuscita, prima d’ora, solo al fascismo, anche se questa volta è realizzata su un terreno non autoritario, ma di “democrazia liberale”, qui intesa nella sua accezione storica: la dottrina politica del liberismo.
Di fronte a questa incalzante offensiva neoliberista sarebbe illusorio, da sprovveduti, credere di poter far muro alle destre con le sole forze generose del PRC e della sinistra antagonista. Così non fu nel ’22; il PCd’I e gli “Arditi del popolo” tentarono di contrastare con coerenza ed eroica determinazione il movimento fascista, ma alla fine dovettero soccombere e con essi fu travolta tutta la sinistra. Oggi si corre il serio rischio di una dissoluzione simile a quella del PSI e della CGL degli anni venti se non si prende lucidamente atto che si è chiusa definitivamente una fase, quella della svolta della Bolognina che portò allo scioglimento del PCI e alla strategia dell’alternanza.
Una politica che ha generato, quella inaugurata da Occhetto e che poi ha avuto in Veltroni e D’Alema successive varianti, deserti culturali e confusione ideologica: insomma ha prodotto una drammatica crisi d’identità di gran parte della sinistra. La stagione dei congressi sarà perciò fondamentale per tentare di uscire dalla difficile condizione di dover continuare a subire impotenti l’iniziativa aggressiva e determinata delle destre.

È tempo delle scelte

Ecco perché è maturo il tempo delle scelte, non farle sarebbe rovinoso.
Per i DS si tratta di scegliere nettamente l’opzione socialdemocratica e di svolgere un congresso in grado di superare quella brusca cesura con la storia del movimento operaio compiuta dal partito dalla Bolognina in poi.
Non è vero che con il crollo del Muro di Berlino eravamo alla fine della storia; il drammatico attentato terroristico su New York ha infatti riproposto tragicamente la questione della guerra e della pace con l’acutizzarsi delle contraddizioni dell’imperialismo. Dunque, tutto ciò che era stato volutamente rimosso dal gruppo dirigente dei DS è tornato prepotentemente a galla, fino ad investirlo come una gigantesca e violenta onda. Allora, se non si vuole essere spazzati via, occorre svolgere un congresso che, partendo dalla storia e dalla cultura della sinistra italiana, si interroghi sui processi reali nell’era della globalizzazione capitalistica dell’economia.
Come non è vero che la storia del movimento operaio sia stata travolta con la caduta dell’URSS e del socialismo reale. Il socialismo resta un’idea aggregativa di forze, anche diverse, non solo in Europa, come nel caso della Francia, ma anche nel mondo; anzi la lotta contro la globalizzazione capitalistica non può prescindere da questo dato, dal riproporsi, sia pur tra tanti limiti, difficoltà e contraddizioni, di un composito ma vasto schieramento antimperialista, di cui le forze socialiste e comuniste sono parte essenziale; uno schieramento antimperialista necessario oggi più che mai per difendere la pace e per contrastare il terrorismo.
Con la scelta socialdemocratica si abdica al compito storico di superare il capitalismo, ma non per questo si rinuncia necessariamente alle proprie radici, cioè ad essere un partito dei lavoratori che, nel contrastare e respingere le politiche neoliberiste, realizza un’azione riformatrice per un nuovo e più avanzato compromesso sociale.
Una chiara ispirazione socialdemocratica dei DS favorirebbe anche il riposizionamento della CGIL su un terreno sindacale più avanzato.
D’altronde, il ruolo propulsivo assunto dalla FIOM, da un lato, e la costruzione della sinistra sindacale, dall’altro lato, sono segnali che confermano l’avviarsi di una nuova dialettica nella CGIL, che possono contribuire a rilanciare il movimento sindacale nell’impegnativa battaglia in difesa dei salari, dei contratti collettivi, delle pensioni.
Con la stagione dei congressi è dunque in gioco anche il futuro della CGIL; il maggiore sindacato italiano è a un bivio: o si logora ulteriormente, fino a ridursi a organizzazione del tutto residuale nella vita politica e sociale, o mostra la capacità, in una fase caratterizzata dall’egemonia politica, sociale e culturale delle destre, di affermare il suo protagonismo e il suo antagonismo, tutelando le aree sociali che ad esso fanno riferimento e per questa strada riannodare un dialogo, su basi del tutto nuove, con l’insieme delle esperienze del sindacalismo di base.
Proprio per queste ragioni Cofferati, pur essendo uno dei principali responsabili delle scelte compiute dalla CGIL, a partire da quella di praticare comunque la concertazione, è costretto, dall’incalzare degli avvenimenti, a prendere un po’ più in considerazione, con timide aperture, questi temi. Infatti, nei suoi più recenti interventi si coglie l’esigenza, anche se non vi è nessun accenno autocritico sulla strategia sindacale finora perseguita, di dare una base sociale robusta alla trasformazione in senso socialdemocratico dei DS; ciò lo ha spinto a scendere direttamente in campo nell’aspro confronto apertosi nella Quercia. Non ci trovo nulla di scandaloso, a differenza di molti altri, in questo sconfinamento di Cofferati nella politica. È indubbiamente un comportamento inusuale se si ha come parametro la storia del PCI e dei suoi rapporti con la CGIL, ma è del tutto coerente rispetto ad una concezione di tipo socialdemocratico, e quindi alla prassi della “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato che è una delle caratteristiche delle socialdemocrazie.

Nuovo impulso con il congresso del Prc al processo della rifondazione comunista

Anche il PRC è impegnato a svolgere il suo primo vero congresso dopo la scissione del PdCI.
Gli elementi di novità emersi nel corso dell’ultimo anno (vittoria del centrodestra, crisi dei DS e marginalizzazione dei Verdi e del PdCI, riapertura di una dialettica nella CGIL, sviluppo del movimento anti-globalizzazione, precipitazione della situazione internazionale, tanto per citarne alcuni tra i più importanti) obbligano il PRC a un dibattito congressuale che, oltre a dare precise risposte politiche, dovrà indicare le coordinate teoriche degli orizzonti del partito. In questo senso si può affermare che anche il congresso del PRC sarà chiamato a definire meglio la sua identità.
Rifondazione Comunista è oggettivamente un partito cerniera nel contesto della sinistra italiana. È l’unico soggetto politico in grado di misurarsi con l’Ulivo e la sinistra moderata e nel contempo di ricercare un proficuo dialogo con il mondo composito della sinistra antagonista, in tutte le sue diverse espressioni, politiche, sociali e sindacali.
Questa sua centralità gli garantisce un peso politico indubbiamente di gran lunga superiore al suo consenso elettorale. Ma non sempre questa centralità è ben utilizzata dal suo gruppo dirigente: non si trasforma in adeguata e incisiva iniziativa politica per l’alternativa. Il partito troppo spesso oscilla tra il privilegiare, a livello istituzionale (Regioni e Comuni), un rapporto, a volte oltre misura con la sinistra moderata e l’Ulivo e, a livello di movimento invece, anche qui a volte aprioristicamente e senza per altro un riscontro elettorale sufficiente, con la sinistra antagonista.
Questo modo oscillatorio di interpretare la centralità politica acquisita non produce risultati significativi per aggregare energie e forze consistenti attorno ad una politica per l’alternativa, anzi perpetua schematiche divisioni interne che tendono a ridurre, di volta in volta e a seconda delle circostanze e delle opportunità, la questione al dilemma o ricerca spasmodica di una convergenza istituzionale con i DS o teorizzare, accarezzando illusioni minoritarie, un polo della sinistra antagonista, alternativo sia al centrodestra che al centrosinistra.
Credo che uno dei maggiori limiti che ha impedito al PRC di intercettare il 13 maggio i voti in libera uscita dei DS, nonostante la loro travagliata e profonda crisi, sia proprio questo modo oscillatorio di attuare e gestire la linea dell’alternativa, che per ottenere risultati sensibili necessita di dispiegarsi coerentemente e rigorosamente sia nella direzione della sinistra moderata sia in quella della sinistra antagonista. Ma l’aspetto più preoccupante di questa “dissociazione politica” è che, di fronte alle difficoltà, oggettive e soggettive, il dibattito si trasferisce su un terreno minato, sulla natura e il ruolo del partito, mettendo così a rischio lo stesso processo della rifondazione comunista.
Questo dibattito non è nuovo nel PRC. La scissione di Cossutta era dettata dalla volontà di stabilire comunque, a prescindere dai contenuti, un’intesa con la sinistra moderata a costo di mettere in discussione l’autonomia del partito. Questa impostazione di completa subalternità alla politica dei DS ha inevitabilmente portato il PdCI alla residualità o tutt’al più a svolgere un ruolo esclusivamente di disturbo e di testimonianza.
Ma anche l’eventualità di ipotizzare forme, più o meno organizzate, di aggregazione federativa o a rete delle diverse esperienze della sinistra antagonista con quella comunista, oltre a negare il carattere di massa di una politica per l’alternativa svuotano il partito comunista del suo ruolo rivoluzionario, lo mettono fuori gioco fino a determinarne, una volta realizzate queste condizioni, il superamento in un’altra cosa.
Un partito o una federazione della sinistra antagonista è altro rispetto a un partito comunista. L’antagonismo di per sé non è un tratto distintivo dei soli partiti comunisti. Si può infatti essere antagonisti ma non comunisti. D’altronde è storicamente dimostrato che l’antagonismo in quanto tale non realizza una politica volta al superamento del sistema capitalistico, politica che è prerogativa invece dell’antagonismo rivoluzionario dei comunisti. Ciò non vuol dire che l’una o l’altra sinistra non possano trovare intese, convergenze e collaborazione; anzi, proprio perché entrambe antagoniste, sia pur con una diversa priorità della centralità dei conflitti e delle contraddizioni della società capitalistica – i comunisti pongono come contraddizione fondamentale quella tra capitale-lavoro – sono sulla politica molto attigue, anche se sul piano culturale e ideologico sono profondamente diverse.
Dopo il voto del 13 maggio e soprattutto dopo la drammatica azione terroristica contro gli USA dell’11 settembre, queste due sinistre possono e devono sempre più convergere per condurre una forte mobilitazione contro la guerra e un’opposizione politica e sociale incisiva al governo Berlusconi, a iniziare dalla finanziaria, e nel contempo incalzare la sinistra moderata affinché scelga questa linea di condotta. Solo in questo modo, tra l’altro, si può favorire nei DS un dibattito congressuale vero, in cui la sinistra possa rafforzarsi al punto di spostare tutto il partito su posizioni più avanzate.
Riconfermare con nettezza al congresso del PRC l’obiettivo della rifondazione di un partito comunista, insediato nel sociale e di massa, non è solo una necessità storica, ma anche una scelta per l’oggi, per dare un supporto decisivo al progetto dell’alternativa, al quale conquistare, con una tenace e coerente iniziativa politica, tutta la sinistra.

DS: superare la strategia ulivista

Dopo anni di silenzi o tutt’al più di balbettii, ha preso piede nella Quercia, in vista del congresso, un vasto schieramento di sinistra che candida Giovanni Berlinguer alla segreteria del partito, che pone con forza l’accento sulla presenza autonoma nella società italiana di un partito del lavoro e del progresso. Il riproporsi di una dialettica interna ha prodotto alcuni primi importanti cambiamenti. L’adesione dei DS alla manifestazione di Genova contro il vertice dei G8, sia pur tra tanti distinguo, differenziazioni e polemiche, e compiuta con un atto unilaterale rispetto all’Ulivo (anche se successivamente l’adesione del partito ma non della sua sinistra interna è stata ritirata a seguito dei gravi incidenti che hanno avuto per protagonisti le forze di polizia e il “blocco nero”), conferma il ruolo propositivo che sta assumendo l’area di sinistra, la quale aveva condotto su questo tema una specifica iniziativa politica e parlamentare.
Quest’area dunque, per la prima volta dopo la Bolognina, è in grado di influenzare e condizionare il partito e di svolgere un ruolo di primo piano nel congresso per la formazione della maggioranza e per la ricerca di nuovi equilibri nel gruppo dirigente.
Non cogliere questi aspetti di novità sarebbe un errore imperdonabile di miopia politica, anche se la discussione in atto nei DS va valutata per come effettivamente si articola; permangono infatti grandi limiti proprio sulla questione della proposta politica e la stessa area di sinistra evidenzia ambiguità e contraddizioni.
Per avviare in concreto la costruzione del progetto per l’alternativa occorre che si determini una rottura nel centrosinistra, cioè la messa in discussione e il superamento della strategia ulivista che si è rivelata fallimentare, non solo per battere le destre, ma per l’intera sinistra. Per questo se i DS non opereranno con il congresso una discontinuità forte e chiara con l’esperienza ulivista, rischiano di impantanarsi tra due diverse tendenze: da una parte l’esigenza di trasformare il partito in senso socialdemocratico e per questa via recuperare un rapporto con il PRC; dall’altra la necessità congiunturale di riconfermare un’alleanza strategica con il centro moderato. Quindi la formula “scelta ulivista e scelta socialdemocratica” alla lunga non regge; è più un escamotage, una manovra congressuale che un orientamento strategico. In questo senso ha facile gioco l’area liberaldemocratica del partito a rivendicare con coerenza il passaggio dall’alleanza ulivista alla costruzione di un nuovo soggetto dell’intero centrosinistra in un quadro bipolare del sistema politico italiano.
Nessuna persona di buon senso nega l’importanza politica del dialogo con il centro cattolico e laico. L’accordo di desistenza del 1996 e la stessa scelta della non belligeranza nelle ultime elezioni politiche avevano alla base anche questa esigenza. La sinistra italiana non è mai stata maggioranza. Non lo è stata nei decenni passati, ancor di più non può sperare di esserlo oggi in una fase in cui è stata drasticamente ridimensionata. Pertanto, il dialogo con il cattolicesimo democratico e le componenti laiche e ambientaliste è una condizione essenziale e ineludibile per realizzare l’alternativa. Non si tratta però di riproporre esperienze negative già fatte, ma di superare, attraverso una rottura appunto, l’attuale strategia ulivista fondata sul piano politico sulla democrazia dell’alternanza, e su quello sociale su politiche neoliberiste temperate, sia pur proposte ideologicamente nella forma del mito della modernità.
Per questo non è sufficiente che l’area della sinistra dei DS indichi nella ripresa dei rapporti con il PRC, accogliendo alcune delle sue significative proposte sociali, la strada per la ricomposizione, il rinnovamento e il rilancio della sinistra. È questo un passo avanti importante, ma non decisivo. Occorre di più, occorre voltare pagina: il PRC non è interessato a un’alleanza politica di centrosinistra più spostata a sinistra, questa d’altronde è stata un’esperienza consumata drammaticamente con il governo Prodi. È necessario rovesciare completamente l’asse strategico: costruire l’unità delle sinistre, in primo luogo, e ricercare successivamente una convergenza politica con il cattolicesimo democratico e le forze laiche su un progetto forte di alternativa alle destre. Sarebbe perciò inquietante se i DS dovessero insistere sull’idea di considerare il sistema elettorale maggioritario un valore politico in sé, il fine ultimo di un agire teso a realizzare una democrazia matura e compiuta e che al di fuori di questo modello (ad esempio con il proporzionale) non sia possibile affermare per la sinistra riformista un ruolo di governo; come sarebbe esiziale riproporre al congresso l’equivalenza tra modernizzazione capitalistica e modernità, anche perché con la vittoria delle destre questo modo dell’Ulivo e dei DS di organizzare il consenso è completamente saltato.

Rilanciare la lotta di classe e la cultura del conflitto

I DS hanno fortemente posto in questi anni l’accento sulla necessità di un processo di modernizzazione del Paese come condizione per la crescita economica e lo sviluppo. Tutte le loro scelte sono state compiute in linea con questo assunto. Sono dell’opinione che il loro errore strategico sia stato di identificare il concetto di modernità – che sottintende quello di sviluppo – con il concetto di progresso economico e sociale. Anche le destre hanno come intento l’obiettivo della modernizzazione per rendere il “sistema-Italia” più competitivo sul mercato globale e determinarne così crescita economica e sviluppo. Ma la crescita economica e lo sviluppo di per sé non garantiscono progresso economico e sociale, che per essere tale deve prevedere la piena occupazione, una diversa e più equa distribuzione della ricchezza e la tutela dell’ambiente per una diversa qualità della vita. L’ideologia “modernizzatrice”, dunque, non distingue tra la valorizzazione sociale delle forze produttive e il loro uso capitalistico, in ultima analisi del loro sfruttamento in quanto classi sociali subalterne.
L’equivalenza tra modernizzazione capitalistica e modernità ha indotto l’Ulivo e gli stessi DS a rinunciare, nella loro azione, non solo a un progetto di trasformazione della società, ma anche ad assumere una politica riformatrice come programma di governo. L’obiettivo della modernità acquista un valore di sinistra se è a supporto di un disegno riformatore (utilizzo questo termine e non quello rivoluzionario proprio per evidenziare che è mancata da parte dell’Ulivo una politica riformatrice), è invece una mistificazione ideologica se è riferita alla sola crescita economica e allo sviluppo; anzi, così si rincorre, come purtroppo è accaduto, la destra economica nelle sue dottrine neoliberiste. La rimozione della nozione di progresso implica anche la cancellazione dell’idea della lotta di classe e del conflitto. Non è possibile costruire una società più libera, più democratica, più giusta, insomma porsi come obiettivo il progresso sociale senza prevedere conflitti, specificatamente quello tra capitale e lavoro, che in questi anni di governi del centrosinistra si è risolto non con un compromesso sociale più avanzato, ma con una politica a favore delle sole imprese, senza un indirizzo, come prevedeva la pratica della concertazione, di trasferimento di risorse straordinarie per lo sviluppo del mezzogiorno, al fine di ridurre il suo crescente divario economico e sociale con le regioni del nord Italia.
È per questo che il progetto dell’alternativa, per essere credibile, per coinvolgere grandi masse popolari, non può prescindere dal riconoscimento e dalla rimozione dei tragici errori compiuti, e dalla riaffermazione, attraverso la pratica della lotta e del conflitto, di quei valori irrinunciabili per la sinistra come la partecipazione democratica, la solidarietà e la giustizia sociale.

Per una sinistra plurale

Il progetto dell’alternativa deve anche poggiare sulla convinzione che la sinistra in Italia si coniuga al plurale.
Ogni volta che si è in presenza di un’acuta crisi di identità e di prospettiva della sinistra diviene luogo comune l’opinione che la sua momentanea impotenza sia causata dalla sua vocazione a dividersi. Da qui, il passo per fughe in avanti e astrazioni è breve. Avviene così che più di ragionare sulla politica si discute su proposte di natura organizzativa, magari legate al tipo di sistema elettorale. Invece di confrontarsi sulle cose da fare, sui contenuti, sul giudizio di fase, si preferisce prendere in esame le forme organizzative, come se per unire la sinistra fosse sufficiente predisporre un contenitore. Non ci si accorge, ragionando in questo modo, che la proposta di unificare organizzativamente tutta la sinistra non solo non determina in sé un valore politico e una strategia, per che cosa ci si unisce, ma perpetua altre difficoltà, altre debolezze e un’ulteriore condizione di divisione, che è esattamente il risultato opposto rispetto all’obiettivo dal quale si era partiti: dare più forza a tutta la sinistra.
Per non cadere in questa “trappola” occorre contrastare con fermezza ciò che c’è di astruso nel dibattito a sinistra, ciò che non entra nel merito dei problemi, ciò che elude i rapporti di forza reali e ciò che non esprime sostanza e concretezza per dare soluzione al problema di riproporre lotte efficaci di massa per contrastare la globalizzazione capitalistica e specificatamente in Italia per opporre un blocco politico e sociale alternativo alle destre.
Dunque, altro che partito unico della sinistra! Rispetto alla baraonda di proposte organizzative, ai grandi o piccoli partiti contenitori, serve ben altro!
Per uscire dallo stato di grande difficoltà, la sinistra ha bisogno di far convergere attorno ad una proposta strategica le sue diverse componenti, nel rispetto delle singole identità e soggettività. Un ruolo decisivo potrà essere svolto in questo percorso unitario, sulla base di intese e di progetti forti, sia dai comunisti, organizzati in un autonomo partito, sia da una formazione socialdemocratica, robustamente insediata nel sociale. Sono del parere che senza queste due sinistre dalle caratteristiche di massa difficilmente le altre componenti, come quella liberaldemocratica e quella antagonista non comunista, riusciranno, per i tratti che le contraddistinguono, ad avviare un processo unitario su cui l’insieme della sinistra possa riconoscersi.
Dalla stagione dei congressi, la quale si intreccerà inevitabilmente con la vertenza dei metalmeccanici e di altri cinque milioni di lavoratori dipendenti, con lo scontro sulla finanziaria, con i movimenti anti-globalizzazione e con lo sviluppo di un forte e unitario movimento di massa in difesa della pace, dipenderà gran parte del prossimo futuro della sinistra italiana, della sua capacità di essere innovativa e plurale per trasformare queste importanti esperienze di movimento in un nuovo ciclo di lotte e definire non in modo accademico, ma partendo da esso, un progetto forte di trasformazione della società: quello appunto dell’alternativa.