I problemi del mondo, i movimenti e i sommovimenti che ne scaturiscono, sono destinati a ridisegnare la sinistra.
Molto spesso, anche in passato, l’ordine o il disordine internazionale hanno fatto e disfatto i partiti, le teorie, i soggetti, e decretato il successo o l’insuccesso delle sinistre. Ma adesso è davvero tutto il mondo, non una parte pur importante di esso, che impone di riprendere le misure delle azioni e dei pensieri di chi si definisce di sinistra.
A Firenze, più ancora che a Porto Alegre, è diventato chiaro che il rifiuto di un mondo ancora regolato dalla guerra e brutalizzato dalla regola ferrea del mercato si accompagna a un faticoso ma non ingenuo lavoro per rendere possibile una situazione nuova e diversa per strade in parte nuove.
La novità non sta solo qui. Mentre si cerca di agire sui rapporti di forza globali, tra chi ha il potere economico, mediatico, militare e governativo e i popoli – mettendo sulla bilancia il peso dei movimenti, delle competenze, di settori importanti dell’opinione pubblica e ricercando un collegamento con i sindacati che difendono i diritti del lavoro – si presuppone anche un cambiamento dei comportamenti soggettivi, dal basso: quei comportamenti che non si misurano solo quando si va a votare, ma anche quando si vive, si consuma, si compra, si mangia, si legge.
Neppure questa, a ben vedere, è una novità assoluta: molte volte nella storia che è alle nostre spalle, chi voleva cambiare le cose ha tentato di praticare e predicare costumi coerenti con le idee. Anzi, a volte ha cercato di imporli, producendo i disastri che ci sono ben noti.
Ma qui, in una dimensione transnazionale che scommette sulla diffusione delle conoscenze e della consapevolezza, si prova a superare in modo nuovo il distacco tra pratica e strategia. Un distacco che nelle sinistre laicizzate del nostro tempo ha lasciato spazio a visioni a volte pragmatiche, a volte ideologiche ma in parte astratte della politica del cambiamento. Le donne e il femminismo, più di trenta anni fa, sono state le prime a svelare che quel divorzio tra comportamenti e convinzioni toglieva forza a qualsiasi opera di trasformazione.
Diffondere, per fare solo un esempio, la consapevolezza che l’eccessivo consumo di carne bovina in questa parte del mondo colpisce l’ecosistema e toglie risorse a molti paesi poveri non significa stare su un altro pianeta rispetto allo sforzo di far comprendere che la guerra preventiva o la “normalità della guerra” sono un disastro inaccettabile.
In entrambi i casi ci si deve organizzare per cambiare la politica mondiale: ma avere occhi per tutti e due questi corni della globalizzazione comporta anche che ciascuno, se vorrà, potrà contribuire a voltar pagina modificando anche individualmente il proprio stile di vita.
Non sembri una divagazione inutile ricordare che a Firenze si è confermata questa idea nuova dell’agire politico: l’interesse straordinario di quel composito movimento sta anche nelle forme che si dà, nelle domande radicali sulla democrazia che fa, nelle azioni che rende possibili. Lo ricordo perché la sinistra che vuol stare in contatto con questa onda del cambiamento non dovrà limitarsi a vedere con piacere solo il NO alla guerra oppure la spinta a una maggiore giustizia planetaria, ovvero i grandi obiettivi, ma anche i mezzi che si propongono.
In realtà, in quel crogiolo, si intravedono nuovi connotati della politica molto distanti da quelli usualmente praticati nella sinistra dei partiti. Una sinistra, beninteso, che in Italia resta comunque una realtà popolare e rilevante.
Si perderebbe un’occasione d’oro se non si capisse che riflettere sulla sconfitta del 2001 e guardare a cosa è cambiato nella spinta alla politica di tanti giovani e intellettuali critici di questa globalizzazione, non sono compiti tanto diversi.
Si è fatto vincere Berlusconi perché non si è fatta un’alleanza più larga?: vero. Si è perso perché non si è cambiata a sufficienza la politica economica e sociale e si è ceduto su troppi principi?: giusto. Ma tutto questo è stato possibile perché la politica, a sinistra, nei gruppi dirigenti dei partiti, è ancora “posizionamento”, conservazione di posizioni acquisite dentro la cornice autolesionista della “divisione del lavoro”: alla sinistra “antagonista” il compito di essere radicali; alla sinistra “di governo” il compito di essere moderata. Una vera e propria caricatura di antiche dispute.
Naturalmente nessuno, e io tantomeno, si deve permettere di ignorare le differenze di strategia che abitano la sinistra o di guardarle con sufficienza. L’appello generico all’unità, da solo, non porta da nessuna parte, anche se fatto col cuore in mano.
Ma è indubbio che quel modo di intendere le “due sinistre” ha avuto in sé qualcosa di artificioso e policista da un lato e di inattuale dall’altro.
So bene che, dopo la sconfitta, persino tra i democratici statunitensi si discute in modo non dissimile che tra noi, tra partiti e dentro i DS. Anche lì c’è chi dice: “abbiamo inseguito la destra” e chi sostiene “ non abbiamo colto le inquietudini degli elettori moderati”.
Non è dunque in discussione che esistano linee e letture differenti.
Ma oggi, in Europa di sicuro, e io credo persino negli Stati Uniti, la discussione deve fare – e in qualche caso lo sta già facendo – un salto.
Non si può più ignorare che tra il cielo e la terra della politica ci sono molte più cose di prima (o di quanto prima i gruppi dirigenti non vedessero).
“Posizionarsi”, dire: “Io sono quello che raccoglie la bandiera dell’antagonismo” oppure “ io tengo alto il vessillo del Governo” non basta più.
Non ho dubbi che dire SI o NO alla guerra all’Irak faccia la differenza. Ma insieme a quel NO bisogna spazzar via tanti teoremi: quello secondo cui dire SI è più “governativo”; e quello per cui dire No è sufficiente. Dire NO è necessario ma “posizionarsi” non basta a portare alla politica milioni di persone.
Vogliamo dire la verità? Qui hanno perso voti i “governativi” e gli “antagonisti”. Io penso, naturalmente mi posso sbagliare, che una delle ragioni stia proprio qui: nell’idea che milioni di italiani che si sentono di sinistra o simpatizzano per la sinistra si sono fatta di noi.
Non appartengo alla schiera di coloro che considerano i partiti un intralcio o una forma definitivamente superata.
Tanto più nell’epoca in cui i poteri straordinariamente forti sono organizzati, con ideologie e tecnologie, apparati e mezzi economicamente più potenti di un tempo. La politica, che è nata per porre un limite al dominio dell’economia, nel 2000 è diventata una risorsa ancora più preziosa. Detto questo non si può non vedere che, nella crisi democratica che segna il nostro tempo, le organizzazioni politiche classiche non sono immuni dall’affanno.
Troppo lungo sarebbe ripercorrere le ragioni e le cause profonde di questo malessere: ciò che mi preme qui è solo ricordare che ripartire dal lavoro e dalla libertà è non solo possibile, ma necessario. E che la forma del partito, dall’alto verso il basso, va ripensata. Tra l’altro è possibile, senza rinunciare né alla risorsa dell’organizzazione né alla responsabilità delle funzioni dirigenti: è l’incrostazione paternalistica e insieme astratta quello che può saltare, in modi in fondo già praticati in diverse forme dell’agire politico.
Non credo di essere sfuggita al tema della rigenerazione di una “sinistra del cambiamento”: il NO alla guerra e al neoliberismo, ormai lo sappiamo, hanno un ricco corollario di pensiero ed elaborazione che va utilizzato e ancora lavorato.
L’unità delle opposizioni, nel caso italiano, va perseguita con intelligenza, approfittando della crisi di fatto del riformismo debole e senza rimpianti per l’antagonismo “tutto d’un pezzo”.
FIAT, giustizia, informazione, assetto democratico dello Stato, stato sociale: i terreni di iniziativa comune non mancano. In alcuni casi siamo già vicini, in altri no: non ci resta che provarci, con una battaglia delle idee e un’intenzione unitaria non ispirata al quieto vivere ma a un progetto di cambiamento rigoroso e appassionante.