Tu vuo’ fa’ ll’americano?

*Docente di Storia e arte dell’attore Università di Torino e Armando Petrini, Ricercatore di Discipline dello spettacolo Università di Torino

LE INFLUENZE DEL CINEMA AMERICANO SU QUELLO ITALIANO: UN RAPPORTO COMPLESSO, SPESSO SOTTERRANEO E NON LINEARE.

Scriveva Majakovskij fin dal 1913: “Il trionfo del cinema è garantito, poiché è soltanto la logica conclusione di tutta l’arte moderna”. Agli albori della sua storia, e quando il cinema è ancora muto, il grande poeta, che di lì a poco abbraccerà la causa della rivoluzione sovietica, intuisce il nucleo profondo della struttura linguistica e ideologica della nuova invenzione. L’arte moderna, infatti, è l’arte dell’epoca borghese e rivela in modo evidente caratteristiche ben precise. Mentre le società che precedono la Rivoluzione francese conoscono un’arte che realizza un distacco dal costume e dalla vita quotidiana – caratteristica questa essenziale per presiedere al divertimento della ristretta élite a cui l’arte è destinata –, l’”invenzione” del romanzo in epoca borghese denuncia il desiderio e la necessità da parte della nuova classe dominante – la borghesia appunto – di far coincidere il divertimento con un rispecchiamento del costume e della vita quotidiana attraverso forme di espressione artistica che, nel momento in cui le rispecchiano contemporaneamente però le idealizzino. Alessandro Manzoni, vero “scienziato” dell’ideologia borghese, nel suo romanzo di ambientazione solo apparentemente contadina, trova il modo di trasporre in buona prosa borghese l’ideale della Laura trecentesca da Petrarca sublimata in un’aura di eccezionalità che fa di lei una semi-dea ancora di ispirazione pagana i cui rapporti con la vita, e cioè con una figura femminile precisa, sono estremamente labili e poco concreti. Al contrario la promessa sposa Lucia Mondella pretende di apparire come una donna che chiunque può incontrare per le strade del proprio contado; è questa la fortissima astrazione ideologica che il personaggio dei Promessi sposi subisce da parte dell’autore per soddisfazione delle pulsioni ascetiche del borghese che, e non è un caso, riguardano sempre la sfera del sesso mentre le autentiche pulsioni degli appartenenti a quella classe, come è ben noto, sono rivolte a ben altro ambito e cioè a quello economico.
Le parole di Majakovskij, utili e illuminanti, rivelano la profondità di un pensiero che scava nella realtà contemporanea intuendo quale sarà la strada che seguirà il cinema fra le molte possibili. Infatti il cinema muto non può ancora essere l’erede diretto del romanzo ottocentesco, come diventerà poi il film sonoro. La cinematografia fino a circa il 1930 dovendo fare a meno del linguaggio parlato esclude il rispecchiamento di almeno una metà del costume e della vita e costringe l’altra metà a un’esagerazione dei linguaggi non verbali (gesti, trucco, eccetera) che perciò ha assai poco di realistico. E’ quindi il cinema parlato quello che afferra il testimone ideologico del romanzo ottocentesco avendo la possibilità di realizzare una più completa e apparentemente “fedele” trasposizione della realtà nel passaggio dalla lingua scritta alla registrazione delle immagini. E, proprio in questo senso, il cinema realizza, come intuiva Majakovskij, il compimento della poetica naturalistica che prevedeva l’abolizione della finzione nell’arte. Non stupisce quindi di trovare nel 1947 una pubblicità di Vivere in pace di Luigi Zampa che suona così: “[La] storia non è inventata, i fatti che la animano hanno un preciso riferimento alla realtà, i nostri personaggi sono veramente vissuti… Del resto è molto difficile inventare oggi una storia che non sia realmente accaduta”.
Questa citazione di un brano della voce fuori campo usata in modo pubblicitario per un film dell’immediato dopoguerra ci richiama a un’epoca in cui, grazie alla poetica neorealistica, il cinema italiano si era appena liberato dall’influenza francese – di cui non solo il cinema ma tutta la nostra cultura era debitrice dalla fine dell’ottocento alla seconda guerra mondiale – e non era ancora caduto sotto quella americana. Infatti l’epoca del neorealismo durò assai poco e com’era nell’ordine delle cose, data la recente vittoria nelle guerra e l’ineluttabile e conseguente espansione del mercato americano, non solo il costume italiano ma anche la cultura e quindi il cinema caddero sotto l’influenza degli Stati Uniti. E sarebbe logico, per ciò che riguarda il cinema, aspettarsi di trovare tracce di questa influenza in almeno due ambiti: quello tematico e quello più strettamente legato al linguaggio espressivo. Ma il primo, che dei due è anche quello in cui l’influenza dovrebbe manifestarsi con maggiore evidenza, si rivela in realtà il campo in cui la cinematografia italiana ha preso e prende più spesso le distanze da quella americana.
Un americano a Roma, con Alberto Sordi (1954), ben esemplifica un modo tutto italiano di resistere e di distanziarsi attraverso l’ironia –un’ironia certo bonaria, ma da questo punto di vista comunque efficace dall’americanismo più aperto e smaccato. Dal canto suo Renato Carosone – e anche questo è un caso di ironia bonaria ma che serve però anche molto bene a denunciare un clima – , sempre negli anni cinquanta, canta il famoso pezzo Tu vuo’ fa’ ll’americano (1956). Ancora oggi peraltro l’influenza del cinema statunitense su quello italiano non è così forte sul piano dei contenuti e tranne qualche raro caso (si possono citare gli esempi di Nirvana di Gabriele Salvatores [1997] o del Mio west di Giovanni Veronesi con Leonardo Pieraccioni [1998]) sembra anzi di assistere da parte dei cineasti italiani al desiderio di caratterizzare fortemente il proprio cinema in senso nazionale (si pensi soltanto, e a voler restare agli esempi più interessanti di oggi, a Alessandro Benvenuti per la commedia e a Marco Tullio Giordana per il dramma sociale).
Là dove invece l’americanismo si insinua astutamente e surrettiziamente – e perciò anche più efficacemente – è sul piano dell’influenza esercitata sul linguaggio cinematografico propriamente inteso: tanto su quello del linguaggio della regia quanto sul piano del linguaggio della recitazione. Per ciò che riguarda la regia, e per limitarci ancora a pochi esempi, è molto evidente il richiamo al kolossal nell’- Ultimo imperatore di Bertolucci (1987), la larga utilizzazione degli effetti speciali così tipici dell’industria cinematografica americana nel Pinocchio di Benigni (2002) e l’evidente allusione a una scrittura à la Tarantino nel meno conosciuto, ma altamente esemplare, Tre punto sei di Nicola Rondolino (2003). Per ciò che riguarda l’Ultimo imperatore, alle scene grandiose con moltissime comparse, movimenti di masse e magnifici costumi tipiche di certe pellicole che, appunto, si sogliono definire “colossali” – nate in Italia col famosissimo Cabiria di Pastrone (1914), summa di tutta una cultura di cartapesta dell’epoca, ma oggi monopolio pressoché esclusivo dell’industria hollywoodiana, per ovvie ragioni di risorse economiche –, si aggiunge anche una critica alla rivoluzione culturale cinese affrontata da un punto di vista che non si richiama necessariamente all’ideologia americana, ma che rientra nel grosso alveo del filisteismo piccolo-borghese e della vulgata revisionistica. Nel film di Benigni gli effetti speciali servono a creare una atmosfera di sentimentalismo diffuso che si riallaccia giù giù fino ai mielosi film americani cantati e ballati, seppure con eccezionale maestria, da Fred Astaire e Ginger Rogers. Ed è evidente come questa interpretazione del libro sia distantissima dalla matrice anarchica di Collodi, e che il ricorso a un linguaggio patinato ne smorza e ne attenua gli elementi di critica della società presenti in quella “favola”. Per ciò che riguarda infine Tre punto sei le inquadrature ammiccanti, lo stile frammentato e minimalista tipicamente postmoderno, il ricorso massiccio a una violenza feroce e, in certo qual modo, ancestrale, rende palese l’influenza di tanto cinema splatter americano ben esemplificato, oggi, dai film di Tarantino.
A proposito della recitazione va fatta una premessa che riguarda in genere la poetica cinematografica americana, anche se forse sarebbe meglio dire l’ideologia che le è sottesa. Tenendo sempre conto che chi lavora nel cinema – attori, soggettisti, sceneggiatori, registi, scenografi, costumisti, eccetera – ha un rapporto molto forte con l’industria che quei film produce, è evidente che il cinema hollywoodiano si può permettere delle ricerche tecniche e tecnologiche che altre cinematografie nazionali non possono concedersi. E queste ricerche, dal secondo dopoguerra a oggi, sono andate sempre nella direzione dell’abolizione, per quanto è possibile, della finzione nell’espressione spettacolare, come è perfettamente coerente a una poetica naturalistica. Testimonianza di questo sono, per esempio, le riprese esterne in luoghi particolarmente esotici e un tempo impensabili da raggiungere con la macchina da presa, ma che diventano consueti e normali a partire dal secondo dopoguerra come è nel caso della Regina d’Africa (1951) di John Huston con Humphrey Bogart e Katharine Hepburn e Niagara (1953) con Marilyn Monroe e Joseph Cotten, rese possibili proprio dallo sviluppo tecnologico. Ineluttabile è la ricaduta di questa evoluzione tecnica sulla recitazione. Quindi se l’ideologia sottesa a questo fatto che può sembrare squisitamente pratico e strumentale – va sempre ricordato che nessuna invenzione è mai neutra ma che è sempre qualcosa, rintracciabile nella struttura economica, a stimolarla – è quella di restituire nella pellicola la realtà così com’è, l’attore dovrà adeguare il suo stile recitativo a questa ideologia. È il problema che si pone non da oggi, e non solo nel cinema ovviamente, ma a partire dagli ultimi vent’anni dell’ottocento e cioè quello della recitazione naturalistica che permetta, prima in teatro poi nel cinema, di portare come è stato detto “la vita sulla scena” tendendo a ridurre al minimo possibile la finzione del linguaggio spettacolare.
Parlando di evoluzione tecnica non possiamo ovviamente dimenticare l’invenzione e da un certo punto in poi la diffusione del mezzo televisivo. Da quel momento le esigenze ideologiche convergono, tra cinema e televisione, a trasformare la fabbrica dei sogni impossibili a quella dei sogni possibili. Là dove il sogno impossibile risulta una creazione della fantasia, che tiene molto dell’attività artistica, tendente a inventare un mondo alternativo alla realtà, e diverso da questa, cui si contrappone come ideale impossibile da raggiungere ma che, nel momento in cui lo si concepisce, permette una fuga grandiosa e insieme consolatoria ai mali della vita o anche solamente alla noia delle routine. Il sogno possibile è invece un “sognuccio” (il termine è usato già da Vittorio Alfieri) che si può realizzare, anche se eccezionalmente: per ottenere questa forma di immedesimazione da parte dello spettatore è necessario uno spettacolo agito da attori e incentrato su temi il più possibile vicini a noi e alla nostra vita.
Recentemente Tonino Bucci ha scritto con grande puntualità su Liberazione (1 giugno 2004): “Né attore di teatro, né cantante lirico, né interprete del cinema, l’uomo nuovo della Rai deve essere tutto e niente, fare qualunque cosa senza eccellere in nessuna, cantante ma non di professione, imitatore alla lettera ma senza spirito, dissacratore ma senza grilli per la testa”. Ma ciò non riguarda solo la televisione dal momento che la tendenza a pretendere da tutti gli addetti alla comunicazione spettacolare, attori prima di tutto, la mediocrità è ormai diffusa sia nel teatro che nel cinema. Ma questo che accade oggi era stato progettato, per così dire, da lontano.
Le origini del naturalismo non sono ben definite e ciascun studioso le colloca variamente: c’è chi le fa risalire al cinquecento e chi ancora più in là, all’epoca comunale di cui è campione Boccaccio. Non è però il caso di andare troppo a ritroso nel tempo e basterà prendere come esempio Goldoni, che si colloca proprio a ridosso della Rivoluzione francese e cioè del trionfo della borghesia, e sarà allora evidente che un episodio chiave della sua operazione teatrale è ricca di destino: è noto che egli si vantava di aver così bene imitato la “natura umana” della protagonista del suo Le femmine puntigliose (1750) al punto che in ogni città in cui veniva rappresentata quella commedia una dama del luogo si indignava riconoscendosi nel personaggio. Lasciamo ora stare il fatto che il naturalismo seguì, come sempre succede nelle cose dell’arte, un percorso altalenante che vide momenti di grandiosa convenzione alternarsi a altri di piatta riproduzione della vita: ciò che è evidente è che oggi siamo alla fine di un lungo percorso e non le dame puntigliose del settecento, ma gli attuali piccoli borghesi filistei pretendono di essere ritratti nei vari eventi spettacolari. Ecco allora che non c’è più posto per l’eccezionalità: si afferma, quindi, sempre di più la mediocrità che favorisce il piccolo sogno, il “sognuccio”, con tutta la sua possibilità di realizzazione.
Ed è proprio qui che sta l’influenza del cinema americano su quello italiano. Nella cultura americana, a parte i picchi che non influenzano affatto il costume, tutto è mediocre; il conformismo tende a livellare ogni cosa e a “normalizzare” appunto questi picchi. Le vicende biografiche della vita di Marilyn Monroe stanno lì proprio per deprimere la fruizione della sua eccezionalità di attrice dalla bellezza straordinaria: lo spettatore che l’ammira deve pensare che in fondo era una “povera donna”, meglio se morta suicida per sfuggire a un abisso di infelicità. E non diceva già Rita Hayworth, l’”atomica rossa”, che il problema degli uomini della sua vita era che andavano a letto con Gilda e si risvegliavano con Rita? Anche lei, così eccezionale, era, in fondo, una “povera donna” da ammirare, ma non da invidiare. Il sogno impossibile, grandioso e magnifico di andare a letto con Gilda doveva essere temperato, e “normalizzato”, dal “sognuccio” che invita a accontentarsi della propria compagna, magari praticando un rapporto sessuale trasgressivo – e qui ci si rende subito conto come certe apparenti liberalizzazioni servano solamente a confermare l’esistente-, ma sempre ben chiuso nell’ambito della famiglia (è ciò che avviene nel recente Secretary di Steven Shainberg) che, come ci insegnano Marx ed Engels, è il nucleo fondante della società borghese.
Non ci deve quindi stupire, dati questi presupposti, che la linea recitativa nei film italiani che si afferma negli ultimi decenni non sia quella fantasticamente grandiosa del grottesco di Tognazzi e Volontè, ciascuno a suo modo ovviamente, ma quella tranquilla, decisamente naturalistica e favorente l’immedesimazione di Mastroianni. Ma Mastroianni era bravo e, cosa assolutamente non irrilevante per un attore, bello. Per adattarsi all’americanismo era necessario un passo ulteriore: l’industria cinematografica italiana aveva bisogno di personaggi decisamente più inclinati sul piano della mediocrità, magari ancora belli (forse per poco) ma di una bellezza vuota, pura forma, modello “veline”: ecco i vari Stefano Accorsi, Raul Bova, Alessandro Gassman; mentre le donne hanno il volto e il corpo assolutamente “tranquillo” di Margherita Buy, di Laura Morante, eccetera: bellezze casalinghe, appunto. Niente a che fare con lo sfolgorante splendore, decisamente improponibile nella realtà di tutti i giorni, per esempio, di Silvana Mangano e Lucia Bosè.
Meglio l’effetto di questa degradazione del sogno si può vedere nella recitazione degli attori e delle attrici televisivi. Qui l’imitazione del piatto naturalismo dei film americani si svela in tutta la sua miseria e nel suo involontario ridicolo. Gli attori italiani, infatti, -non avendo alle spalle la formidabile macchina industriale di quelli americani che produce una tradizione recitativa, non necessariamente artistica, ma comunque di alto livello espressivo e comunicativo – scadono spesso nel “falso”. Già nel 1728 Luigi Riccoboni – grande attore della commedia dell’arte, riformatore della recitazione e primo storico del nostro teatro – in un suo poemetto sull’Arte recitativa invitava gli attori a avere sempre chiara la coscienza del carattere costitutivamente “finto” dello spettacolo teatrale e li metteva in guardia dal non scadere nel “falso”. È questo un nodo problematico che riguarda tutta la storia dello spettacolo e da poco più di un secolo anche quello cinematografico. L’appartenere alla patria di Riccoboni non è però motivo sufficiente a tanti attori e attrici italiani per non rivelarsi del tutto ignari del problema. Personaggi come Pieraccioni o Veronica Pivetti potrebbero rivelarsi, a un’analisi approfondita, ghiotte spie stilistiche a esemplificare questa ignoranza: si potrebbe dire “nessuno più falso di loro” se non ce ne fossero tanti altri.
L’imitazione del piatto naturalismo americano – che è anche naturalismo piatto – rivela poi un altro tipo di ignoranza, oltre a una posizione moralmente riprovevole.
Quest’ultima riguarda l’imitazione di un modello straniero – cosa di per sé tutt’altro che riprovevole –, ma del modello di un paese dove l’arte è tendenzialmente sottomessa all’aspetto commerciale della comunicazione spettacolare. Ma l’ignoranza più grave è quella che riguarda il non rendersi conto che, in questa prospettiva commerciale, soltanto una grande industria può garantire un livello stilistico comunemente partecipato da coloro che contribuiscono a creare l’evento spettacolare. E quindi solo all’interno di quell’industria è possibile frequentare il livello sufficiente di finzione che, senza raggiungere l’arte, non scada però platealmente nel “falso” e risulti in grado di permettere l’identificazione dello spettatore nel personaggio. Non basta essere bellocci come Stefano Accorsi per raggiungere il livello recitativo di un belloccio americano come Harrison Ford.
È poi presente nella recitazione italiana una tendenza molto interessante, anche se minoritaria, rappresentata in Italia da attori, spesso anche registi, che perseguono ancora un loro ideale artistico, ricollegandosi fra l’altro in modo indiretto alla linea Tognazzi-Volontè. Ci riferiamo all’ironia graffiante, di derivazione pulcinellesca, di Massimo Troisi, al tocco leggero, ma non per questo meno rilevante nella sua contrapposizione ai modelli americani della commedia, di Alessandro Benvenuti e all’intensa presenza attorica, con tratti grotteschi, di Sergio Rubini.
Ma, appunto, si tratta di una linea minoritaria. Semmai ciò che stupisce, apparentemente, in quella maggioritaria è che oggi non ci sia nulla di comune a ciò che fu rappresentato dalla commedia all’italiana.
Quest’ultima può essere giudicata in vari modi, come è stato fatto; e non è sbagliato vedere nella maggioranza di quei film, e per così dire nella struttura profonda che li accomuna, una decisa bonarietà riformistica nei confronti dell’Italia del boom economico e, dunque, della società dei consumi che è anche la società dello spettacolo. Soltanto attori eccezionali come i già citati Tognazzi e Volontè o lo straordinario Peppino De Filippo – che in Boccaccio ’70 (1962) riesce a scardinare dall’interno, con la sua crudele cattiveria, la “poesia” felliniana – denunciano una possibilità di affrontare il problema in modo diverso e autenticamente svelante l’ideologia neocapitalistica. Ma va comunque riconosciuto a quella temperie cinematografica il merito di aver affrontato, male o bene e più spesso male che bene, i problemi della società del tempo, attraverso il rispecchiamento del costume di quella società, portando avanti battaglie civili anche non indegne. Nulla di tutto questo oggi. Proprio mentre scriviamo leggiamo ancora su Liberazione (5 giugno 2004) un articolo di commemorazione di Nino Manfredi scritto da Mino Argentieri.
Ecco come il critico illustre conclude il suo scritto affrontando proprio questo argomento: “Eppure, basta guardarsi intorno per accorgersi che la materia prima della satira e dell’umorismo è in inarrestabile ascesa, tanti sono i mostri e tante sono le mostruosità che ci circondano anche se il cinema e la televisione sembrano non accorgersene, un po’ per miopia congenita, un po’ per non dispiacere ai controllori del potere mediatico”; e un po’ forse proprio per supina accettazione di un modello, quello americano, che mostra bene come lo stile divenga immediatamente contenuto: che è poi un modo, per come stanno le cose della politica oggi in Italia, proprio come dice Argentieri, per non dispiacere ai controllori del potere mediatico, che della poetica spettacolare americana sono servi e promotori insieme. All’ideazione di questo articolo hanno partecipato in modo determinante Donatella Orecchia e Mariapaola Pierini, che gli autori ringraziano per il prezioso contributo