Ormai un decennio esatto ci separa dalla caduta del sistema economico, politico ed ideologico degli stati socialisti che hanno costituito l’ossatura del comunismo storico novecentesco. Questa caduta è avvenuta, con l’ammirevole unità di tempo e di luogo tipica della tragedia greca, in un triennio (1989-1991). Come è noto, permangono fortunatamente alcuni stati che si richiamano ufficialmente al progetto socialista (da Cuba alla Cina). Io sono felice di questa loro resistenza (come del resto di quella di altri stati antimperialisti, dall’Iran al Venezuela), ma questo non certo perché veda nel loro sistema sociale un’anticipazione del comunismo di Marx, quanto perché saluto nella loro resistenza un fattore geopolitico e geostrategico contro l’unipolarismo imperialistico ed imperiale americano e contro la logica schiacciasassi della globalizzazione finanziaria. Ritengo invece culturalmente negativo ed ideologicamente fuorviante “caricare” su questi paesi compiti storici globali di ricostruzione della prospettiva comunista che essi non possono certamente rappresentare.
A distanza di un decennio, ritengo semplicemente vergognoso il livello di discussione sulle cause strutturali di lungo periodo, e non solo congiunturali di breve periodo, che hanno portato all’ingloriosa e tragicomica dissoluzione del comunismo storico novecentesco come sistema globale alternativo. Certo, escono di tanto in tanto memoriali interessanti, libri informati, articoli stimolanti. Ma essi non fanno “massa critica” nella coscienza comune, in particolare da ciò che resta dei militanti politici di sinistra, che continuano a borbottare distratte affabulazioni sul tradimento dei politici, sulla insostenibilità delle spese militari, sulla debolezza ideologica delle giovani generazioni, eccetera. Si tratta di ridicola tautologia. Si pensa di spiegare la genesi storica di un fenomeno dando come spiegazione una semplice parafrasi linguistica delle domande. Gli storici antichi, quando parlavano di “corruzione dei costumi” per spiegare la dissoluzione del mondo greco-romano, erano mille volte più “strutturali” e più inconsapevolmente marxisti. Tuttavia, io ritengo che questa vergogna conoscitiva abbia delle ragioni, e mi limiterò qui a segnalarne tre fondamentali.
La prima ragione, insormontabile, sta nel fatto che la ricerca teorica e storica degli intellettuali che si richiamano soggettivamente al marxismo e al comunismo continua a subordinarsi e ad acettare le compatibilità dettate dai ceti politici professionali di ciò che resta dei partitini neocomunisti.
Ma la caduta del comunismo storico novecentesco è stata appunto caratterizzata dalla centralità dell’iniziativa dissolutiva dall’alto dei ceti politici professionali. Si è trattato di una controrivoluzione dall’alto, o per essere gramscianamente più esatti, di una controrivoluzione passiva dall’alto. Ora, pensare che i ceti politici professionali, pragmaticamente legati agli imperativi della tenuta della linea politica tattica, possano permettere una vera discussione “senza rete”sulle ragioni profonde della caduta del comunismo (cioè su loro stessi) è come pensare che la rivoluzione copernicana e galileiana possa essere compiuta con il benevolo consenso del collegio dei cardinali. Pura idiozia.
La seconda ragione, due volte insormontabile, sta nel fatto che la classe operaia, o proletariato, o come vogliamo chiamarla, in nome di cui si reggeva ideologicamente il sistema socialista del comunismo storico novecentesco, non solo ha dimostrato una abbietta e pittoresca incapacità nel cercare di impedirne la caduta, ma ha spessissimo contribuito attivamente (con idiota iniziativa o con ottusa passività) ad accelerarne il crollo. Personalmente, dal momento che condivido le vecchie analisi di Charles Bette lheim sulle società socialiste come società divise fra dominanti e dominati, cioè come società di classe dirette da una inedita oligarchia sfruttatrice concentrata nel partito-stato, tutto questo non mi ha purtroppo stupito, anche se ovviamente il “dopo” criminale e mafioso è stato molto peggio del “prima” burocratico. Ma per la stragrande maggioranza degli intellettuali marxisti, che non ha nemmeno mai saputo che le analisi di Bettelheim esistevano, esiste una resistenza psicoanalitica insormontabile ad ammettere questa pittoresca incapacità storica della classe operaia e proletaria (empirico-storica, non onirico-fantastica), cui continuano a richiamarsi ideologicamente. E scatta quindi una tipica “censura”, che richiede in questo caso molto più Freud che Marx.
La terza ragione, tre volte insormontabile, sta nel fatto che il ceto dei giornalisti e dei professori universitari, che ha di fatto il monopolio sulla produzione culturale e sulle pubblicazioni editorialmente corrette, è un ceto sessantottino integralmente corrotto, passato in massa dalle urla estremistiche dei cortei all’approvazione dei bombardamenti sulla Jugoslavia del 1999. Si tratta di gente che deve ad ogni costo avvelenare i pozzi in cui ha bevuto, di vera e propria feccia intellettuale molto rara nella storia della cultura. Non basta dire, come peraltro fa correttamente Giorgio Gaber, che si tratta di una generazione sconfitta. Questo è vero, ma non è ancora sufficiente. Si tratta di una generazione ricattabile, appunto perché sconfitta, e che deve quindi far dimenticare il passato aderendo in modi scompostamente entusiastici ai nuovi conformismi post-moderni, globalizzati, sionisti e multi-etnici. Dal momento che questa feccia ha il monopolio di fatto sulla produzione culturale ed editoriale, è assurdo pensare che essa permetta una vera discussione storica sincera.
E allora, che fare? Sinceramente, non ho ricette. In ogni caso, bisogna purtroppo che passi la nottata. Nel frattempo, credo che valga la pena segnalare come la discussione sul bilancio del comunismo storico novecentesco (1917-1991) debba camminare su due gambe, la gamba del bilancio storico e la gamba del bilancio teorico. La camminata finale è ovviamente unitaria, ma senza questa distinzione metodologica a mio avviso non si va avanti.
Il bilancio storico del comunismo novecentesco inteso come fenomeno mondiale (ed è questa la scala su cui deve essere giudicato, non certo il provincialismo autoreferenziale) resta a mio avviso positivo. Più esattamente, ed usando un aggettivo più corretto, il comunismo mondiale è un fenomeno assolutamente legittimo. Fu legittima la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, risposta allo scatenamento sanguinoso della guerra mondiale imperialistica. Fu legittima la costruzione di una internazionale socialista. Fu legittimo l’appoggio strategico alle rivoluzioni anticoloniali in Asia, Africa ed America Latina. Fu legittimo lo stesso programma di costruzione di un’economia socialista pianificata di proprietà pubblica, anche se il modo staliniano di realizzare questo programma fu in realtà la causa originaria e primaria del successivo fallimento, perché il terrore protratto e divenuto metodo di governo permanente sega il ramo su cui si è seduti.
Questa “legittimità” storica del comunismo è per me assolutamente scontata, e costituisce la bussola della mia valutazione globale del Novecento. È pertanto del tutto inaccettabile l’approccio alla Marco Revelli, per cui non solo il comunismo è ridotto ad una proiezione politica mostruosa della produzione fordista, ma l’intero Novecento è condannato come Secolo Mostruoso, in particolare per la coppia Auschwitz-Hiroshima (con l’inutile concessione sionista all’eccezionalità unica di Auschwitz, paradigma del politicamente corretto di sinistra, il cui scopo indiretto è di far dimenticare di fatto il modello di bombardamento americano di Hiroshima). Questa visione è del tutto metafisica. Il Novecento ha visto certamente alcune decine di inenarrabili porcherie, fra cui ovviamente in primo piano Auschwitz e Hiroshima, ma è stato anche il secolo della liberazione anticoloniale, fenomeno ignoto agli intellettuali operaisti e futuristi.
Il bilancio teorico del comunismo storico novecentesco, invece, non può essere simile al bilancio storico. Per bilancio teorico intendo l’applicazione, sia pure flessibile, benevola e creativa, del modello teorico marxiano della transizione fra modi di produzione sociali (ed in questo caso fra capitalismo e comunismo) alla concreta realtà storica del comunismo così come si è di fatto costituito e sviluppato. Ebbene, questo bilancio teorico è incondizionatamente negativo, ed è dunque qualcosa da non riproporre e da non ripetere.
È stato del tutto illusorio pensare di innescare una transizione sociale addirittura inter-modale sulla base del monopolio del potere di un partito politico (inevitabilmente luogo di concentrazione di una nuova classe dominante, nonostante la falsa coscienza ingenerata dall’ideologia statualmente imposta). È stata del tutto illusoria la via statalista alla costruzione del socialismo, peraltro a suo tempo esplicitamente esclusa da Marx (nella polemica con Lassalle) e persino da Engels (nella polemica con Duhring). È stato del tutto illusorio individuare nella classe operaia proletaria il soggetto storico capace di egemonia nella transizione inter-modale, laddove la subalternità e l’internità capitalistica di questa classe è addirittura superiore di quanto avvenne a suo tempo per gli schiavi e i servi della gleba. E potrei continuare mol to a lungo.
La stragrande maggioranza degli intellettuali che si dicono ancora marxisti e comunisti identificano il bilancio teorico negativo del comunismo con l’accettazione capitalistica della fine della storia. È esattamente il contrario. Si tratta invece del presupposto per una nuova possibile ondata di lotte anticapitalistiche. Ma questo fatto cruciale non è compreso ed è costantemente negato e rimosso, e per questa ragione non nutro speranze a breve termine di inversione di tendenza. Ma chi vivrà vedrà.