Un programma per l’alternativa

Non milito più, ormai da diversi anni, in nessun partito, né partecipo ad alcuna delle varie forme organizzative della sinistra italiana: sento e scrivo della necessità della sua riorganizzazione, ma nessuna delle forme organizzate esistenti mi convince quel tanto che è necessario per tornare, ormai anziano, alla politica attiva.
Anche sul piano propriamente politico-culturale, sul quale cerco di dare un contributo con una rivista alla cui direzione partecipo, mi sento in questo momento un po’ un caso a parte: dopo essere stato infatti per quasi quarant’anni un marxista e un comunista decisamente eterodosso, mi trovo oggi spesso a contrastare varie forme di liquidazione troppo sommaria della tradizione marxista e comunista, che pervadono spesso anche l’estrema sinistra e convergono a considerare il movimento operaio e le rivoluzioni del novecento come un cumulo di macerie, anche quando si è costretti a difendere con i denti proprio le conquiste strappate a quei tempi e da quei soggetti.
Permettetemi dunque, in queste pagine de l’ernesto, di fare un intervento un po’ anomalo. Di non parlare, se non con un accenno conclusivo, di Berlusconi, di D’Alema, di Cofferati, della crisi dell’Ulivo, delle elezioni future, e neppure delle imminenti e pur decisive scadenze di lotta, ma di riferirmi piuttosto a qualcosa di più generale che tutto condiziona e che resta invece troppo trascurato ed inerte.
Cioè un giudizio, non so se fondato, sulla fase storica che si apre ed incombe, e in qualche tratto ricorda il passaggio degli anni trenta che, in ultima analisi, anche se in modo diversificato, ha fortemente determinato il pensiero politico della mia generazione di comunisti.
Parto dalla guerra, ovviamente: ma non per ripetere giudizi e posizioni che già tutti noi abbiamo espresso con nettezza – un no senza se e senza ma – e si distinguono non poco oltreché da quelle del governo, e anche dalle molte ambiguità persistenti nel centro-sinistra.
Mi interessa invece sottolineare che l’eventuale ma probabile guerra in Iraq non sarebbe uno sciagurato errore, come molti ancora lo considerano, unicamente attribuibile a un presidente transeunte, e dunque separabile da una tendenza più di fondo nella politica americana, che già incubava nelle guerre del decennio, né da un modello sociale e culturale sulla cui virtù in troppi nella sinistra di governo hanno convenuto; e non è neppure un anacronistico colpo di coda di un vecchio imperialismo “ormai in via di liquidazione” come sostiene, apologeta inconsapevole della globalizzazione, Toni Negri.
Essenziali invece sono l’analisi e il progetto strategico, modernissimi, che ispirano questa guerra, e sopravviverebbero anche se per qualche ragione essa fosse nell’immediato evitata. Non si può certo rimproverare a Bush di non essere chiaro e coerente. La sua analisi parte dalla consapevolezza piena, quanto lo è fra noi, che la fine della guerra fredda non significa fine dei conflitti, che la globalizzazione neoliberista e unipolare non promette un rapido, rettilineo percorso verso il generale benessere e il generale sviluppo, ma un percorso lungo, duro, a zig-zag, durante il quale nuove inclusioni si accompagnano a nuove esclusioni, fasi di espansione e di crisi, e nel quale conflitti acuti sono fatali. La Seconda ‘belle epoque’ si sta chiudendo, e le illusioni cadono. Non solo emergono in ogni aspetto e regione del mondo problemi drammatici – precarietà, degrado ambientale, diseguaglianze crescenti, crisi della istituzioni democratiche – che producono conflitti violenti e disperati, ma siamo nel pieno di una crisi, forse non precipitosa, ma strutturale e duratura dell’economia mondiale.
Da questo trinomio – crisi, economia e politica, movimenti contestativi, incertezza generale sul futuro – nasce la convinzione che sottostà alla linea Bush e così posso riassumere: è del tutto illusorio – egli dice – sperare di tagliare alle radici il terrorismo e ridurre alla ragione gli stati che lo proteggono, risolvendo prima i problemi da cui esso nasce; perché mercato e democrazia potranno risolvere quelle cause solo in parte e nel lungo periodo, comunque alla condizione che nel frattempo mercato e stabilità politica siano garantiti da un governo mondiale forte, legato ad una ideologia potenzialmente generalizzabile. Gli Stati Uniti e solo loro hanno i mezzi militari, finanziari, mediatici per farlo, e un modello di civilizzazione da proporre a tutto il mondo, a condizione di potere usarli senza condizionamenti né esitazioni, ‘ legibus soluti’. E a ciò si attrezza.
L’altra scelta possibile, è quella di mettere in discussione le radici – economiche, sociali, culturali e istituzionali – non dico del capitalismo in generale (problema che non è all’ordine del giorno dati i rapporti di forza, e che del resto, come la nostra storia ha già insegnato, non si risolve con una rottura risolutiva e improvvisa) ma quanto meno di rimettere in discussione il suo assetto attuale, storicamente determinato, l’ordine neoliberista e unipolare. Qui è nata la crisi di tutte le varianti del riformismo europeo degli ultimi anni , un po’ più o un po’ meno moderata ma comunque incapace di definire grandi progetti di trasformazione e di creare un blocco di forze adeguato a sostenerli e a gestirli.
È un dilemma che non si presenta per la prima volta. A metà del secolo scorso assunse caratteri drammatici, si aprì una strada in ritardo, si trascinò fino ad una guerra mondiale. Ma alla fine si risolse, con un avanzamento, sia pure parziale e costosissimo, ma fecondo. Attraverso lotte, esperienze riformiste in progress, rivoluzioni vittoriose e spesso poi degenerate, si arrivò comunque ad un nuovo equilibrio e a un nuovo assetto mondiale, del tutto diverso dal capitalismo classico. Con grandi conquiste prefiguranti nuovi traguardi storici: lo stato sociale, la democrazia organizzata, nuovi diritti per il lavoro, la fine del colonialismo diretto, l’equilibrio bipolare tra potenze che le costringevano ad accettare un limite e una sfida. Un grande compromesso innovativo sul quale, forse al di là dei loro progetti, contribuirono forze sociali, culturali, interessi nazionali diversi, in competizione, e al fondo anche nel lungo periodo antagoniste tra loro.
Il problema che ora torna all’ordine del giorno – dopo una fase di ‘ebbrezza del vincitore’, che sosteneva il capitalismo restaurato nella purezza primigenia dei suoi giovanili istinti dall’antica fiducia nel mercato, e dalla modernità della nuova tecnologia – è quello variamente posto da Marx anzitutto, ma anche dai Keynes, dai Poljani, dagli Schumpeter, dai Kontradieff: carattere ciclico dello sviluppo capitalistico, conflitti sociali che ne derivano, ridefinizione delle gerarchie internazionali, non autosufficienza dei suoi meccanismi autoregolatori, in sostanza la lotta di classe e di civiltà come motore di crisi e trasformazione, di crisi e di nuovi equilibri. E dunque necessità della politica forte, elemento essenziale così di rottura come di compromessi innovativi, che hanno da sempre segnato il cammino della storia di questo sistema sul filo tra l’imbarbarimento e la trasformazione. Sia pure in forme, in un contesto e con soggetti del tutto nuovi, con temi ancor più radicali e meno componibili col sistema, e con meno possibilità di rivolgimenti subitanei, un bivio che ricorda le vicende della metà del secolo scorso.
Non c’è più l’Urss, con tutte le speranze, la forza e le illusioni che alimentava, le rivoluzioni anticoloniali hanno vinto e poi si sono arenate o sono degenerate, la democrazia si è espansa e poi svuotata, la sinistra occidentale è entrata in crisi sia per l’esaurirsi di obiettivi realizzati che per la successiva omologazione all’ordine esistente e la decomposizione della propria base sociale. Ma d’altra parte proprio la crisi del neoliberismo e l’evidenza delle sue conseguenze sociali e culturali risveglia nuove consapevolezze, genera conflitti, evoca nuovi soggetti sociali, nuovi bisogni riconoscibili, disloca variamente il ruolo degli Stati, riproduce spinte imperiali e poteri di fatto soverchianti, apre contraddizioni perfino all’interno del riformismo moderato, nel senso comune, nella stessa elites dirigente.
Il tema vero non è più se l’assetto attuale possa essere accettato, stimolato, rivolto al meglio accettandone le strutture, le istituzioni, i valori fondanti. Ma se esso sia destinato a sopravvivere – in mancanza di alternative complessive e di alto profilo – fino a conseguenze rigorose e aberranti; o se invece si possa e si debba definire ed imporre appunto una ‘grande trasformazione’, una alternativa, ma allora attraverso quali idee forza, quali obiettivi di riforma coerenti e radicali ma storicamente mature, dunque con quale blocco sociale, per quali itinerari, con quali alleanze.
Ripeto: non parlo in questo caso di una alternativa immediatamente anticapitalistica. Anche se sono ancora e sempre più convinto che le grandi contraddizioni della società pongono oggi ancor più di ieri in discussione le radici di questa formazione economico-sociale, e proprio per questo occorre tener viva, anzi ricostruire e portare più a fondo una critica teorica e pratica del sistema, la prospettiva del suo superamento, non credo, dopo la sconfitta che ci sta alle spalle, con gli attuali rapporti di forza, ad una rottura radicale e improvvisa, né che lo sviluppo spontaneo dei movimenti anche più radicali possa linearmente produrla per l’avvenire. Dal novecento che ho vissuto ho tratto la persuasione che il socialismo e il comunismo siano iscritti come una possibilità e non come una necessità della storia, e comunque,come approdo di una storia di lungo periodo, che si svolge per tappe e in modo alterno, e in ogni tappa ha bisogno non solo di accumulare forze soggettive, – vecchia talpa che scava spinta dal procedere della modernizzazione e da ciò che essa virtuosamente produce di antagonistico – ma abbia più che mai bisogno di sedimentarsi in culture consapevoli e organizzate, in progetti definiti, nella conquiste di casematte, in mutazioni strutturali parziali come leva per la formazione di un nuovo senso comune e di una nuova classe dirigente.

È la vecchia questione gramsciana del rapporto reciproco tra riforme e rivoluzione, tra conflitto ed egemonia, del primato della politica se per politica non si intende l’avvilente bricolage del potere che oggi ne ha preso il posto.
È necessario e possibile, oggi, in questa crisi, qualcosa di simile? La necessità mi pare evidente anche se continuamente trascurata. La possibilità è invece tutta da discutere e largamente da inventare. Tuttavia qualche barlume, qualcosa di reale su cui esercitare, insieme al pessimismo dell’intelligenza, un po’ di ottimismo della volontà, comincia ad intravedersi.
Voglio concludere, proprio a questo proposito, con qualche accenno alla situazione in cui lavoriamo. Mi riferisco ad alcuni fatti immediati ma non congiunturali. Il governo di centro-destra, sulla cui natura e particolarità abbiamo a lungo riflettuto, e dopo quella sua vittoria che avevamo previsto quando ancora era forse evitabile, si è però presto trovato in difficoltà: non solo per errori e discredito della sua classe dirigente, ma perché crisi economica e crisi internazionale, in radicale contraddizione con ciò che esso prevedeva, riducono i margini per saldare stabilmente il binomio populismo-liberismo su cui aveva creato un blocco sociale e un’illusione collettiva e ottenuto una risicata maggioranza elettorale. Non penso per questo – non so neppure se mi auguro – rapidi sfaldamenti di maggioranze parlamentari senza e prima che si formi uno straccio di alternativa. Mi limito a constatare per Berlusconi una difficoltà via via crescente su vari temi e in varie direzioni. Per questo egli si affida al ‘grande fratello’, pronto ad accettare le sue scelte di guerra e la sua legge imperiale. Ma anche da ciò nascono e nasceranno contraddizioni anche nei rapporti tra gli Stati, oltre che nel senso comune.
A fronte, particolarmente in Italia, abbiamo la crescita largamente inattesa di grandi movimenti sociali, di resistenza per ora, ma che già contengono consapevolezze più avanzate, comunque muovono grandi masse, che interagiscono reciprocamente tra loro: da quello più avanzato e ricco di potenzialità per il lungo periodo – cosiddetto no global, in cui emerge alla politica una nuova generazione e che riporta in primo piano le questioni essenziali dei nostri tempi – a quello della lotta democratica di moderni strati sociali intermedi, moderati e insieme radicali, a quello del mondo del lavoro che offre a tutti un tessuto connettivo grazie anche a una supplenza politica del sindacato.
Ma, ecco il punto, possono questi movimenti di per sé offrire uno sbocco alla crisi, e ai suoi tempi relativamente incalzanti? Sia una analisi veritiera di ciò che i movimenti per ora sono, perfino in Italia tanto più su scala europea e mondiale, sia la memoria, forse condizionante, del decennio ’70 che ho vissuto in prima fila, mi convincono di no. La stessa crisi che li alimenta farà incontrare loro ostacoli aspri, e la sua stessa radicalità renderà arduo offrire uno sbocco politico che soddisfi senza contraddirle le sue istanze, come avvenne a metà di quel decennio. Il punto più difficile, in questo senso, non è tanto quello – di per sé tutt’altro che scontato – di come costruire una coalizione elettoralmente vincente, quanto quello di costruire una coalizione capace di governare i problemi tanto più gravi che si troverà di fronte nel caso vincesse. L’idea di una ripetizione del ‘magico ‘96’ su cui tanti si illudono, non ha fondamento: per questo non condivido l’ipotesi accettata dallo stesso Cofferati di un Ulivo che si consolida nelle forme e nei confini attuali, su un programma leggermente corretto, e alla fine trova un accordo elettorale circoscritto e dell’ultimo minuto con Rifondazione e il mondo di cui essa fa parte. Certo Cofferati rappresenta una grande risorsa, non solo per la forza di una popolarità meritatamente conquistata, ma perché ha scelto di costruire un’opposizione non con operazioni tattiche e di vertice, ma evocando o dialogando con un movimento di massa che lo sostiene e lo vincolerà. Ma quell’itinerario è già messo in discussione dai fatti: l’Ulivo anziché unirsi e spostarsi in sintonia con i movimenti, non solo si sta rompendo, su questioni decisive come la guerra e non solo, ma in questa divisione si riorganizzano e reagiscono forze non marginali che muovono in direzione di un nuovo spostamento verso il centro, basta guardare alle posizioni vincenti nell’ultima direzione Ds. E tutto ciò avviene con maggiore rapidità di quanto invece non proceda la costruzione di una coalizione nuova, capace di conquistare una maggioranza ma su un terreno più avanzato, e sufficientemente coesa per offrire un’alternativa credibile.
Questo ragionamento, e questi accenni al punto in cui siamo, mi porta a porre brutalmente il problema che mi pare attraversi parte dell’attuale sinistra. Il tema all’ordine del giorno è di offrire alla mobilitazione riattivata dell’opposizione a Berlusconi un interlocutore politico che si proponga non come direzione del movimento, che non la vuole, ma come una rappresentanza politica e un progetto in cui esso possa parzialmente riconoscersi. Il che vuol dire non una riverniciatura del ’96, ma una nuova coalizione che si costruisca nel tempo e in piena trasparenza, non dominata dall’ossessione di vincere subito e a ogni costo, e coinvolga dall’inizio l’intero arco di forze su cui deve e vuole contare, con il realismo del compromesso tra diversi, ma anche una loro reale trasformazione, nell’accettazione comune, non di una strategia – oggi impossibile – ma di un programma impegnativo. Nodo molto aggrovigliato. Se la fase è quella che ho cercato di dire, infatti, non basta a definire un programma, convenire sull’articolo 18 senza definire un seguito nelle politiche contrattuali, riproporre riduzioni di orario o un po’ di redistribuzione del reddito, o chiedere la remissione per i paesi più poveri di debiti quasi inesigibili, o la stessa Tobin tax, o rifiutare la legge Moratti lasciando sul tappeto la riforma Berlinguer, rievocare il piano Delors o un keynesismo banalizzato senza mettere in discussione il Patto di stabilità, dire no a ogni atto di escalation di guerra e proclamare il principio della non violenza ma senza definire in concreto una politica estera autonoma dell’Europa e di riforma radicale delle istituzioni internazionali che governano il mondo al riparo del suffragio popolare e di gran parte degli stessi governi; difendere i diritti senza affermare nuovi poteri, e via elencando.
Occorre definire con più compiutezza un programma, dunque, e faccio solo due esempi. Il no alla guerra deve diventare una politica per la pace. Per decenni la tentazione della guerra, se non è stata vinta, è stata almeno arginata dall’equilibrio di due superpotenze atomiche, politicamente antagoniste e solo in qualche momento conniventi.
Quest’equilibrio non c’è più, ed è illusorio, forse temerario, pensare o addirittura sperare che col tempo si riproduca. Ciò vuol dire, banalmente, che occorre un grande e largo movimento pacifista che non si fermi al pur essenziale principio della non violenza, ma politicamente si qualifichi come lotta per il graduale disarmo generale e intervenga tempestivamente su tutte le questioni concrete in cui si aprono o si preparano confitti militari, come la questione palestinese sulla quale siamo complessivamente intervenuti con ritardo, a volte con troppa prudenza, altre volte invece con indifferenza sui primi passi da imporre.
Ma anche questo non basta a un vero programma di pace. La prima spinta della guerra nasce dal tragico squilibrio nord-sud, qui va individuato il tema essenziale di discrimine. E ad affrontare la questione nord-sud è utile ma insufficiente indicare obiettivi come la Tobin tax, o la cancellazione di una parte del debito, occorre battersi per una trasformazione radicale della grandi istituzioni che la governano: Fmi, Wto, Onu, comunità continentali, democratizzarle o rifarle da capo. E occorre – ecco il punto più difficile – battersi per nuovi indirizzi della tecnologia, della ricerca, degli investimenti, degli stili di vita e di consenso nel nord del mondo, che stimolino e aiutino uno sviluppo multipolare e autocentrato, anziché produrre polarizzazione ed esclusione: tutti obiettivi politici, e che di risultati politici concreti hanno bisogno.
Questo mi porta al secondo esempio: la politica economica.
Siamo tutti d’accordo che la premessa, già matura e praticabile, è la redistribuzione del reddito e la difesa dei diritti del lavoro soprattutto in Europa.
Non è solo questione di giustizia sociale, ma condizione elementare per affrontare una crisi economica che è anzitutto, anche se non solo, insufficienza della domanda effettiva. Apparentemente sarebbe semplicemente un ritorno ad un modesto keynesismo. Ma già in sé il keinesismo non funziona se è solo aumento salariale e non anche spesa in deficit: dunque se non si rimette radicalmente in discussione, invece di trasgredirli occasionalmente, quanto meno l’assurdità dei parametri fissati dal Patto di Stabilità.
E ciò ancora non basterebbe, forse neppure per rilanciare lo sviluppo, ma certamente se vogliamo rispondere al bisogno di una qualità diversa dello sviluppo che, non a caso, emerge dominante nelle cose e nei movimenti: qualità del lavoro, qualità ambientale.
Allora emerge il tema essenziale, dirompente, attualissimo ma controcorrente, di un nuovo tipo di intervento pubblico nella produzione oltre che nel consumo. Un intervento pubblico, sia chiaro, non assistenziale, cioè per porre riparo ai disastri sociali socializzando le perdite. Al contrario un intervento per anticipare e sostituire il mercato in quegli investimenti strategici, a reddito differito e a larga utilità sociale (energie alternative, trasformazione urbana e della viabilità, ricerca e industria farmaceutica, controllo della finanza speculativa, infine ma non per ultimo, una nuova idea della scuola) che aprirebbe anche grandi e nuove frontiere nella divisione internazionale del lavoro, Ma dopo l’esperienza della pianificazione sovietica, e il degrado delle partecipazioni statali in Italia, qui si tratta di inventare nuovi strumenti organizzativi, nuove forme di controllo dal basso, di programmazione decentrata, di conquistare un consenso duraturo di massa a una selezione delle priorità sia dell’offerta che della domanda, di formare una nuova leva di quadri e di competenze.
Perciò, e non per cedere a una moda, parliamo di sinistra europea e di Europa, sapendo che questa Europa ademocratica e monetarista non vorrebbe e non saprebbe imboccare questa strada, ma anche che senza una dimensione europea, cioè senza un’altra Europa politica, non si potrebbe comunque percorrerla. È una strada lunga, non un programma di governo a portata di mano, tutto e subito; ma anche la sola strada per evitare politicamente di oscillare tra rotture minoritarie o compromessi di basso profilo e di pura convenienza elettorale. Serve comunque a marcare l’identità di una sinistra alternativa, radicale nelle sue motivazioni e prospettive anticapitalistiche, ma capace di pronunciare oltre che dei no dei sì, di darsi traguardi intermedi, di avere un’ambizione egemonica. Di dimostrare come, perché, con quali forze, un ‘nuovo mondo’ si possa già ora avviare.
Ma tutto ciò ha bisogno di una premessa, necessaria anche se non sufficiente: che in questo sforzo di ricostruzione di una opposizione vincente sia presente, visibile e incisiva, una sinistra vera, unita quanto meno da un no alla guerra e a Bush senza se e senza ma e dalla critica del neoliberismo. E questo è il problema che direttamente riguarda tutti noi, e tutti voi che avrete costruito un’associazione per il rinnovamento della sinistra, plurale nelle appartenenze, ma non ambigua nei contenuti.
Dico problema perché, in Italia e in Europa, una sinistra alternativa esiste, coinvolge piccoli partiti e attraversa ampi movimenti, ma è frammentata, minoritaria, a volte incomunicante: una galassia. Non riesce neppure a raccogliere tutto il voto di protesta popolare, né a incidere sulla crisi della socialdemocrazia neoliberale che pure è squadernata. I movimenti sono la leva e il sale di questa ricostruzione della politica che lavori a dar loro uno sbocco per quanto parziale e transeunte, non la soluzione.
Tutti riconoscono oramai questa esigenza, in modo esplicito o allusivo. Eppure si stenta perfino a compiere i primi passi. Ammaestrato da ancor recenti insuccessi di proposte avanzate dalla Rivista, e abortite anche se formulate in modo prudente e con i tratti di un processo, mi guardo bene dal riproporle seppure motivate dalle novità che sta nelle cose.
Vedo bene che occorre muoversi su due piani distinti. Concordo con la relazione di Tortorella sulla necessità di insistere e di dare maggiore spessore e autonomia ad un lavoro di ripensamento teorico e culturale perché su quel terreno – come lui ama dire – dei ‘fondamenti’ permangono nodi irrisolti e paralizzanti. Aggiungo solo che, a mio parere, un lavoro di ricerca collettiva ben difficilmente si può concentrare sui fondamenti filosofici e sulle questioni di metodo: temi decisivi, ma che esigono grandi cervelli creativi, e tempi assai lunghi. Si dovrebbe piuttosto partire da una ricostruzione critica della memoria, dall’analisi della società attuale, da qualche ipotesi programmatica. Per questo resisto al termine ‘sinistra critica’. Confesso comunque che non riesco a capire come e perché, anche su questo terreno della ricerca, debbano tuttora esistere, e anzi ogni giorno fiorire, diverse sedi, e luoghi, e sigle tra cui si dividono risorse intellettuali e materiali già nel complesso tanto scarse.
Ben più arduo è vedere se qualche passo si può compiere anche sul piano politico per far vivere una sinistra politica alternativa capace, per dimensione e qualità, di incidere in un subbuglio generale che lasciato a se stesso diventa solo disfacimento dell’intera sinistra.
Azzardo quindi solo una piccola proposta. Non è almeno possibile che tra gruppi, partiti, associazioni, riviste, giornali, individui che pure condividono scelte fondamentali, si varchi ormai decisamente la soglia degli incontri saltuari, delle adesioni a manifestazioni che altri promuovono, si vada ormai oltre la soglia di una sorta di unità d’azione intermittente e legata all’immediato, e almeno si dia vita, centralmente e sul territorio, a una iniziativa politica unitaria e permanente, a un confronto strategico almeno sul medio periodo, a un coordinamento non vincolante nelle sedi parlamentari, come altri e con altre intenzioni hanno già fatto sia pure senza preventive scissioni, e perciò trovare credito e ascolto nei e tra i movimenti di massa?
È qualcosa che assomiglia a una ormai vecchia ma non disprezzabile, e allora immatura, idea: quella che si chiamava convenzione per l’alternativa.Non lo so: so solo che senza qualcosa di simile, invocando unità ma restando rinchiusi nella logica autoreferenziale interna ad ogni formazione politica o parapolitica, non solo l’azione, ma anche il pensiero si rattrappisce, priorità tattiche prevalgono su un’ambizione rifondativa, e come sappiamo la frammentazione oltre a persistere è destinata a moltiplicarsi tra tutti e anche all’interno di ciascuno. La rivista in cui lavoro non può fare molto più che porre l’interrogativo, anzi fatica anche nel suo specifico compito di organo di riflessione e confronto, perché anche per noi si sta esaurendo la fase in cui il compito principale era quello di contestare il pensiero unico e la politiche liberal-democratiche – compito positivamente assolto da noi e altri con la preziosa collaborazione della ‘critica roditrice dei fatti. Ora diventa necessario dire qualcosa di nuovo e di più, ed è ben difficile farlo. Anche noi siamo destinati a deperire senza poterci muovere in parallelo con processi politici che ne alimentino la domanda e suggeriscano i temi cui rivolgersi e qualche esperienza collettiva che suggerisca ipotesi da approfondire.