Trasformazioni economiche e sociali e negazione del socialismo

“Socialismo reale”, “socialismo realmente esistente”, “socialismo realizzato”: tutte queste definizioni, coniate dai gruppi dirigenti dei partiti comunisti al potere nel periodo brezneviano, sono entrate a far parte del linguaggio politico corrente verso la metà degli anni ’70 per designare, di fatto in polemica con l’eurocomunismo che teorizzava una “terza via” tra modello sovietico e socialdemocrazia, la realtà politica e sociale dei paesi appartenenti al blocco socialista, e sono state da allora considerate sostanzialmente sinonimi. In realtà di ciascuna di queste definizioni sarebbe interessante fare la storia, perché ciascuna nasconde, magari inconsapevolmente, delle sfumature. “Socialismo reale” è un’espressione in sé ambigua: quando fu coniata, essa poteva significare il socialismo che c’era davvero, e dunque in qualche modo relegare il resto (cioè le forme diverse possibili di socialismo rispetto a quello, appunto “reale”) nel campo delle discussioni accademiche o, più crudamente, delle aspirazioni velleitarie; ma poteva anche lasciar intendere che esistesse uno iato ancora da colmare fra la realtà e l’ideale. Al contrario, la seconda delle definizioni – “socialismo realmente esistente” – era più pragmatica ma anche più univoca, e sembrava sciogliere ogni possibile ambivalenza nel senso del primo corno del dilemma, concentrando l’attenzione sul socialismo che “esisteva” storicamente. La terza espressione, “socialismo realizzato”, evocava a sua volta due possibili chiavi di lettura: un processo in corso, e dunque suscettibile di completamenti e miglioramenti (il socialismo “finora” realizzato), oppure una costruzione completata, un cammino giunto alla sua tappa finale.
A voler tentare un bilancio delle esperienze dei sistemi politici ed economici che si chiamarono socialisti, a dieci anni e più dalla loro definitiva conclusione almeno in Europa, delle tre definizioni sopra richiamate quella che sembra più utile è la terza: se non altro perché apre la via all’espediente di scindere l’espressione nei sue due termini, il sostantivo e il participio passato. Un bilancio infatti dovrebbe tener conto da un lato di ciò che le esperienze in questione hanno significato per il socialismo, inteso come ideale di riscatto e di emancipazione degli oppressi e di fratellanza universale, e dall’altro delle concrete realizzazioni che esse hanno lasciato di sé.
Dal primo punto di vista il bilancio non può che essere, alla fine, pesantemente negativo. Il socialismo, soprattutto il socialismo che era stato promesso alle popolazioni di una parte di continente devastata dalla guerra e passata prima, con poche eccezioni, attraverso un periodo di oppressione sociale e convulsa crisi economica, era stato un’ideologia che prometteva eguaglianza e prosperità: della prima restavano già alla fine degli anni ‘70 poche tracce, della seconda non vi era neanche l’ombra. La promessa dell’innalzamento degli standard di vita della popolazione non era stata sempre solo vuota propaganda; ma proprio per questo, ora che quegli standard precipitavano verso il basso (e quanto verso il basso era possibile agli interessati constatarlo grazie alla maggiore libertà di circolazione delle persone, o almeno alla diffusione delle radio e delle televisioni dell’Occidente) la mancata soddisfazione di quella promessa, anzi il suo capovolgimento in una tetra condizione di penuria, rappresentava un colpo gravissimo inferto alla pretesa di legittimità dei sistemi che al socialismo si richiamavano, anzi che avevano preteso di incarnare il socialismo realmente esistente. Dunque i dirigenti comunisti dell’Est, anche quelli, e non erano molti, che non avevano cessato da un bel pezzo di credere nella loro stessa propaganda, presero atto, quando lasciarono quasi senza eccezione pacificamente il potere nel 1989, di un fallimento a cui non sembrava più possibile porre un rimedio dall’interno del sistema.
Certo, come osservava in uno dei suoi ultimi libri Giuseppe Boffa, uno storico tra i più lucidi dei paesi del “socialismo reale” che è oggi ingiustamente quasi dimenticato, sarebbe sbagliato “ridurre l’esperienza dei governi comunisti dei paesi dell’Europa centro-orientale a semplice violenza esercitata su popolazioni recalcitranti o ad arbitraria imposizione di un’ideologia preconcetta, per di più venuta dall’esterno”. Vi fu anche questo, ma non solo questo. Non pochi partiti comunisti erano riusciti a tessere legami profondi e resistenti con strati diversi della popolazione, mediante una diffusione capillare della propria influenza, forgiando una certa coscienza sociale, un certo tipo di opinione pubblica, un tipo e una struttura particolare delle rivendicazioni materiali, delle aspettative e dei bisogni. Ma quei legami erano venuti sempre più logorandosi. I regimi comunisti dell’Est europeo, e a maggior ragione anche il loro modello originale, l’Urss, divennero sempre più per molti aspetti e in modo del tutto evidente nel corso degli anni ’80, delle impalcature esteriori quasi completamente svuotate del loro contenuto originario, efficaci quasi soltanto sia come apparato repressivo sia come paravento ideologico per paralizzare la maturazione di un’alternativa.
Il panorama lasciato dietro di sé dal socialismo realizzato è dunque per molti aspetti un panorama di desolazione sociale, di corruzione politica e morale, di apatia, di scoramento. Certo, non è facile misurare quanto di questo panorama appartenga all’eredità negativa lasciata da quei sistemi, e quanto invece sia anche imputabile alla dissennata adozione di un modello di privatizzazione selvaggia dell’economia, che ha prodotto l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di una larga maggioranza della popolazione. Le situazioni sono molto diverse, a seconda anche degli spazi che erano stati lasciati prima del 1989 all’auto-organizzazione spontanea della società civile e quindi alla creazione almeno in embrione di una classe dirigente nuova.
D’altra parte, se spostiamo l’attenzione al secondo termine del binomio, e guardiamo alle “realizzazioni” dei sistemi socialisti prescindendo dalla loro corrispondenza agli ideali del socialismo, non potremo non riconoscere, credo, che esse hanno cambiato il volto delle realtà in cui hanno preso forma, e non solo in peggio. Per quanto riguarda la Russia, non c’è dubbio che la Rivoluzione d’ottobre fu un fattore possente di modernizzazione del paese: in quarant’anni, l’Urss si trasformò da paese arretrato ed essenzialmente contadino in una grande potenza industriale. In effetti, nella seconda metà del XX secolo il modello di comunismo sovietico divenne prima di tutto un programma per trasformare i paesi arretrati in paesi avanzati, una specie di scorciatoia per la modernizzazione. Fra le due guerre, specialmente negli anni ’30, il tasso di crescita dell’economia sovietica superò quello della maggior parte dei paesi europei, e durante i primi quindici anni dopo la seconda guerra mondiale le economia del “campo” socialista crebbero in modo considerevolmente più rapido di quelle dell’Occidente. Nella misura in cui la modernizzazione può essere identificata con il progresso, è difficile negare che la Rivoluzione russa sia stata, e non solo in termini economici, un fatto progressivo. La trasformazione di un paese prevalentemente analfabeta in uno Stato moderno, con alti livelli di scolarizzazione e punte di eccellenza nella ricerca scientifica non è un dettaglio trascurabile. Per milioni di persone ha significato una via d’uscita dall’oscurantismo e dall’ignoranza, prospettive di avanzamento sociale e apertura di nuovi orizzonti culturali. E su scala più ridotta il fenomeno si è riprodotto in quelle “democrazie popolari” che scontavano un passato di arretratezza (tutte, cioè, ad eccezione della Cecoslovacchia e dalla DDR).
Naturalmente i prezzi di questa modernizazione sono stati estremamente pesanti in termini sociali ed umani, e i successi raggiunti nell’industrializzazione non sono stati mai eguagliati nell’agricoltura e nella distribuzione; resta inoltre aperto il problema se fossero percorribili alternative meno cariche di “lacrime e sangue”. La maggior parte dei paesi che sperimentarono il “socialismo reale”, non è inutile ricordarlo, aveva conosciuto soprattutto regimi autoritari o forme di democrazia come minimo monche: le elezioni che vi si svolgevano prima della seconda guerra mondiale non erano molto più libere di quelle ebbero luogo dopo il 1947. Raffigurare la loro “sovietizzazione” come uno sprofondamento dal regno della libertà in quello della dittatura costituisce quindi una forzatura. Per contro è innegabile che fu spezzato una volta per tutte il potere di classi dirigenti rapaci e corrotte (specialmente i grandi proprietari terrieri) e che un modesto tenore di vita fu assicurato a tutti, con un allargamento dei diritti di cittadinanza sociale. Ciò non significa necessariamente che queste realizzazioni non avrebbero potuto compiersi anche con un modello diverso da quello socialista, né che non potessero essere conseguite con minori costi sociali ed umani, con un grado più alto di partecipazione popolare e con un maggiore livello delle libertà fondamentali: ma qui ci si avventura sul terreno sempre impervio della storia controfattuale.
Quello che è impossibile ignorare è che, comunque, all’eredità del “socialismo reale” appartengono anche queste profonde trasformazioni economiche, sociali e civili.Il problema è che, a partire da un certo momento, queste trasformazioni cessarono di essere il volano di un progresso generale delle società di cui avevano cambiato il volto. E quelle società sempre più si avvilupparono nelle contraddizioni di una crescita senza sviluppo, nell’impossibilità di un’autoriforma (come emerse drammaticamente nel 1968 in Cecoslovacchia); alla fine persero la sfida con il capitalismo anche sul piano economico. Sul piano politico, la sfida l’avevano già persa fin dall’inzio degli anni Cinquanta, quando la repressione, il controllo onnipervasivo della polizia segreta, il soffocamento della libertà intellettuale e delle forme di auto-organizzazione della classe operaia, la schlerositazione di una burocrazia sempre più distante dai cittadini divennero il loro tratto dominante e rovesciarono le promesse del futuro socialista nella sua negazione.