Totalità e differenza del pensiero comunista

1. Nell’abbandono di ogni visione unitaria e dialettica della società e della storia va individuata una tra le cause principali della deriva culturale e politica della sinistra e del movimento operaio cui abbiamo assistito nel corso del drammatico decennio seguito al crollo del Muro di Berlino e alla fine del “campo socialista”. I processi di restaurazione capitalistica nei paesi dell’est e i conseguenti drammatici arretramenti del movimento operaio dell’Europa occidentale di fronte alla violenta controffensiva neo-liberista di questi anni, insieme alle gravi sconfitte dei movimenti antiimperialisti in Asia ed in Africa, l’insieme complesso e contraddittorio di questi processi, troppo frettolosamente e superficialmente letti da larga parte della cultura di sinistra, anche di matrice “comunista”, come il definitivo esaurimento non solo del ciclo storico iniziato dalla rivoluzione d’Ottobre ma anche addirittura di ogni idea “tradizionale” di emancipazione sociale e collettiva, hanno infatti, creato un terreno storico particolarmente favorevole all’emergere e al diffondersi di visioni del mondo e della storia, di tipo irrazionalistico e soggettivistico, caratterizzate da una sostanziale sfiducia nella possibilita di una conoscenza razionale ed oggettiva dei processi storici reali e, soprattutto, del loro significato complessivo. Di qui i tanti discorsi teorici, particolarmente in voga non solo nella cultura della sinistra moderata ma anche in quella della sinistra antagonista, sulla presunta obsolescenza di ogni idea di storia come processo unitario e progressivo, rifiutata in quanto “metafisica” o addirittura “totalitaria”, quindi sulla stessa “fine della storia”, premessa della sua frammentazione nelle tante storie particolari dei gruppi, delle regioni, e perfino dei singoli individui. Non è chi non veda il carattere essenzialmente regressivo e reazionario di tali discorsi; carattere cui si lega la loro sostanziale dipendenza dall’ideologia borghese tipica del periodo imperialistico, caratterizzata da una versione particolarmente esasperata e decadente dei suoi valori individualistici e dal rifiuto di ogni idea di razionalità oggettiva della realtà e della storia.
Dentro questo quadro storico e teorico occorre collocare l’ideologia differenzialista, caratterizzata da un vero e proprio culto della differenza e della particolarità, polemicamente contrapposto ad ogni soffocante idea di totalità storica e perfino di universalità del genere umano che, sia pure, talvolta, travestito e opportunamente camuffato con un linguaggio di sinistra e radicale, non per questo risulta meno dipendente dall’armamentario filosofico ed ideologico di quella tradizione di pensiero controrivoluzionaria che, iniziata da Burke e sboccata in Nietzsche ed Heidegger ha fatto, come alcuni importanti lavori di Domenico Losurdo ci hanno mostrato, della critica nominalistica ad ogni categoria di “totalità” e di “universalità” il suo principale cavallo di battaglia teorica e politica contro tutte le idee di emancipazione universale dell’umanità, figlie della modernità e della rivoluzione francese. Non a caso contro l’intera tradizione della razionalità politica moderna si pone, esplicitamente, un libro come Empire di Negri e Hardt, le cui tesi anarchiche e insieme apologetiche sulla globalizzazione come crisi irrreversibile di ogni forma di mediazione razionale dei conflitti, in quanto tale, oppressiva e soffocatrice dei bisogni immediati delle “moltitudini”, e quindi come potenziale e positiva esplosione vitalistica di tutte le differenze di là da ogni loro possibile sintesi politico-razionale, hanno già conosciuto un largo successo tra le file del movimento no-global. Del tutto coerentemente con tali tesi si sostiene, in sostanziale armonia con l’ideologia dell’attuale riformismo socialdemocratico, la fine della centralità della classe operaia come soggetto centrale dell’emancipazione universale di tutti gli altri gruppi sociali oppressi, in nome della differenza e molteplicità ormai non più componibile dei vari interessi sociali e individuali, così come essi si danno non solo sul terreno più strettamente economico e della produzione, ma anche e soprattutto su quello degli apparati della riproduzione sociale e più in generale delle sovrastrutture. Dove estinzione della classe operaia come soggetto centrale della trasformazione e differenzialismo antiuniversalista ed antimoderno appaiono in questo caso strettamente legati. Nella medesima direzione si muovono anche le varie forme di pensiero debole e nichilista che raffigurandosi la società capitalistica non più come una totalità organica e strutturata ma, al contrario, nei termini di un’astratta società di mercato atomizzata, fanno della molteplicità e della differenza tra i vari cittadini consumatori e dello loro supposte libere ed incondizionate scelte di mercato, la base stessa di un’idea nichilistico-libertaria di emancipazione dell’individuo da ogni identità storico-collettiva o semplicemente universale. Non sarà certo un caso che uno dei principali teorici italiani del pensiero della differenza come Gianni Vattimo abbia salutato con particolare gioia l’intenzione di Occhetto e di una parte del gruppo dirigente del PCI di dar vita, dopo l’avvenuto scioglimento del partito fondato da Gramsci e da Togliatti, ad nuova formazione politica solo genericamente “di sinistra”, a rigore non più un partito nel senso tradizionale del termine, ma semplice sommatoria delle varie culture critiche (dal riformismo laico all’ecologismo al differenzialismo femminista) in rotta con ogni idea unitaria di trasformazione. Perfettamente coerente con i principali assunti teorici del pensiero della differenza, primo fra tutti l’idea dell’ormai consumatasi fine di ogni soggettività collettiva in grado di elevarsi alla conoscenza della totalità del reale e di assolvere perciò ad una funzione storica universale, si rivela infatti l’idea, che stava alla base di quello che si potrebbe definire l’occhettismo, quella cioè della avvenuta scomparsa della classe operaia non tanto come gruppo sociale particolare quanto come classe generale, potenzialmente in grado quindi di incarnare, attraverso il superamento di ogni ristretto orizzonte corporativo e la conseguente acquisizione di una funzione egemonica nell’insieme della società, il punto di vista della totalità storica.
La critica teorica e politica di ogni forma di differenzialismo insieme con la denuncia del suo esito fatalmente nichilista devono costituire uno tra i momenti principali della lotta ideologica dei comunisti. Occorre far emergere, nel senso comune di massa, la sostanza squisitamente ideologica per non dire apologetica del pensiero differenzialista, nonché la sua organicità all’ideologia borghese del pluralismo del mercato. Un pluralismo differenzialista al quale si mostrano subalterni anche taluni spezzoni della stessa sinistra antagonista e del movimento no-global e contro cui i comunisti hanno il dovere di condurre una efficace critica ideologica e politica.

2. Di fronte a tale deriva, si impone alla sinistra e in particolare ai comunisti una ridefinizione del loro rapporto con la grande tradizione del razionalismo e dell’universalismo moderni che in Hegel ha trovato la sua espressione più alta e matura e dalla quale Marx ed Engels hanno preso le mosse. Non si tratta di riproporre una visione ingenuamente lineare o schematica della razionalità del reale storico, e neanche di riproporre, di contro alle diverse varianti dell’ideologia differenzialista, un’idea economicistica della centralità del proletariato come soggetto universale, ma di tornare a riflettere con maggiore consapevolezza a quella che già all’origine fu la base filosofica dell’operazione teorica cui procedettero, sviluppando alcune fondamentali indicazioni di Lenin, i comunisti al momento della loro nascita: la riscoperta della logica dialettica hegeliana assunta a imprenscindibile base teorica per una rinascita del marxismo, non più soltanto come dottrina economico-politica, ma ben più profondamente come autonoma concezione generale del mondo e della storia. Da allora le categorie hegeliane di “totalità” e di “universalità” vennero sempre assunte dalla cultura filosofica e politica del movimento comunista internazionale, soprattutto nei suoi momenti più alti e fecondi, come strumenti teorici indispensabili per una analisi obbiettiva del divenire storico sociale in grado di scorgere e definire di là dall’apparenza fenomenica dei movimenti e dei cambiamenti di superficie, le linee essenziali e profonde, le tendenze strategiche dei processi reali. A partire da tali categorie, i comunisti seppero sviluppare, sia pure tra limiti ed errori anche gravi, una formidabile critica teorica e politica ad ogni forma di riformismo, individuando in quest’ultimo proprio il riflesso politico dell’incapacità teorica della cultura positivistica del movimento operaio socialdemocratico di allora, di cogliere nel loro nesso reciproco e quindi nel loro essenziale rapporto dialettico con la totalità della formazione sociale dominata dal modo di produzione capitalistico, le pur diverse e specifiche dinamiche dei vari settori e sfere della società. Nel criterio logico-scientifico della priorità del “tutto” rispetto alle “parti”, dell’ “universale” rispetto al “particolare”, la cultura comunista ha così individuato una delle basi teoriche della rifondazione rivoluzionaria della teoria marxista, nella lotta per fare uscire quest’ultima dalla subalternità nei confronti della cultura e della scienza tardo-borghesi; subalternità, alla quale era stata ridotta dal riformismo socialdemocratico, proprio in conseguenza dell’abbandono della categoria hegeliana e marxiana di totalità. In quanto scienza della totalità sociale, in grado di superare l’astratta e rigida separazione tra le scienze particolari della natura e della storia, caratteristica della concezione borghese del sapere ed immediato riflesso della divisione sociale capitalistica del lavoro, il marxismo veniva, infatti, riscoperto dai comunisti come autonoma concezione generale del mondo, visione organica e complessiva insieme della natura e della storia. In questo senso la vicenda teorica e politica del movimento comunista coincide, a partire dalla grande lezione teorico-politica di Lenin e dalla sua profonda rilettura di Hegel, con la storia della riscoperta dell’autonomia del marxismo come teoria dialettica della totalità. Teoria che consentiva finalmente, di contro ad ogni metodologia supposta “scientifica”, di tipo puramente formalistico o positivistico, di studiare i cosiddetti “fatti” non più nella loro statica astrattezza, nella “morta oggettività”, avrebbe detto Hegel, cui li costringeva lo studioso cosiddetto specialista, ma piuttosto nella loro vivente connessione reciproca e di conseguenza nel loro concreto movimento dialettico. Le stesse dinamiche “oggettive” dei processi economici, lungi dal poter essere indagate isolatamente, in una sorta di fissazione ed irrigidimento “naturalistici”, come un ingenuo marxismo economicista aveva fino ad allora ritenuto, andavano quindi riportate nel contesto dei loro concreti nessi con i più generali processi sociali e politici. In questo senso la riscoperta del tema hegeliano della totalità si intrecciava in modo strettissimo con la grande questione della soggettività e della prassi rivoluzionaria. Questione che il marxismo economicista della II Internazionale, aveva finito, in conseguenza di una lettura banalmente oggettivistica del primato materialista della struttura, per accantonare del tutto. In radicale opposizione a questa lettura, a ragione ritenuta responsabile di tutte le deviazioni opportuniste del movimento operaio della II Internazionale, il movimento comunista rimetteva al centro della riflessione teorica e politica, proprio attraverso la ripresa della categoria della totalità, intesa come unità inscindibile tra struttura e sovrastruttura, tra economia e politica, il problema della costruzione di una coscienza politica rivoluzionaria in grado di misurarsi con l’insieme delle contraddizioni della società borghese giunta ad una fase estrema del suo sviluppo, quindi con le forme fenomeniche enormemente più complesse e articolate che la totalità in movimento della formazione sociale capitalistica era venuto assumendo, sia sul piano della produzione immediata che su quello della riproduzione sociale del consenso, nel tentativo di gestire e assorbire le sue insanabili contraddizioni, non solo economiche ma anche politiche. La logica dialettica di Hegel era lo strumento teorico che consentiva una lettura non statica o schematica ma aperta e dinamica della totalità capitalistica, in grado, cioè, di cogliere insieme con la sua struttura, pur sempre data dal modo di produzione capitalistico, scientificamente analizzato da Marx, il suo movimento storico concreto risultato delle sue interne ed immanenti contraddizioni e insieme delle dinamiche reali dei contrasti politici e di classe, per non parlare dei conflitti, così caratteristici del periodo imperialistico, tra stati e nazioni.
La totalità storico-sociale veniva allora a configurarsi sulla base dell’insegnamento di Lenin, di là da ogni astratto schema economicistico, come una unità complessa, nella quale universalità e particolarità, totalità e differenza, oggettività dei processi e ruolo delle soggettività politico-storiche organizzate, appaiono stretti in un nesso dialetticamente indissolubile.
Il primato leniniano della politica, nella sua dimensione sia partitica che statuale, e la connessa teorizzazione gramsciana dell’egemonia e del blocco storico come terreno fondamentale della formazione della coscienza di classe, lungi dal potere essere interpretati come una deformazione di tipo soggettivistico o idealistico della teoria di Marx, devono a rigore essere letti all’interno di questo specifico quadro teorico, caratterizzato da una fortissima tensione alla conoscenza della totalità oggettiva della realtà storica. Ed è da questo quadro teorico, che i comunisti italiani guidati da Togliatti hanno saputo calare nel concreto della storia e della società italiane, che bisogna ripartire per la ridefinizione di una nuova prospettiva organica nella lettura delle nuove trasformazioni della società capitalistica, che sia in grado di individuare le nuove e molteplici contraddizioni che essa genera (da quella ambientale a quella tra i sessi), in tutta la complessità e diversità delle loro forme, senza al contempo smarrire il carattere di totalità della formazione sociale borghese. Solo una tale prospettiva può evitare la ricaduta non solo di ciò che è rimasto del movimento operaio ma anche di chi si vuole impegnato nel progetto di una rifondazione comunista, in una sorta di cultura radicale che, priva di un saldo ancoraggio ad una visione organica e strutturale dei processi reali, finisce per limitarsi ad una sterile e del tutto inoffensiva rappresentazione della molteplicità sparsa dei vari interessi e bisogni della società. Solo una salda prospettiva dialettica può, in altri termini, salvarci dal pericolo di cadere nella mistificazione dell’ideologia borghese e del suo ipocrita pluralismo.