È appena uscito in Francia un ampio volume che abbiamo potuto leggere solo molto parzialmente prima della stesura di questo articolo. Il titolo è di per sé significativo Le siècle des communiones (Editions de l’Atelier). Più esplicitamente l’introduzione dovuta a diversi collaboratori (Bernard Pudal, Michel Dreyfus, Bruno Groppo, Claudio Ingelflom, Rolland Lew, Claude Pennetier, Serge Wolikov) respinge la volgare interpretazione demonizzatrice del famigerato Libro nero del comunismo e afferma: “In realtà, lungo tutta la sua storia e in tutti i suoi aspetti, il comunismo si declina al plurale. È diversità unificata da un progresso (…). Rappresenta una delle esperienze storiche fondamentali del XX secolo”.
Effettivamente una esauriente analisi storica non può mettere sullo stesso piano, per esempio, Cuba e Corea del Nord, oppure Jugoslavia e Bulgaria, per non parlare delle ben note diversità tra Urss e Cina. Per toccare un altro aspetto, quelli che continuano oggi a dichiararsi comunisti, appartengono o no a partiti che si denomino tali, hanno idee del tutto diverse anche su questioni essenziali. Nella stessa Rifondazione comunista esiste un’ampia gamma di concezioni non solo sui giudizi storico o sulla valutazione attuale di un paese come la Cina, ma anche, più concretamente su come deve essere concepito e come debba funzionare un partito comunista. E scusate se è poco! In questo articolo ci limiteremo a ritornare su alcuni elementi di bilancio e su alcune indicazioni generali che ci sembra possibile trarre dalle esperienze passate, oltre che dalle esigenze della fase in cui ci troviamo ad operare.
In un recente convegno internazionale a Parigi – di cui Liberazione ha fornito un resoconto – una rappresentante cubana, Isabel Monal, ha sottolineato con appassionato rammarico come negativo il fatto che non sarebbe stata fatta nessuna analisi della dinamica delle società di transizione post capitaliste. Non sappiano se la compagna ignorasse tutte le riflessioni che sono state fatte in questo senso sin dalla seconda metà degli anni ’20 o facesse finta di ignorarle (dimenticando, tra l’altro. I lucidi apporti di Ernesto Che Guevara). Resta che, più in generale, troppo stesso, anche quando si rendono rispettosi omaggi, non si tiene conto di quanto è stato detto e scritto e si evita ogni reale confronto critico. Troppe volte ci si accontenta di criteri o concetti assolutamente generici con a conseguenza di eludere questioni centrali. Per affrontare qui solo due, non si può porre in termini del tutto generici – peraltro, spesso, non dissimili da quelli usati da storici o politici per cui le istituzioni democratico-borghesi costituiscono il modello – la questione della strutturazione politica delle società post-capitaliste. Non si può accettare l’idea, ammessa implicitamente, se non esplicitamente dichiarata, secondo cui sarebbe stato, certo, preferibile, che esistessero meccanismi organicamente democratici, ma che l’assenza di questi meccanismi non alterava, comunque, la natura di queste società, in quanto erano mutati i rapporti di produzione e di proprietà e la direzione dei processi spettava a partiti comunisti. L’esperienza storica, – al di là delle diverse varianti, insegna, a nostro avviso, inequivocabilmente, che, in un contesto in cui si estinguono o si svuotano di ogni contenuto gli organismi democratici emersi nei processi rivoluzionari, lo stesso partito egemone finisce inevitabilmente con il subire una analoga mutilazione, quando non sia addirittura all’origine dell’involuzione autoritaria. Dovrebbe essere noto a tutti, anche se, per diverse ragioni, c’è stato possibile perché nella fase cruciale sono sorti, si sono generalizzati e hanno via via esteso la loro sfera di azione organismi di effettiva, diretta, democrazia in cui erano determinanti gli orientamenti che via via emergevano nelle grandi masse.
Simmetricamente, via via che questi organismi – soviet o consigli – subivano un’usura, uno svuotamento e cessavano di essere i depositari reali della sovranità, non solo il processo rivoluzionario regrediva, ma lo stesso Partito bolscevico – non aveva più la dialettica interna che aveva conosciuto dalla sua stessa fondazione e diveniva lo strumento principale di una devastante deformazione burocratica. Il processo rivoluzionario cinese ha avuto, per molti aspetti, caratteristiche diverse. Ma anche in Cina ha finito con il prevalere una dinamica perversa. Gli organismi sorti nelle zone liberate hanno avuto sin dall’inizio decisionali circoscritti e successivamente, alla vigilia del ’49 e nelle fasi immediatamente successive, non sono sorte istituzioni rivoluzionarie paragonabili ai consigli russi della fase più feconda.
Difficile ignorare le conseguenze di tutto questo sullo stesso partito, rapidamente identificatosi con lo Stato e le sue strutture.
Con non minore forza va sottolineato come l’esperienza storica insegni che l’esistenza e l’effettivo funzionamento di strutture democratiche siano consustanziali a una società che, rappresenti una rottura qualitativa con il sistema capitalista. Una gestione democratica dell’economia che coinvolga in forme molteplici l’insieme della collettività, e condizione irrinunciabile per partire effettivamente dai bisogni e dalle esigenze della collettività stessa e per valorizzarne il potenziale creativo in tutta la sua dinamica. L’assenza di una simile gestione è stata una causa essenziale delle distorsioni e irrazionalità crescenti della pianificazione sovietica, che, soprattutto dalla fine degli anni ’70, hanno portato al progressivo ristagno e alla relativa paralisi. La Repubblica popolare cinese ha conosciuto processi analoghi nel suo primo trentennio di esistenza. La successiva svolta – su cui nn ritorniamo in questa sede -, se ha comportato mutamenti per molti aspetti radicali, non ha affatto rinnovato dal punto di vista di una gestione democratica, al contrario sembra aver creato problemi ancor più gravi. Il combinarsi di una istituzionalizzazione politica autoritaria – simboleggiata dalla identificazione tra partito e Stato – con una gestione verticalistico-tecnocratica dell’economia non poteva non incidere profondamente sul piano sociale. Questo è un altro terreno su cui la maggior parte dei critici dello stalinismo. Anche tra quelli che si pongono dal punto di vista del movimento operato, il più delle volte non si è posta o si è posta solo incidentalmente. Invece, una caratteristica essenziale di tutte le società di transizione esistite sino ad ora è stato il determinarsi, sia pure in misura e in forme diverse a seconda dei paesi e delle epoche, di una nuova cristalizzazione sociale. È un vero proprio strato sociale privilegiato che è via via emerso consolidandosi progressivamente con caratteristiche ben definite. In ultima analisi, è nell’interesse della conservazione di questo strato che operavano le istituzioni politiche e culturali, per non parlare delle forze di polizia e, in momenti cruciali, dello stesso apparato militare.
Per parte nostra, non abbiamo condiviso la teoria secondo cui nelle società di transizione che si sono sviluppate era stato restaurato il capitalismo, sotto una peculiare forma di capitalismo di Stato. Dal rigetto di questa tesi non deriva, tuttavia, un giudizio meno netto sul nuovo strato dominante che, contrariamente alla diffusa idea secondo cui sarebbero state imposte condizioni egualitarie, si assicurava, sia pure con meccanismi diversi da quelli del capitalismo, crescenti privilegi e condizioni di esistenza senza comune misura con quelle della stragrande maggioranza dei cittadini.
Una volta chiariti ancora una volta questi dati analitici di fondo, non va perso di vista che i paesi in cui sono state fatte queste esperienze, tutti o quasi partiti da situazioni di estrema arretratezza si è registrato in determinate fasi, al di là di tutte le distorsioni, un effettivo sviluppo economico e che lavoratori e cittadini in generale hanno potuto godere di acquisizioni sociali prima inesistenti come l’istruzione, le cure sanitarie, le pensioni, per non parlare della tendenziale piena occupazione. Agli occhi di molti, a quanto sembra, la portata di queste acquisizioni è apparsa nella sua concretezza soprattutto dopo le devastazioni dei processi di restaurazione capitalista degli anni ’90.
Non ritorniamo sul ruolo internazionale assunto a suo tempo dall’Urss e successivamente dalla Cina. Ma anche qui è necessaria una messa a punto tutt’altro che irrilevante. Il fatto stesso che una parte del mondo non esistessero più rapporti di produzione capitalistici e che il mercato mondiale capitalista avesse subito una profonda lacerazione costituiva un elemento sostanziale dei rapporti di forza su scala mondiale, di cui hanno potuto approfittare movimenti rivoluzionari socialisti e anti-imperialisti. Questo non significa affatto che i successivi gruppi dirigenti dell’Urss abbiano contribuito con le loro scelte al maturare di processi rivoluzionari e a conclusioni, che Stalin non era affatto favorevole alla dinamica anticapitalistica che i partigiani jugoslavi avevano dato alla loro lotta, che sempre da Stalin era stato suggerito ai cinesi, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, di cercare un accordo con la Cina del Kuomintang e che, se fosse dipeso da Mosca, a Cuba non ci sarebbe mai stata una rivoluzione socialista. E non c’è bisogno di rievocare devastanti e duraturi effetti degli interventi militari del ’56 in Ungheria e del ’68 in Cecoslovacchia. C’è e ci sarà, dunque, ampia materia di riflessione per gli storici futuri, per valutazioni contemporaneamente più sistematiche e più articolate. Come militanti, convinti che avere un minimo di nozioni storiche è una esigenza elementare di comprensione del contesto in cui ci si muove, ma senza la pretesa di essere degli storici, la rievocazione delle esperienze passate ha soprattutto il senso di farci intendere meglio come prospettare i lineamenti generali dalla società da contrapporre alla società attuale.
Schematicamente, dobbiamo, innanzitutto, affermare l’esigenza del carattere organicamente, cioè non solo formalmente e ritualmente, democratico di tutti gli strumenti, partiti, sindacati, movimenti sociali che sono insostituibili per la lotta anticapitalista. Il che implica una presa di scienza dei persistenti limiti e mutilazioni che persistono anche nelle esperienze complessivamente più positive. In secondo luogo dobbiamo rivendicare la natura democratica delle strutture politiche di una nuova società, il che comporta una molteplicità di istituzioni e di funzioni, tali da consentire a tutti di esercitare direttamente e costantemente la propria sovranità: come persone integrate nel processo produttivo, come consumatori e consumatrici e come cittadini e cittadine. Le esperienze fatte sinora, lungi dal costituire delle sollecitazioni positive, valgono, quasi esclusivamente, come esempi negativi, sono strade da non ripercorrere. Infine, deve essere affermata l’eguaglianza come valore cardinale. Su questo terreno possiamo e dobbiamo riallacciarci a tradizioni tra le più positive della storia del movimento operaio, come quelle indicate da Marx nel suo magistrale saggio sulla Comune di Parigi e non a caso riprese da Lenin, proprio alla vigilia dell’Ottobre. Non si tratta di raffigurare un ideale astratto, un remoto dover essere, ma di prendere coscienza di una condicio sine qua non perché la trasformazione rivoluzionaria non abortisca o non produca nuovi mostri.