Un congresso non per noi, ma per i lavoratori

Partecipo volentieri al dibattito promosso dalla nostra Area programmatica che mi pare abbia affrontato la questione del congresso CGIL con grande attenzione per le singole posizioni espresse. Provo a dire perché mi riconosco nel primo documento; sarebbe facile cominciare col l’evidenziare una certa perplessità per il sostegno al secondo documento da parte di gruppi dirigenti che non hanno digerito per niente la scelta di Epifani di non condividere la così detta riforma del modello contrattuale, preoccupati fino alla fine di ricucire essendo radicalmente schierati nella destra dell’organizzazione. Mi rendo conto del perché naturalmente , tatticamente, questo particolare sia stato trascurato dai promotori della discussione a sinistra per la 2. Ma non voglio però concentrarmi su questa questione anche se non nascondo cha la disomogeneità di quella componente è stato il primo campanello di allarme che ha suonato nella mia testa.

Invece la ragione principale, ma non essenziale, del mio schieramento con il documento Epifani, insieme al pezzo che ancora si riconosce nell’Area Sindacale Lavoro e Società- Cambiare Rotta, non risiede tanto nella logicità o appetibilità del documento, che dal punto di vista politico e programmatico condivido, ma nel fatto che tale impostazione ha trovato negli anni una pratica costante e coerente che è di per sé ragione di sostegno e condivisione. Non mi convincono le rapide inversioni di tendenze o le tardive autocritiche, senza peraltro capirne la direzione politica. Sono i percorsi che ci hanno portato oggi a discutere del nostro XVI Congresso a determinare la reale concretezza dei temi che offriamo agli iscritti per la discussione nei posti di lavoro. E non mi pare poco aver fatto quello che abbiamo deciso, insieme, nell’ultimo congresso della CGIL così come nelle difficili scelte recenti.
Credo non debba mai essere dimenticato che ciascun dirigente della CGIL, come tale, rappresenta una porzione del vasto quanto frantumato mondo del lavoro, risponde alle persone che rappresenta, che spesso sono date per scontate nelle nostre lunghe discussioni interne, nei pre-schieramenti e negli schieramenti. Sono loro a indicare il percorso. In questi anni di militanza sindacale le lavoratrici e i lavoratori dei settori che ho seguito, addetti alle pulizie, alle mense, al commercio, al terziario, alla vigilanza privata, che sono una parte importante del quadro produttivo del nostro paese, chiedono innanzi tutto un sindacato che metta al centro la dignità del loro lavoro, che sia capace di lottare ma anche di fare accordi, che faccia la battaglia per il salario ma anche per un fisco più equo, che si schieri contro la precarietà come per l’estensione degli ammortizzatori sociali e per la difesa del lavoro. Soprattutto capace di indicare come generare nuova occupazione e pronto a dare visibilità a settori troppo spesso dimenticati anche dalla sinistra (o di quello che resta). Le risposte a queste domande io le ritrovo non tanto nelle dichiarazioni programmatiche di alcuni, ma proprio nelle prassi operate e confermate in questo congresso dal gruppo dirigente che si riconosce nel primo documento.
Per contro sento parlare di eccessiva burocratizzazione, di quote verdi per rinnovare e ringiovanire i gruppi dirigenti, di democrazia, come se fossero temi che possono appartenere solo a una parte dell’organizzazione. Il rinnovamento dei gruppi dirigenti è già cominciato! E’ frutto del congresso precedente, confermato persino troppo chiaramente dall’ultima conferenza di organizzazione, ed esso ha riguardato non solo i funzionari o dirigenti, ma i nostri rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro. Oggi il quadro di riferimento medio che può rappresentare il futuro di una grande organizzazione sindacale come la nostra non viene dalle lotte degli anni passati, non ha una famiglia operaia e non ha più di 30-40 anni. E’ portatore di una cultura, di una esperienza politica e sindacale nuova e in alcuni casi proprio tutta da costruire. A mio giudizio questo processo non si può ridurre alla scorciatoia delle quote verdi (e le donne conoscono bene la politica delle quote, tante volte dichiarata e mai realizzata) ma occorre riconoscere la profonda trasformazione e mettere in campo un impegno straordinario nella formazione, nella messa a disposizione di spazi, nella capacità del gruppo dirigente di mettersi in discussione e di accettare il cambiamento. Ritrovare quella dimensione collettiva che la società ha perso, per moltissime ragioni che qui ora non possiamo indagare.
Non c’è male più grande che si possa fare alla nostra gente che raccontare una realtà che non esiste.

Si dice nel secondo documento di ricercare una CGIL alternativa, che segni una profonda discontinuità con il passato, come se la pratica di questi anni fosse stata soggiogata agli interessi dei poteri forti, di un governo, come quello in carica, che è tutto tranne che dalla parte dei lavoratori, subalterna alle logiche di partiti o di coalizioni. A me non pare, proprio a partire da quanto fatto in questo anni, che le cose siano andate così. Con il documento che per brevità chiamo Epifani, si schierano compagni che hanno una pluralità di riferimenti partitici in tasca, spesso lontani dai palazzi stessi della politica. A me pare una garanzia forte, di un praticato e non di un dichiarato intento di autonomia dai partiti e dalla politica. Non cerco la bieca polemica, ma è innegabile che la stessa cosa non sempre è stata così chiara per tutte e tutti, , anche in occasione di recenti appuntamenti a cui, chiamati dalla pratica politica dei partiti, altri autorevoli dirigenti della CGIL hanno risposto.

Aggiungo un’altra riflessione, che parte da me, dal mio essere e da quello in cui credo: non è forse ricostruire la classe l’obiettivo strategico di chi ancora oggi si definisce comunista? Come praticare un obiettivo così alto se non riconoscendo che la categoria di classe non è data ma in continua evoluzione? Non possiamo essere strabici né guardare solo a una parte del mondo del lavoro e credo invece che alcuni passaggi di fondo del secondo documento incappino in questo errore.

Inoltre: la proposta alternativa di questi compagni chiede una CGIL capace di riconquistare un quadro di regole certo e comune a tutte le categorie di lavoratori. Bene, sono d’accordo. Ma perché, oggi la nostra organizzazione è forse diversamente orientata od in altre faccende affaccendata? O peggio, come qualcuno rimprovera, si è impegnati nella distruzione di questo quadro di regole, tentativo invece certamente operato da altri, proprio in un contesto gravissimo per il Paese, quello di una crisi economica e sociale di cui fatichiamo a vedere la fine? Non mi pare e non condivido.

Forse, piuttosto che rivendicare l’autonomia delle categorie, come fa il documento Moccia, il cui estremo porta poi a storture come quella rappresentata dal CCNL dei Chimici, occorre richiamare tutte le categorie, sia quelle che si sentono più forti che quelle che rappresentano classi lavoratrici più deboli, al senso di una battaglia comune che solo una grande Confederazione Generale del Lavoro può realizzare, non solo sul fronte della contrattazione di categoria ma della contrattazione sociale e territoriale. Temo che la logica delle tre grandi categorie forti, come proposto appunto nel documento numero 2, sia ad essa persino antitetica.

E poi davvero in questo momento si può parlare di categorie forti e categorie deboli? Davvero si è convinti che la questione della democrazia appartenga solo alle classi operaie? Davvero pensiamo che la logica della mobilitazione e della contrapposizione appartenga solo a un gruppo, seppur consistente, importante e fondamentale di lavoratori? Quale progetto offriamo a tutto il mondo del lavoro se siamo incrostati di credenze che oggi non sono più capaci di rappresentare la realtà del lavoro nel suo complesso? Non pensiamo forse (io lo penso) che tra i grandi errori analitici sia della sinistra comunista che del movimento sindacale più generale, ci sia proprio questa preoccupante semplificazione?

Mi pare che si tenda ad assimilare alla propria esperienza lavorativa e sindacale tutto il mondo del lavoro. Quando invece l’assimilazione, antropologicamente parlando, è senza dubbio il modo peggiore di approcciare la dialettica tra le differenze, come è noto.
Altresì mi chiedo e vi chiedo: di fronte alla attuale debolezza di chi è in cassa integrazione o peggio in mobilità, messo in concorrenza con il vicino perché ha un contratto di lavoro stabile versus chi ne ha uno precario o addirittura non ne ha affatto, i cui diritti sono negati con la scusa della crisi, a partire dagli accordi prima vigenti, chi è migrante e viene discriminato, nella tipologia contrattuale, nella distribuzione del nastro orario, nell’assegnazione delle ore di lavoro, a questa gente, la nostra gente, non sarebbe stato più utile un sindacato forte, capace di respingere unito l’attacco che viene portato al mondo del lavoro? Io credo di si.

Invece questi lavoratori sono chiamati al confronto su temi politici il cui scarto, tra noi e il documento due, è davvero, va detto onestamente, minimo se non inesistente sulle questioni fondamentali. La proposta completamente alternativa è collocata tutta nella riproposizione della dialettica tra strutture verticali, nella corporativizzazione delle categorie e dei bisogni dei lavoratori che esse rappresentano, nella necessità di ribaltare un gruppo dirigente reo di concertazione, da cui certamente non è stato immune, ma oggi sembra davvero lo si accusi di esserlo…a prescindere.
L’alternanza del gruppo dirigente è tema persino ovviamente necessario in un congresso, se non ne diventa però l’unico. Ma certamente non è prioritario e nemmeno sovraordinato all’emergenza che c’é nella società e nel paese.
Non vi è dubbio che stiamo attraversando una fase difficile e inedita nella nostra storia.
Si configura in questa Italia della destra un allineamento di intenti tra forze fino a poco tempo fa schierate su poli contrapposti. L’obiettivo è quello di dividere, a partire dalla rottura tra generazioni piuttosto che all’interno delle stesse classi sociali e del mondo del lavoro produttivo e non. In molti casi, questo obbiettivo è stato quasi del tutto raggiunto.
Occorre che questo non accada anche all’interno della CGIL.
Ho provato a parlare spesso di immigrati, di solidarietà tra lavoratori in cassa e non, di solidarietà tra licenziati e non, tra dipendenti e stagisti o precari vari. E’ difficile, è rischioso. Eppure lo facciamo lo stesso, dobbiamo farlo anche se i risultati non sono quelli che ci piacerebbe vedere, e questo a partire proprio dalle realtà di fabbrica!
Questa della solidarietà di classe (la chiamo ancora così) e della invece concretizzata scomposizione della classe è una grande questione alla quale sono chiamati a rispondere sia la politica che il sindacato. E’ innegabile oggi la distanza tra il mondo del lavoro e quello della politica e, all’interno di quest’ultima, in particolare dai partiti della sinistra, senza che la parte che io continuo a considerare più avanzata di essa, i comunisti, sia stata capace di arginare questo processo. Forse, anche su questo punto abbiamo perso, a sinistra, prima di essere sconfitti ed è questa la ragione storica del nostro arretramento, non viceversa.
Come sempre decideranno i lavoratori a chi dare il loro sostegno e misureremo giorno per giorno nelle assemblee il loro consenso che, almeno per quanto io ho visto sino ad ora, insieme allo sconcerto nel vedere due compagni della CGIL che si confrontano spesso con toni aspri quando fuori è tutto da riguadagnare. Mi pare che essi ci insegnino che il nemico di classe, il loro nemico, è fuori da quelle stanze e dal nostro dibattito congressuale ed è così che io credo, indipendentemente dalla nostra collocazione, che dovremmo provare a confrontarci anche tra di noi.

Perché davvero vorrei ricorrere a una domanda, che mi suggerisce Seneca: cui prodest?
Già, a chi giova oggi una CGIL divisa?
Siamo tutti chiamati ad una risposta per il bene dei lavoratori.

*Elena Ferro – Segretaria Generale FILCAMS-CGIL – Torino