Tre o quattro cose che credo di sapere sul comunismo

Mi si chiede di dire qualcosa in tre-quattro cartelle sull’Urss e sul comunismo. Proverò a farlo: naturalmente saranno cose schematiche e apodittiche.
Una specie di interdetto mi (ci) perseguita da quando ho (abbiamo) cominciato a fare politica: l’interdetto dice che non è possibile prefigurare la società comunista, sarà lo stesso movimento a costruirla. La tesi non mi ha mai convinto: come è possibile valutare la strada che sto percorrendo se non so la meta? Così, dentro di me, mi son fatto un’idea della società comunista, e con questa idea ho sempre misurato ogni proposta ed ogni movimento.
L’idea guida, quella fondamentale che orienta e tiene insieme tutte le altre, può essere detta con le parole di Gramsci (non mi chiedete ora dove le ha dette: sono certo che le ha dette, sono quaranta anni che me le vado ripetendo): avverrà mai che non vi siano più oppressori ed oppressi, sfruttatori e sfruttati, governanti e governati?
Il solo fatto di porsi questa domanda presuppone almeno tre cose importanti: a) il comunismo è un progetto collettivo, e nessuna legge scientifica garantisce a priori che esso diverrà vero (se in Marx si trova questa diversa tesi, allora per questo aspetto non sono marxista; sicuramente non condivido lo scientismo e il determinismo conseguente che fu tanta parte della Seconda e della Terza Internazionale, quali che siano le ragioni storiche che giustificavano allora questa posizione); b) nello stesso tempo quella domanda presuppone che negli esseri umani non vi sia una tendenza oggettivamente e naturalisticamente insuperabile verso la sopraffazione e lo sfruttamento sugli altri (vale la pena di ricordare che l’evidenza storica degli ultimi seimila anni, e cioè di quella parte della storia dell’umanità di cui conosciamo qualcosa, sta tutta e massicciamente dalla parte della tesi hobbesiana, per cui homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’altro uomo); c) infine quella domanda chiede di essere riempita, e cioè che si dica, sia pure per sommi capi, quali caratteristiche dovrebbe avere una società umana che non conosce né oppressione, né sfruttamento, né divisione di classe.
Delle prime due cose ora esposte c’è poco da dire qui: in fondo si tratta di presupposti che, una volta esplicitati, o si accettano o si respingono, con tutto quel che ne segue (nel primo caso si diventa comunisti, nel secondo si apre la strada per affiliarsi alle innumerevoli correnti che, in tanti modi diversi, giustificano comunque e ritengono inevitabile che la società umana sia divisa tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori).
L’attenzione, per i comunisti, si deve concentrare necessariamente sulla terza cosa.
Se qualcuno mi chiede e bruciapelo: “ma tu come la concepisci la società comunista?”, per quanto vi possa sembrare strano e presuntuoso, io ho provato da tempo a rispondere a questa domanda, ed ho idee fermissime in proposito. Anzitutto è una società che si propone di permettere a tutti gli esseri umani il massimo possibile di libertà di cui, date le risorse a disposizione, sono capaci (il suo ideale massimo, contrariamente a quanto credono gli avversari e purtroppo molti che si dicono comunisti, è la libertà umana; per rendere ancora più chiara e provocatoria questa mia tesi, per la verità niente affatto originale, aggiungerò che a mio avviso il progetto comunista si colloca dentro il progetto liberale del periodo illuminista e ne costituisce l’unica e coerente conclusione). Proprio per questo, poiché si tratta di assicurare a tutti e a ciascuno il massimo di libertà possibile, vi deve essere una eguaglianza nelle risorse, e cioè una dotazione in termini di conoscenze, di cultura, di beni materiali, che metta tutti e ciascuno nelle stesse condizioni oggettive, e permetta a tutti e a ciascuno di usare tali risorse come meglio ritengono. Sempre per la stessa ragione, la società comunista è (deve essere) capace, collettivamente, di distinguere tra bisogni e desideri: i desideri sono illimitati e quindi, date le risorse disponibili (che sono sempre e per definizione limitate da madre natura), non sono soddisfacibili in modo eguale, i bisogni sono razionalmente conoscibili e misurabili, e diventa pensabile un loro soddisfacimento in modo eguale. Per questa stessa ragione la società comunista è una società che non ha come fine e motore l’accumulazione, ma la riproduzione semplice: le forze produttive sono giunte ad un livello tale che non vi è alcun bisogno, ed anzi è controproducente continuare ad accrescere produzione e consumi; d’altra parte, se è necessario ancora accumulare (e cioè produrre più di quanto la società consuma, per ricominciare il ciclo della produzione con risorse accresciute), allora nessun sistema si rivela più efficiente di quello capitalista, il quale, col terrore della disoccupazione, e quindi della miseria, ottiene senza sforzo il massimo possibile di disciplina e quindi di sfruttamento sui lavoratori dipendenti.
Naturalmente tutte queste tesi hanno importanti corollari; ne indico solo due: da un lato il livello culturale di tutti gli esseri umani deve essere equivalente (non si tratta di ottenere che tutti sappiano tutto, che è cosa impossibile, ma che tutti siano giunti a livelli culturali equivalenti, così come ad esempio oggi accade con i laureati); dall’altro lato quel progetto sommariamente delineato è comunque impraticabile se non vi è un controllo delle nascite, e cioè una sostanziale stazionarietà nella popolazione umana.
Non credo che a questo punto vi sia alcun bisogno di spiegare perché l’esperienza dell’Urss si è rivelata un totale fallimento. Qualcosa delle idee prima dette si trova all’inizio, subito dopo il 1917 e nei primi anni venti (come punti ideali da raggiungere nonostante la durezza dei tempi di allora e la enorme distanza della realtà brutale rispetto agli ideali professati); ma da Stalin in poi viene costruita una realtà, ed un progetto, che di comunista non hanno proprio nulla. Che cosa dire oggi di tutto ciò? Ho pochissime certezze e molti dubbi. Dubito che gli operai siano oggi quella classe che ha da perdere solo le sue catene; dubito quindi che la loro sia la classe che può farsi carico della costruzione della società comunista: oggi gli operai dei paesi capitalisticamente più potenti sono quasi tutti decisamente schierati con i propri governi, e cioè, per dirla chiara e senza ambiguità, sono schierati dalla parte dell’imperialismo (lo Stato sociale è la linea politica che chiede una migliore spartizione del bottino imperialista, che vada non solo a vantaggio dei capitalisti ma anche degli operai e in generale del popolo). Non vedo oggi chi e come potrebbe prendere su di sé il compito immane di guidare l’umanità verso la società comunista.
Resto persuaso però di almeno tre cose.
a) Trovo ridicolo, se non fosse tragico, che persone che si ritengono intelligenti, colte, sapienti, competenti, ripetano ossessivamente che compito principale dell’umanità, anche nei paesi ricchi, sia aumentare il PIL almeno del 3% (ogni giorno si leggono le geremiadi dei nostri politici ed economisti quando questo indice magico scende sotto tale livello). Ragionate solo un momento, con carta e matita (non c’è bisogno di strumenti più raffinati): proporsi un aumento annuale di almeno il 3% vuol dire (come si fa quando si calcola l’interesse composto) proporsi di raddoppiare la produzione ogni 25 anni circa, e cioè quadruplicarla ogni 50 anni, e cioè ottuplicarla ogni cento anni! Secondo questi sapienti impazziti, in un Paese come l’Italia (o come gli Stati Uniti, o la Gran Bretagna, e così via), tra cento anni dovremmo avere automobili per più di otto volte, metri quadrati di abitazione per più di otto volte, frigoriferi, televisioni, telefonini, abiti, vacanze, case al mare, e così via, per una quantità otto volte superiore! A me questa pare pazzia pura. È ovvio che invece i paesi poveri dovrebbero crescere, nei prossimi cento anni, forse anche più di otto volte, se vogliamo assicurare ai loro abitanti livelli di vita comparabili con i nostri; ma, guarda caso, sono proprio questi paesi che nella corsa sfrenata della concorrenza mondiale vengono lasciati indietro e peggiorano anziché migliorare. Questa è la prima certezza: sono convinto che questa corsa folle provocherà disastri crescenti.
b) La seconda certezza è che trovo moralmente intollerabile e vergognoso (ma anche strano e incomprensibile che vi sia adesione anche da parte dei poveri) che società cosiddette civili si fondino su due regole costituzionali fondamentali non scritte (e non scritte proprio perché sono così fondamentali da essere divenute nella coscienza dei più ovvie e naturali come le leggi di natura), le quali dicono: 1) che non esiste limite alla quantità di proprietà che ciascuno può acquisire (e naturalmente quanta più proprietà uno acquisisce, tanto minore proprietà resta per tutti gli altri); 2) che non esiste limite al livello di reddito che ciascuno può raggiungere (e naturalmente quanto maggiore è il reddito di uno, tanto minori diventano, data la quantità totale di produzione della società, i redditi di tutti gli altri).
c) La terza (ed ultima) certezza (come si vede ne ho davvero poche) è che, ora qui ora là, ora in un periodo, ora in un altro, vi saranno ribellioni, tentativi di praticare strade diverse, ricerca di unità e solidarietà da parte di singoli e di gruppi che non intendono divenire schiavi del capitalismo e subire senza resistere l’oppressione capitalistica.
È poco?
Non so dire di più e di meglio.