In una lunga intervista pubblicata ieri su Il manifesto, il segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano, alla domanda del giornalista che gli chiedeva che fine farà il simbolo del partito, anche a seguito della decisione di procedere a liste uniche alle prossime amministrative, risponde: «Per noi il processo unitario deve tenere insieme soggetti politici, singoli e associazioni riconoscendo l’autonomia di tutti e costruendo una cultura nuova. Il simbolo seguirà».
Bene. Finalmente un po’ di chiarezza. Nella sostanza il processo di costituzione della “cosa rossa” prevede che il simbolo di Rifondazione Comunista possa tranquillamente essere dismesso e con esso il nome. Se ritorno su questa notizia è per il fatto che ogni giorno che passa risulta sempre più chiaro come la retorica sul mantenimento del partito funga esclusivamente da copertura di una posizione liquidatoria. Dire che .. “comunque il partito resterà” … non significa nulla. Le scelte concrete vanno tutte in un’altra direzione e l’esito che si prepara è uno solo: la costruzione nell’arco di 1-2 anni di un nuovo partito, genericamente di sinistra, forse di ispirazione socialista, con buona pace di 15 anni di battaglie e di tante promesse fatte a iscritti ed elettori.
Se richiamo questa notizia, che per molti fra quelli che seguono assiduamente le vicende di Rifondazione può apparire irrilevante e scontata, è per due ragioni. La prima è che la maggior parte degli iscritti e dei simpatizzanti di Rifondazione non sa ancora oggi cosa li attende e – ne siamo convinti – crede che tutte queste proposte di “cose rosse”, patti federativi e via dicendo non facciano venir meno il ruolo del partito. Se vi è questa disinformazione non deve stupire. Fino ad ora il gruppo dirigente maggioritario ha fatto di tutto per mantenere le ambiguità sul progetto, per l’ovvio motivo di giungere alla sua conclusione pagando il minor prezzo politico con la propria base. Ma vi è anche un’altra ragione. Questa ambiguità è stata coltivata da quella parte della minoranza che con grande spregiudicatezza si è ricollocata nella maggioranza, motivando questa scelta come la necessità di sostenere i difensori (nella maggioranza) dell’autonomia del partito. Quello che sta avvenendo è la triste dimostrazione di quanto inconsistenti siano queste affermazioni.
Vi è, tuttavia, un’altra ragione che va qui richiamata. Il fatto è che quando si parla di nome o simbolo è invalso – anche a sinistra – l’abitudine di etichettare l’incauto che vi fa riferimento come inguaribile “identitario”, appellativo che vorrebbe suonare come una stigmatizzazione dell’atteggiamento conservatore di chi non sopporta di rimettere in discussione l’identità del proprio partito, concepita come una sorta di feticcio, una sorta di “coperta di Linus” dalla quale, per ragioni psicologico-affettive, non sa allontanarsi. Insomma, un comportamento irrazionale e tendenzialmente reazionario, perchè incapace di cogliere i processi in divenire. La ragione per la quale, invece, riteniamo come Ernesto che vada preservato il nome e il simbolo di Rifondazione Comunista è radicalmente diversa. Non ci muove puramente la difesa di un’identità – che comunque non vi sono ragioni per abbandonare – ma la consapevolezza che questa trasformazione è destinata a cambiare ruolo e funzioni di questa forza politica, spingendola verso una sostanziale omologazione, se non una irreversibile emarginazione.
Perché sosteniamo questa tesi? Per alcune semplici ragioni. In primo luogo, per il fatto che non vi sono motivi validi per sciogliere Rifondazione nella “cosa rossa”. Se si volesse allargare Rifondazione mantenendone il profilo originale – o anche avviando un utile processo di rinnovamento – non sarebbe impossibile. Basta osservare l’attuale area della “cosa rossa”. Essa è, per la gran parte, costituita da militanti ed elettori che hanno votato per le due formazioni comuniste che un tempo facevano parte dello stesso partito. Su una stima dell’11-12%, derivante dalla somma algebrica delle forze che dovrebbero costituire il nuovo soggetto, un polo comunista conterebbe sempre sulla carta l’8/9%. Che senso ha allora stravolgere un impianto politico-programmatico per dar vita ad un soggetto ibrido, senza identità, dal dubbio appeal? Anche ponendosi nell’ottica di contrastare il nascente Partito Democratico sarebbe certamente molto più efficace un partito consistente e, nel contempo, dall’identità forte.
La seconda ragione è che, all’opposto, la “cosa rossa” dà l’avvio ad una modifica sostanziale del profilo politico-programmatico di Rifondazione Comunista, spingendola verso un approdo governista che ne pregiudica sostanzialmente il progetto politico. Il perché vi sia questo rischio è presto detto. Alcune delle forze coinvolte nel processo, Sinistra Democratica in primis, ma non solo, considerano la nascita di un partito generico della sinistra come il mezzo per conseguire, oltre che un più esteso consenso elettorale, una permanente collocazione di governo da posizioni di maggiore forza. In queste forze vi è la volontà – peraltro dichiarata- di stabilizzare una collocazione di governo e di consolidare, quindi, la relazione ( anche mettendo in conto la necessaria concorrenza) col Partito Democratico. Rifuggono, le stesse, dalla possibilità di un’uscita dallo schema bipolare perché intravedono il rischio di essere espulsi dal ruolo di governo che considerano decisivo.
Beninteso, ogni posizione è legittima. Il punto è: perché Rifondazione dovrebbe piegarsi a questa logica o dar vita ad un soggetto fortemente condizionato dalla stessa? Quale vantaggio gliene deriverebbe, a fronte dei rischi evidenti? E in ogni caso, è questo che ci chiedono gli elettori e i militanti che ci hanno sostenuti in questi anni? O non è forse quello di considerare il governo come una scelta non obbligata, nella convinzione che il processo che si deve mettere in campo ha nella trasformazione sociale la sua bussola e quindi alla stessa vanno subordinate le alleanze e i ruoli di governo e non viceversa? Che queste considerazioni poggino su fatti concreti e non su valutazioni ideologiche lo dimostrano i contrasti prodottesi nel corso di questi mesi fra le forze che dovrebbero dar vita alla “cosa rossa”. Lo ricordiamo: la differenza di scelta sulla manifestazione anti-bush, la differenza di valutazione dell’accordo sulle pensioni e conseguentemente sulla posizione assunta dalla Fiom ed ora la divisione sulla manifestazione del 20 ottobre. Stiamo parlando di posizioni relativamente ai contenuti della politica del governo e al modo di porsi di fronte allo stesso, non di bruscolini.
Tutto ciò può consentire di andare disinvoltamente alla convocazione degli “stati generali della sinistra” come passaggio per stringere sull’unificazione organizzativa? Si è mai visto un soggetto che si costituisce a prescindere dalle intenzioni politiche e dai comportamenti concreti dei suoi sostenitori? Dove si finisce con un approccio simile se non nel “politicismo” avventato di chi spera che la semplificazione organizzativa apra nuove prospettive, di fronte ad una verifica fattuale largamente negativa? E’ per queste semplici ragioni che il cambiamento di nome e simbolo sono fatti rilevanti che sarebbe assurdo trascurare. E’ in gioco una prospettiva politica, oltre che un’identità. Per questo siamo contrari alla “cosa rossa” e ci comporteremo di conseguenza nel congresso di Rifondazione.