“Un passo avanti e due indietro”

Quali sono le forme di organizzazione più adeguate per condurre una lotta politica complessa, come quella per la costruzione di un mondo libero dallo sfruttamento e da ogni discriminazione? È un problema cruciale, che nella storia del movimento operaio si presenta sin dall’inizio. “Dapprima”, ricorda il Manifesto, “lottano i singoli operai”, poi quelli “di una fabbrica” e di ”una data categoria”1. Le stesse lotte della borghesia contro l’Ancien régime avvicinano pian piano la “massa dispersa” dei lavoratori e quando “lo sviluppo dell’industria” li “addensa”, ecco che cresce la loro “unione” e anche la loro “forza” e “coscienza”, finché essi riconoscono il conflitto di classe e “incominciano a formare coalizioni contro i borghesi”, nella forma ancora rozza del sindacato e delle mutue operaie. “Di quando in quando”, continua, “gli operai vincono, ma solo in modo effimero”. In realtà, “il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato” ma la loro “unione sempre più estesa”. Nel corso di questa “lotta di classe”, che è “lotta politica” e dunque anche “lotta nazionale”, essi giungono infatti a prendere coscienza di sé, all’”organizzazione… in classe” e, finalmente, “in partito politico”.
Ma è un problema mai risolto una volta per tutte: esso si presenta sempre di nuovo ad ogni crisi e svolta storica. Così accadrà con la dissoluzione della Prima Internazionale e la nascita della Seconda; così con la Grande guerra e la rivoluzione d’Ottobre; così dopo la Seconda guerra mondiale e, infine, con la sconfitta del campo socialista e la crisi attuale del movimento comunista internazionale. La “concorrenza” nello stesso movimento operaio ne spezza l’unità, che però – pronosticavano con sguardo dialettico Marx ed Engels – “risorge sempre di nuovo”. Ma la stessa dialettica che si muove “nella storia delle nazioni” orientando la più generale lotta di classe, osserverà Lenin, si riversa anche “nello sviluppo dei partiti”2. Ecco che, ogni volta, l’unità del movimento si riconquista soltanto attraverso un confronto interno. Profondo conoscitore di Hegel, Lenin sapeva bene che “un partito si comprova come vincitore” solo se sa accogliere in sé posizioni anche molto diverse, dimostrando – come dice la Fenomenologia – “di possedere in sé stesso il principio che prima combatteva e di aver quindi tolta (aufgehoben) l’unilateralità nella quale prima sorgeva”3. In quanto serve a far chiarezza, dunque, “la lotta delle sfumature nel partito”costituisce senz’altro “un passo avanti”4. Finché è condotta “di comune accordo” e non conduce “alla scissione”, anche la divisione del partito in due ali attorno alle questioni dell’organizzazione si presenta, perciò, “inevitabile e necessaria”.
“Le forme di organizzazione non sono che… forme”, sostiene una di queste ali, facendosi vanto di difendere la libertà e la democrazia interna come principi assoluti. Sono forme “destinate a rivestire un contenuto mutevole, in continua evoluzione, cioè il lavoro pratico del partito in sviluppo”5. Ora, il “contenuto è più importante della forma” e la “vitalità dell’organizzazione” non dipende da questa ma solo dal “contenuto che essa apporterà al movimento”. Insomma, l’organizzazione “non può svilupparsi che parallelamente al lavoro rivoluzionario che ne costituisce il contenuto” e pertanto non bisogna pianificarla in anticipo, facendo del centralismo un “talismano onnipotente”. In tal caso, sostiene questa frazione, si finisce per rendere il partito “un’enorme fabbrica” con a capo “il Comitato centrale”. Una “fabbrica mostruosa”, che impone “la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza”, trasformando gli uomini in mere “viti e rotelle” di un meccanismo infernale.
Ma non basta: a guardar bene, non sarebbe nemmeno necessario uno “statuto formale” del partito: esso appare “troppo stretto, incomodo, gravoso, gretto, burocratico, asservente e soffocante”, rispetto al “libero processo” del movimento rivoluzionario. Molto meglio gestire i rapporti interni sulla base di relazioni personali, della “fiducia istintiva” che, partendo da sé, i compagni ripongono l’uno nell’altro. “Nessuna gerarchia di collegi e di istanze inferiori e superiori”, dunque, “nessuna sottomissione della parte al tutto”, nessuna “definizione… dei metodi di partito”, sempre “burocratica e formale”. Perché, ad esempio, distinguere “coloro che appartengono al partito” da coloro che “l’aiutano in un modo o nell’altro”, impedendo ai simpatizzanti di intervenire nelle questioni interne e respingendoli? La “tendenza al burocratismo e al centralismo” rappresenta per quest’ala nient’altro che la “sfiducia della tradizione verso ciò che esce dal comune, della istituzione impersonale verso ciò che è individuale”. Contro questo “soffocamento della individualità”, contro il “controllo” e la “disciplina” di chi vuole imporre una “organizzazione unica… una tattica unica, una teoria unica”, bisogna invece aprirsi, ribadire la ricchezza della “vita” e l’intangibilità del “principio democratico”, riaffermando la totale “autonomia” delle “istituzioni locali”, e persino degli “individui” rispetto ad ogni “ortodossia”.
Fermiamoci a riflettere. Nel motivare la sua uscita dal PCI, Lucio Colletti dichiarava negli anni ’60 di aspirare ad una “democratizzazione effettiva” del partito, ispirata alla “democrazia socialista rivoluzionaria, dei consigli operai”, laddove, invece, “nei meccanismi che presiedono alle sue scelte politiche, nella sua selezione dei dirigenti, in tutto il modo in cui si forma la volontà politica dell’organizzazione”, anche dopo il rapporto Kruscev il PCI era rimasto “un partito fondamentalmente stalinista”, burocratico e centralista6. Un’altra grande intellettuale come l’ungherese Ágnes Heller, formatasi alla scuola di Lukács ma anche lei protagonista di una parabola che la porterà presto a destra, criticherà negli anni ’70 le forme “centralizzate” di organizzazione come un modello “autoritario” e “dispotico”, che costituisce “la completa negazione della personalità” e impedisce ogni “pluralismo delle forme di vita”7. D’altro canto, un autore sempre coerentemente impegnato nella lotta ideologica contro il comunismo, come Jacob Talmon, denunciava da tempo i “partiti e i regimi totalitari di sinistra” come “potenti meccanismi privi di anima”, in cui la “concentrazione del potere” determina “la subordinazione dell’individuo”8. A questi portatori di una “filosofia onnicomprensiva e coerente” – eredi di quel “centralismo” giacobino di cui già Tocqueville denunciava la continuità rispetto all’assolutismo monarchico – egli contrapponeva la “spontaneità” e l’”assenza di coercizione” proprie del liberalismo. In tutt’altro contesto storico e ideologico, invece, nella Germania degli anni ’30 il reazionario Oswald Spengler, teorico della rivoluzione conservatrice, notava con terrore misto ad invidia la potenza organizzativa del “partito di Bebel”, rabbrividendo al “passo risonante dei battaglioni di lavoratori”, alla loro “determinazione” e “disciplina”9; mentre anche Ernst Jünger, ufficiale della Wehrmacht durante l’occupazione nazista di Parigi, si era fermato più volte in passato, rabbrividendo, ad osservare le “colonne marcianti”10 della socialdemocrazia tedesca.
Insomma, chi legga oggi le argomentazioni degli “ultrasinistri” di ieri, non può non vedere come siano pienamente convergenti con le denunce del mostruoso “totalitarismo comunista”, o del “partito-Chiesa”, avanzate nel Novecento dagli avversari del movimento operaio organizzato, impauriti dalla sua forza e compattezza. È facile capire, dunque, come la lotta per la costruzione di un partito comunista che ancora non esisteva dovesse passare, in quella fase, per la loro preventiva confutazione. Ad un anno dal Che fare?, Lenin e i dirigenti rivoluzionari russi – dispersi dalla clandestinità in Europa occidentale – preparavano il II congresso del Partito operaio socialdemocratico. Si trattava di un compito immane: fondato nel 1898 su iniziativa di Plekhanov, il POSDR era ancora non molto più che una vaga idea di unità, una federazione disorganizzata di gruppi e circoli rivoluzionari, privi di accordo sui programmi e sulla tattica, instabili sul piano ideologico (forte era l’influenza populista) e soprattutto schiacciati dall’autocrazia zarista. Il grande sforzo dell’Iskra nell’elaborazione teorica, nella tessitura di rapporti e nell’orientamento politico del movimento operaio, stava però per dare i propri frutti. Nell’estate del 1903, erano ormai mature le condizioni per una reale unificazione delle forze e la costruzione di un vero partito. Era stata la durissima lotta contro “il terzo periodo”11 – la diffusione delle tendenze alla “revisione” del marxismo in chiave riformista e social-imperialista, inaugurate da Bernstein e dilagate in forme diverse in tutta la socialdemocrazia europea – a consentire a Lenin di elaborare la propria originale concezione del partito rivoluzionario. Contro l’”economismo” e lo “spontaneismo”, nasce quell’idea del partito di “rivoluzionari di professione” che, declinata secondo le particolarità nazionali e le circostanze storiche, costituirà il paradigma dei partiti comunisti nel corso di tutto il Novecento.
Nonostante le posizioni di Lenin sembrassero ormai condivise dal nucleo forte dei comitati russi, lo svolgimento del congresso dimostrerà il persistere di profonde divergenze. Il congresso vedrà prevalere la tendenza leninista ma segnerà la defezione dal gruppo dell’Iskra di Martov e Aksel’rod, appoggiati da Trotckij, e la spaccatura del partito in una maggioranza (bol’_instvo) e in una minoranza (men’_instvo). Qualche mese dopo, l’improvviso voltafaccia di Plekhanov porterà al completo ribaltamento del risultato del congresso, con la cooptazione del gruppo di Martov nella redazione dell’Iskra, divenuto organo di stampa ufficiale, e nel Comitato centrale del partito. Messo in minoranza, Lenin abbandonerà il giornale e si dedicherà alla battaglia interna, puntando a ricostituire l’unità del POSDR ma, al tempo stesso, a consolidare la corrente bolscevica.
È in questo contesto di acceso scontro interno e “riflusso” che, nel 1904, Lenin si sofferma ad analizzare le ragioni della “crisi nel nostro partito”12 in uno dei suoi testi più importanti, Un passo avanti, due passi indietro, dal quale sono tratte le frasi degli esponenti menscevichi citate sopra. Il Che fare? aveva delineato i principi generali del programma e della tattica del partito comunista. Si trattava di una “rivoluzione copernicana”, con la quale il partito smetteva di stare “alla coda” del movimento operaio, di assecondare quel ribellismo spontaneo che si appagava di scioperi e rivendicazioni economiche, e si faceva “avanguardia”13. Esso si dava una base filosofica rigorosa e non eclettica nel materialismo storico (“senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”) e stimolava la classe lavoratrice a divenire vera “forza politica”. Una forza capace di denunciare l’oppressione in tutte le sue manifestazioni e dunque di condurre una lotta politica generale: solo attraverso un’“agitazione politica che investa tutti gli aspetti della società” e coinvolga persino le altre classi è possibile avviare un processo di trasformazione integrale. A tal fine, concludeva, è necessaria un’“organizzazione centralizzata nazionale che unifichi in un assalto generale tutte le possibili manifestazioni di opposizione politica, di protesta e di indignazione”.
Proprio sulle concrete forme organizzative del partito di tipo nuovo si svolgerà lo scontro al congresso, su cui si concentra il testo del 1904. Per superare la dispersione e costruire “un grande partito” era necessaria una “perfetta coesione delle forze”e l’“eliminazione del caos che le fraziona e le disperde”14 . Contro l’idea leniniana di un “piano di organizzazione conseguente”, di un partito che sia “il massimo del possibile organizzato”, insorgono però tutti i settori ancora legati all’autonomia del vecchio regime dei circoli, che vivono con sofferenza questo sforzo di centralizzazione. In realtà – spiega Lenin, sulla scorta dell’esperienza della socialdemocrazia tedesca –, un’organizzazione rigorosamente centralizzata è urgente in questa fase, per una reale “unificazione del partito”. Se si vogliono superare “i limiti di un circolo familiare”, è indispensabile un’“unità di organizzazione” che è impossibile “senza uno statuto fissato, senza la subordinazione della minoranza alla maggioranza, senza la sottomissione della parte al tutto” (“centralismo democratico”). Lungi dal soffocare la vitalità del movimento rivoluzionario, l’organizzazione la esalta: proprio “lo stato rudimentale e l’instabilità” della forma organizzativa impediscono “progressi seri nello sviluppo del contenuto” e conducono “allo sperpero delle forze, alla sproporzione tra le parole e l’azione”. È da auspicare, dunque, non “meno organizzazione”, ma “più organizzazione”, perché “la forma della nostra attività (cioè l’organizzazione) da molto tempo ritarda, e ritarda terribilmente, sul contenuto”, rendendo inefficace la lotta politica. Rinunciare ad un’organizzazione obbligatoria e formalizzata in statuti significa tornare a quell’“epoca di dispersione” in cui tutti “attendevano con ansia la fusione dei circoli isolati” in un partito.
È quanto capiscono immediatamente gli elementi più avanzati: proprio perché educato alla “scuola della fabbrica” – la “forma superiore della cooperazione capitalistica”, che ha “disciplinato il proletariato, gli ha insegnato a organizzarsi, lo ha messo a capo di tutti gli altri strati della popolazione lavoratrice e sfruttata” – l’operaio “non teme né l’organizzazione, né la disciplina”, anzi, “non giustificherà l’arretratezza in fatto di organizzazione”. Può parlare sprezzantemente di “partito-fabbrica”, semmai, solo l’intellettuale che ha ancora a cuore la propria individualità più che il successo della lotta, e temendo di doverla sacrificare all’interesse del partito fa sfoggio di “Edelanarchismus”, di “anarchismo da gran signore”. Inoltre, proprio un’organizzazione centralizzata, che proceda all’“edificazione del partito dall’alto in basso”, attraverso organismi rappresentativi dotati di autorità e regole valide per tutti, costituisce l’unica garanzia di reale democrazia interna. Le belle parole di coloro che vogliono andare “dalla base alla cima”, la retorica dei sostenitori dell’autonomia dei circoli e degli individui, è soltanto “democratismo”, demagogia “che giunge sino all’anarchismo”. L’alternativa al centralismo consiste infatti nell’affidare il “legame del partito” alla libera volontà e alle relazioni personali di “amicizia”, e cioè all’“arbitrio” delle personalità più influenti e carismatiche, che diverrebbero in tal modo incontrollabili. Solo se la vita interna si fonda sull’“osservanza di mezzi controllabili e formalmente prescritti” è possibile “esigere che gli obblighi che incombono al membro di partito siano adempiuti non soltanto dai semplici gregari, ma anche da ‘coloro che stanno in alto’”.
Buona parte di queste osservazioni di Lenin mantengono ancora salda la loro validità: esse definiscono i principi minimi d’organizzazione di ogni gruppo politico e hanno finito per esser fatte proprie anche da partiti ideologicamente molto lontani dal leninismo. D’altro canto, è un fatto che a partire dai processi di ristrutturazione produttiva degli anni ’70 e ancor di più dalla sconfitta di classe che va dagli anni ’80 al 1991, la fabbrica integrata, che un ruolo tanto importante riveste nell’argomentazione di Lenin, è entrata in crisi. Ogni riflessione sul rapporto che sussiste tra le nuove forme di divisione del lavoro e quelle di organizzazione del soggetto antagonista non può non tenere conto di ciò. Come non può ignorare il diverso e superiore grado di accumulazione di sapere – oltre che di potenziale autonomia e partecipazione decisionale – raggiunto dalla classe lavoratrice nell’epoca delle reti telematiche. E’ sbagliato dedurre meccanicamente le problematiche politiche dall’innovazione tecnologica e da certe trasformazioni del processo produttivo, come accade ad una certa sociologia; e però già il Manifesto faceva notare come l’unione dei lavoratori fosse estremamente “agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione” che, dopo il passaggio dalle “strade vicinali” alle “ferrovie”, “collegano tra di loro operai di località diverse”15.
Altre osservazioni, invece, risentono evidentemente del clima di scontro interno e, soprattutto, dei più generali condizionamenti storici. Lenin è durissimo con i suoi avversari: gli argomenti dei menscevichi che si atteggiano a libertari, dice, sono gli argomenti con cui “l’ala opportunista di ogni partito difende e giustifica sempre ogni arretratezza sia nei programmi, sia nella tattica, sia nell’organizzazione”16. Nello scontro sull’organizzazione si manifesta, per lui, “la divisione della socialdemocrazia” in “rivoluzionaria (o ortodossa)” ed “opportunista (revisionista)” e chi difende l’“autonomia” e il “democratismo” promuoverebbe senz’altro “l’indebolimento della disciplina di partito”, facendo trionfare la “disorganizzione” e rendendo alla fine superfluo il partito stesso. Sono tutte argomentazioni che oggi, forti della nostra esperienza, dobbiamo ricollocare nel giusto contesto e valutare alla luce di una diversa lettura della storia del movimento operaio. Una storia che va ricostruita come un processo di “apprendimento”17 unitario, nel quale poco spazio va riservato per i “tradimenti” da parte del “nemico interno”. Rimane certamente vero, come ha spiegato Gramsci, che le classi dominanti, avendo già la “dittatura” nello Stato e l’“egemonia” nella società civile, possono anche fare a meno di un partito organizzato, mentre così non è per le classi subalterne, le quali soltanto attraverso esso possono approfondire la propria autoeducazione e condurre una lotta efficace. Le forme di questa organizzazione, che rimane indispensabile per chiudere l’epoca della resistenza, sono però oggi tutte da ripensare, alla luce di un’esperienza capace di rinnovarsi anche profondamente e di mantenere al tempo stesso intatta la propria identità e la propria autonomia.

Note

1 Marx-Engels, 1990.
2 Lenin, 1949.
3 Hegel, 1973.
4 Lenin, 1949.
5 Ivi.
6 Colletti, 1975.
7 Heller-Fehér, 1978.
8 Talmon, 2000.
9 Spengler, 1994.
10 Jünger, 1991.
11 Lenin, 1979.
12 Lenin, 1949.
13 Lenin, 1979.
14 Lenin, 1949.
15 Marx-Engels, 1990.
16 Lenin, 1949.
17 Losurdo, 2003

Riferimenti bibliografici

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Losurdo, Domenico 2003
“Fallimento”, “tradimento”, “processo di apprendimento”. Tre approcci nella lettura della storia del movimento comunista, in corso di pubblicazione in lingua tedesca sulla rivista “Z., Zeitschrift Marxistische Erneuerung”.

Marx, Karl-Engels, Friedrich 1990
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Spengler, Oswald 1994
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Talmon, Jacob L. 2000
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